8. Sia fatta la luce, e luce fu
Harry
Selena impiegò meno tempo del previsto per raggiungermi in cucina, ma il rumore che fece quando andò a sbattere contro una sedia, quasi cadendo per terra, fu abbastanza da impedire quel piccolo complimento sulla sua rapidità a cambiarsi che avevo quasi intenzione di farle.
«Non vedo niente,» la sentii bisbigliare. «Harry?»
«Ferma lì,» risposi. «Prima di causare altri danni e svegliare anche il barbone che dorme a venti isolati di distanza».
Al buio, ero comunque in grado di orientarmi perfettamente bene, e in un paio di falcate, raggiunsi la cassapanca delle pistole. Le tastai ad una ad una, prendendo in mano una torcia e le due Beretta che preferivo: calibro nove.
«Sai sparare?» le chiesi, fermandomi a qualche passo da dove vedevo la sua sagoma appena accennata dalla luce della luna.
«Cosa?» lei quasi rise. «No, Harry-»
«Ti pareva...» borbottai, riponendo entrambe le Beretta nella cintura dei pantaloni.
«-E gradirei se mi spiegassi perché diamine mi hai svegliata alle tre del mattino-»
«Una torcia la sai usare?» la interruppi, accendendo l'aggeggio e puntandoglielo dritto in faccia. Illuminai per un attimo i suoi occhi azzurro grigiastro, prima che si voltasse dall'altra parte per non essere accecata.
«Passa qua,» disse, allungando la mano e afferrando l'unica fonte di luce dell'intera stanza. «Certo che la so usare».
«Mi sorprendi,» sghignazzai. «Bravissima, complimenti».
Io, le scarpe le avevo già addosso, al contrario di Selena, dunque un altro paio di minuti passarono prima che uscissimo effettivamente dall'appartamento, tempo che le era servito per infilarsi una giacca a vento e il suo paio di scarponcini.
«Posso sapere perché, Harry?» la sua voce, e la luce della torcia erano ciò che ci guidavano giù per le scale, lei qualche passo davanti a me.
«Perché cosa?»
«Sai benissimo cosa,» sibilò, aprendo la porta e uscendo all'aria aperta. Il cortile buio, il cielo buio, le strade buie, un po' come mi ero sentito io, in quei due giorni. La cosa più folle di tutte era, poi, che non mi ero sentito buio a causa di mia madre o il resto di quelli che non c'erano più, ma a causa di Selena. Lei, e quella sua stramaledetta capacità d'essere riuscita a farmi quasi sentire in colpa.
«Perché due più due fa quattro? O perché due più due non fa cinque?» sbuffai. «Andiamo, Selena. Ci sono un mucchio di perché, non ti aspetterai che io sappia leggerti nella mente e capire al volo di cosa cazzo stai parlando, vero?»
Si fermò nel bel mezzo della strada, appena fuori il piccolo giardino dell'albergo, si voltò verso di me e mi puntò il raggio di luce artificiale dritto negli occhi. «Perché adesso ti sei degnato di parlarmi? Perché mi hai svegliata nel cuore della notte? Perché-»
Brusco, la interruppi: «non sono tenuto a risponderti,» e ripresi a camminare.
«Almeno dimmi dove stiamo andando,» sbuffò ancora, apparendo al mio fianco. «Insomma, stavo dormendo così bene, mi merito una spiegazione, no?»
«No, in realtà no,» e quando la sentii maledirmi sottovoce, un sorrisetto spuntò sulle mie labbra. Aspettai qualche attimo, poi «alla centrale elettrica,» mi arresi. «Riaccendiamo la luce».
«E tu credi io abbia qualche capacità di elettricista?» il suo tono ironico non faceva altro che farmi divertire sempre di più.
«Certo che no, Sel,» dissi. «Tu mi farai da palo».
«Non avresti potuto chiamare Liam o Niall o Zayn o Louis?»
«Avrei potuto».
«Perché me, allora?»
«Così,» feci spallucce. Il bello era che neanche io avevo idea del perché avessi chiesto a lei di accompagnarmi. Pensandoci, avevo fatto una cazzata immane. Più di una cazzata. «Sei tu che ti lamenti sempre a stare in casa, e adesso che ti porto fuori ti lamenti ancora?»
«Non mi sto lamentando affatto. Vorrei solo capire le dinamiche del tuo strano cervello,» quasi inciampò nei suoi stessi piedi, e fu solo afferrandosi alla mia giacca che evitò di finire faccia a terra. «E poi scusa, ma non è pericoloso?»
«Smoke Town di giorno è peggio, credimi,» replicai. «Inoltre sei con me, non con quell'incosciente di Niall».
«Niall non si fa picchiare a sangue, da quello che ho visto,» osservò. «Niall non va ad attaccar briga con chiunque gli capiti a tiro».
Storsi il naso, contrassi un poco la mascella per il fastidio che la sua affermazione errata mi stava dando, e automaticamente il dolore al fianco e al braccio tornò. «Beh, per tua informazione, neanche io lo faccio,» dissi. «Gli inconvenienti capitano a tutti».
«Ma non mi dire...» bofonchiò, mettendo fine al nostro scambio di parole, il primo dopo praticamente due giorni.
E fu con il silenzio fra di noi, che tornarono strisciando nel buio i pensieri che stavo cercando di reprimere. Acquattati e ben nascosti, avanzavano lentamente ogni qualvolta la mia guardia si abbassasse, per ghermire la mia mente con i loro artigli ad uncino. E facevano male. Dio, se non facevano male.
Forse, però, non stavano tornando proprio a causa del silenzio: alla fine, il cerchio si chiudeva sempre lì, sempre a ridosso delle mie sconfitte, sempre, sempre e sempre veniva ricondotto al dolore, alla perdita, alla morte. Non era colpa di Selena, o del silenzio. Era solo colpa mia.
«Quanto manca ancora?» il sussurro lieve da parte della ragazza, e il suo sbattere dei denti, mi distasse momentaneamente da ciò che mi torturava internamente, quel dissidio che non ero ancora riuscito a scacciare, e che mai se ne sarebbe andato.
Sospirai, «non molto,» feci io. «La zona vicina alla centrale è piuttosto popolata, quindi evita di fare rumore».
E avevo ragione. Dopo pochi minuti, la strada che stavamo percorrendo divenne uno spiazzo aperto -una volta usato come parcheggio, ormai in disuso- e una grande recinzione circondava un altrettanto grande edificio, dove sapevo si trovavano tutti i generatori che fornivano corrente elettrica alla periferia di Smoke Town. Non sarei stato tanto desideroso e ansioso di riaccendere quei generatori, se non avessi saputo cosa sarebbe successo quando le persone che ancora avevano luce nelle loro case, si fossero svegliate vedendo che non funzionava.
«Ci siamo,» dissi, fermandomi davanti alla recinto arrugginito. «Sai scavalcarlo o dobbiamo fare il giro?»
«Certo che so scavalcarlo,» dal suo tono di voce, probabilmente aveva alzato gli occhi al cielo.
Incastrai la punta del mio piede destro fra due di quei fili metallici intrecciati tra di loro, e «perfetto,» borbottai, issandomi fino alla cima, lasciandomi poi cadere al suolo all'interno del cortile della centrale.
Selena fece lo stesso, passandomi prima la torcia così da avere ambedue le mani libere, e scoprii che non aveva mentito quando aveva detto di saper scavalcare quella recinzione.
«Harry?» chiese, riprendendosi la nostra unica fonte di luminosità. «L'hai già fatto?»
«Fatto cosa?»
«Riattaccato la corrente,» precisò.
Scossi la testa. «Non sarebbe compito mio, in realtà».
«Perché oggi lo fai?»
«Se vuoi un lavoro fatto bene, fattelo tu stesso,» la guardai di sfuggita, quel tanto da notare le sue sopracciglia corrucciate e il suo sguardo diretto all'edificio davanti a noi. «Se aspettiamo che sia il sindaco della città a riaccendere la luce, allora buona fortuna».
«James Smoke, no?» mormorò, e il fatto che conoscesse quel piccolo particolare mi fece accigliare. Non l'avevamo mai nominato con lei presente. «Niall mi ha detto un paio di cose su di lui».
Niall. Ti pareva. «Cose tipo cosa?»
«Che è un bastardo, soprattutto. E che governa Smoke Town come una specie di tiranno,» replicò Selena. «Io avevo sentito il suo nome prima che Niall me ne parlasse, però. Anni fa, quando-» si bloccò di colpo, lasciando che la sua voce si smorzasse.
«Quando?» alzai un sopracciglio.
«No, niente. Probabilmente mi sbaglio,» scosse la testa. «È gentile da parte tua, comunque. Alzarti a quest'ora per fare una cosa che non dovresti neanche fare».
«Gentile?» risi in disapprovazione. «Non è un atto di gentilezza, il mio; è questione di dovere, Selena,» aggiunsi. «La luce è l'unica cosa che distingue quelle persone dalle bestie, e che le fa sentire civili. Toglili la luce, e tutto andrà a rotoli».
«Appunto, Harry,» sbuffò lei in risposta. «Se questa non è gentilezza, non so proprio cosa lo sia».
Scrollai le spalle, un lieve sbuffo di frustrazione mi scappò dalle labbra, «ferma qui, ci siamo,» replicai, arrestando la nostra camminata davanti all'edificio vero e proprio.
«Cambi argomento così velocemente quando sai che ho ragione,» sghignazzò lei.
«Dovremo usare una finestra rotta per entrare,» continuai, ignorando completamente ciò che lei aveva detto un secondo prima. «Quindi occhio a non tagliarti».
«Una finestra tipo questa?» con la torcia illuminò una fessura di un bel metro e mezzo quadrato, dove un tempo doveva esserci stato il vetro, avvicinandosi ad essa. Sempre con la torcia, ruppe i restanti pezzi taglienti dalla cornice, e usammo la mia giacca come ulteriore protezione da essi.
Per me fu un giochetto da ragazzi, entrare nella centrale, nonostante non fossi preparato ad un salto tanto alto dall'altra parte della finestra -doveva esserci un dislivello tra l'interno e l'esterno- ma per Selena lo fu un po' meno, forse per via dei suoi muscoli meno sviluppati dei miei, o le sue gambe più corte, o il suo non essere portata per nessun tipo di parkour.
«Guarda che non ne ho bisogno,» sbuffò, schiaffeggiando la mia mano stretta attorno al suo ginocchio, che tentava di aiutarla, lei seduta sulla cornice, pronta a saltare per arrivare sul pavimento dell'ufficio buio.
«Sel,» alzai gli occhi al cielo. «Taci, per una cazzo di volta. Se sei capace di atterrare senza romperti le caviglie, e senza sbattere la testa sull'armadietto in ferro lì davanti, accomodati pure».
«Bene,» ancora, sbuffò, passandomi la torcia, che posai ai miei piedi. «Come ti pare».
Dovetti alzare il viso per guardare il suo, che se ne stava molto più in alto, tanto in alto che per afferrare la sua vita faticai parecchio; solo quando Selena si sporse verso di me, le mie mani trovarono il suo corpo, frenando la sua discesa verso il pavimento.
«Grazie,» borbottò, una volta stabile, a terra, allontanandosi di qualche passo da me e riprendendosi la torcia. Illuminò quello che doveva essere un vecchio ufficio, e sulla parete vicino alla porta stava appesa una piantina della centrale, dove era indicata la zona di controllo con i quadri elettrici che interessavano a noi.
Si articolava tutta su un piano, quindi niente scale. Non era neppure tanto distante da dove stavamo noi, ed era davvero un bene. Avremmo fatto presto.
«Prima le signore,» dissi, a bassa voce, aprendo la porta e facendo uscire Selena dalla stanza. Non era poi così diversa dalla centrale che procurava la luce al centro città, se non le sue dimensioni nettamente inferiori. Bastava notare la differenza di metri quadrati di zona esterna, dove se ne stavano pali e cavi e strane apparecchiature che a me non interessavano, per capirlo. Il centro di Smoke Town era il favorito, ovviamente, con la sua acqua pulita, il riscaldamento, la corrente a tutte le ore, i locali, l'ospedale. Lì si viveva anche bene, al contrario di qua.
«In teoria dovrebbe essere questa,» Selena si fermò di colpo, aprendo una porta che era stata lasciata socchiusa. All'interno, illuminò una serie di leve e pulsanti, computer vecchi e spenti, radiotrasmittenti e quant'altro, con una bella vista sul buio fuori dalla finestra, dove si intravedevano, in lontananza, le schiere di case lasciate a marcire, un po' come la centrale stessa.
«È questa, sì,» annuii. «Muoviamoci».
«Sai come si fa?»
Mi avvicinai alle varie leve, cercando di decifrare le parole scritte a penna sopra di esse. «Bisogna alzare quelle giuste,» mormorai. «Credo».
«Credi?» rise nervosamente.
«È difficile sbagliarsi, Selena. Quelle che si sono abbassate quando è saltata la corrente vanno rialzate».
«Ce ne sono troppe,» protestò. «Come facciamo a sapere quali erano alzate in precedenza e quali devono restare abbassate?»
Sbuffai, preso in contropiede dalla sua giusta osservazione. «Fammi luce qui,» dissi. «Sopra ogni leva c'è indicato il quartiere o il distretto a cui appartiene. Basta ricordarsi quali hanno la corrente e quali no».
«Te li ricordi sul serio?»
Alzai gli occhi al cielo. «Conosco Smoke Town come le mie tasche, Sel,» le feci sapere, e «vivo qui da quando sono nato,» aggiunsi. «Certo che me li ricordo».
«Che cosa triste, però,» udii il suo sospiro rammaricato che ruppe l'immobilità dell'aria.
«Cosa?»
«Il fatto che abiti qui da quando sei nato... non ti sta un po' stretta, Smoke Town?» domandò. «Insomma, non è neppure carina-»
«Io sono nato quando ancora si chiamava Denville,» la interruppi, brusco, girandomi a guardarla. «Non giudicare una città intera per le azioni di un uomo solo. Una volta era un posto meraviglioso in cui vivere».
Con quella mia frase tagliente, sputata con un po' troppa cattiveria, Selena si ammutolì. Aprì la bocca per ribattere, ma l'occhiata che le rivolsi la dissuase a dire quello che aveva in mente di dire. «Forse è meglio sbrigarci,» sussurrò, solo quando smisi di fissarla. «Se mi dici quali leve alzare-»
«Faccio io,» scossi la testa. «Tu devi solo illuminare i cartellini. Non toccare niente, che fai solo danni».
Con l'aiuto della torcia, ora che la sua voce fastidiosa non era lì a distrarmi, iniziai ad armeggiare con le sbarrette metalliche, alzandole ogni qualvolta il nome a cui corrispondevano era un quartiere che sapevo aveva la corrente. Arrivai al Diamond River District, al Kitchell e al Whitman, per illuminare finalmente il Morris, dove Liam, Zayn, Louis e Niall ancora dormivano, molto probabilmente.
«Finito,» annunciai. «E luce fu». Mi aspettavo un commento felice e lieto da parte di Selena, ma rimasi interdetto quando mi accorsi che non era felice affatto.
«Harry,» borbottò infatti. «Non mi sembra giusto... insomma, gli altri quartieri restano al buio?»
Contrassi la mascella. «Non ci posso fare niente».
«Certo che puoi,» sibilò. «Alza tutti gli interruttori».
«Sel-»
«Parlo sul serio. Perché non possiamo dare la luce a tutti? Insomma, hai detto tu stesso che luce è speranza e civilizzazione. Perché fare questa differenza fra quartieri?» continuò, facendo qualche passo nella direzione di comandi che non avevo toccato e che non andavano toccati.
«Finiremo nei guai, lo sai vero?» l'ammonii.
«Solo se scoprono che siamo stati noi,» ribatté. «Per favore, Harry».
Spostai gli occhi da lei ai pannelli di controllo, velocemente, quasi in modo frenetico, prima di sbuffare e raggiungerla in un paio di falcate. «Al diavolo James Smoke e le sue leggi di merda,» ringhiai, sollevando la leva che avrebbe ridato l'elettricità al Franklin District. Al ché, una piccola reazione a catena si innescò nelle mie mani, che incominciarono ad accendere luci su luci: era davvero giusto così.
Hill Street, Rockaway District, Amber Lane, Jackson Avenue.
Mi fermai di colpo.
Jackson Avenue. Merda.
Selena doveva aver notato il mio improvviso cambio d'umore, perché «che c'è?» chiese, avvicinandosi.
«Non tutte le luci dovrebbero essere riaccese,» mormorai, riabbassando la leva sotto il cartellino di Jackson Avenue, che lei prontamente andò a leggere.
«Perché? Cos'è? Che-»
«Vieni,» afferrai delicatamente il suo avambraccio, tirandola lontana dai pannelli, ma mollando la presa subito dopo. «Andiamo via, prima che succeda qualcosa».
«Però-»
«Devo farti vedere un posto,» continuai, interrompendola di nuovo. «Qui abbiamo finito».
. . .
Selena
Tirava un vento freddo, gelido quasi, che incanalandosi nelle stradine, soffiava doppiamente più forte. Mi strinsi nella giacca, seguendo i passi decisi di Harry, davanti a me, che non ci stavano riportando affatto all'albergo. Più volte gli avevo chiesto dove eravamo diretti, che posto voleva mostrarmi, ma ogni volta mi aveva risposto con un «siamo quasi arrivati, mancano cinque minuti,» e questo da almeno un quarto d'ora.
Ora che i lampioni erano tutti accesi, tranne quelli irreparabilmente rotti, Smoke Town era decisamente meno macabra. Certo, era pur sempre Smoke Town, ma Harry aveva avuto ragione nel dire che la luce era rivoluzionaria, e io avevo avuto ragione nel dire che era un atto di umanità e altruismo estremo, il suo.
Ci fermammo effettivamente venti minuti dopo aver lasciato la centrale di soppiatto, davanti ad un edificio altissimo, talmente alto che gli altri attorno erano una nullità a confronto.
«Diamond River,» disse lui, ad un tratto. «Il distretto dei vecchi uffici di lavoro,» spiegò, facendo un giro su se stesso e guardandosi attorno. «Questa è la Torre Verde,» indicò l'enorme costruzione che si ergeva davanti a noi. «James Smoke stesso ha voluto la sua costruzione, nei primi anni del suo governo».
«È davvero splendida,» osservai, notando come le finestre si incastrassero alla perfezione l'una con l'altra, e di come l'acciaio rilucesse alla luce della luna, stringendo nella sua morsa ogni pezzo che la componeva. «È tutta intera,» mi resi conto poi. Non c'era neanche un graffito, non un vetro rotto o un qualcosa fuori posto.
«È una zona vietata, per questo la vedi così bella,» spiegò Harry. «L'acqua verdastra del fiume Diamond si rifletteva sul vetro della Torre, dall'altra parte,» proseguì, avanzando verso la grande soglia. «I giochi di luce che creava erano meravigliosi».
«Non dovremmo essere qui, se è una zona vietata,» obiettai, storcendo il naso quando Harry abbassò la maniglia della porta, spalancandola.
Dell'interno non vidi quasi nulla a causa della scarsa illuminazione che procurava la mia torcia, ma un enorme lucernario posto al centro del tetto, fra le svariate rampe di scale, faceva entrare i raggi lunari dall'alto. «Muoviti, lumaca,» mi incitò Harry, salendo quegli scalini a due a due, io che correvo per stargli dietro.
Il mio oziare per un mese sul divano di casa sua si stava facendo sentire, perché dopo tre piani, le mie gambe già imploravano pietà, e dovetti fermarmi a prendere fiato un altro paio di volte, prima di raggiungere Harry sulla cima della Torre. Se ne stava appoggiato alla parete, a braccia conserte, disinvolto, come se più di quindici piani non lo avessero minimamente scalfito. «Dio, quanto tempo ci hai messo,» commentò, staccandosi dal muro e aprendo la porta tagliafuoco alle sue spalle. «Stavo per invecchiare».
Ignorai la sua frecciatina, ansiosa di vedere ciò per cui mi avesse trascinata fin lì; quando effettivamente misi piede sul tetto del grattacielo, resistetti all'impulso di gettargli le braccia al collo ed abbracciarlo come non avrei mai potuto fare.
Luci. Centinaia di luci attorno a noi, in cielo e in terra, prodotte dalle stelle e dalle case di Smoke Town, alle quali avevamo restituito quel dono, mi costrinsero a sgranare gli occhi e spalancare la bocca.
«Wow,» mormorai: non sapevo cos'altro dire. «È bellissimo, Harry».
Di tutta risposta, la sua mano finì agganciata al mio polso, trascinandomi con sé verso il bordo. «Non soffri di vertigini, vero?» domandò.
«No,» opposi però resistenza, quando cercò di farmi sedere vicino a dove stava lui, le gambe a penzoloni nel vuoto, e districai la mia manica dalla sua presa. «Ciò non significa che io non abbia paura di cadere e morire».
Harry roteò gli occhi, sbuffò, si passò una mano fra i capelli, alzandosi il cappuccio della felpa per ripararsi dal vento che ancora soffiava, e «credi davvero che io ti lascerei cadere?» disse. «Andiamo, Sel. Sii più temeraria, per una volta».
«Se cado mi avrai sulla coscienza,» lo ammonii, per poi cedere e prendere il posto alla sua destra. Il cemento era ancora umido di pioggia, ma l'aria che tirava, impetuosa, lo aveva asciugato ormai del tutto.
«Non ho mai visto Smoke Town così luminosa,» constatò lui, il suo sguardo perso sulla città.
«È bellissima, da quassù,» annuii. «Poi si vedono anche le stelle-»
La mia voce si spense piano, quando i miei occhi si focalizzarono su Harry, che era ancora concentrato sulle luci sotto di noi. Un sorriso leggermente accennato, fossette che gli bucavano le guance, lui che sospirava di tanto in tanto e sorrideva ancora. Era davvero bello.
«L'albergo di Joe è laggiù,» disse, all'improvviso, indicando una zona a sud ovest da dove stavamo noi. «La centrale poco più sopra, verso il confine con il centro».
«Vieni spesso qui?» domandai, seguendo con lo sguardo i punti che mi mostrava.
«Abbastanza,» replicò, con un sospiro che si perse al vento, facendo tornare il silenzio fra noi; non avevamo di certo bisogno di parlare, per apprezzare il panorama e il piccolo lavoretto da elettricisti che avevamo svolto. Alzarmi a quell'ora ne era sicuramente valsa la pena.
«In realtà volevo chiederti una cosa,» Harry si voltò nella mia direzione, facendo distogliere la mia attenzione da Smoke Town, per indirizzarla ancora una volta al suo viso. «Come sono morti i tuoi genitori?»
Boccheggiai, interdetta e sorpresa, percependo quella punta di nostalgia farsi strada nel mio stomaco alle parole di Harry. «Il tuo tatto mi sconvolge, sul serio,» sbuffai.
«Seriamente, Selena,» fece, anche lui sbuffò, e «mi interessa saperlo,» fece ancora.
«Perché?» lo guardai, assottigliando gli occhi e drizzando la schiena.
Scrollò le spalle. «Malattia? Incidente domestico? Incendio? Folgoraz-»
«Incidente d'auto,» mi arresi. «Avevo nove anni».
Harry pressò le labbra assieme, tornando a guardare verso l'orizzonte, che iniziava ad illuminarsi un pochino.
«I tuoi, invece?» osai domandare.
«Assassinati,» rispose solo, tenendo gli occhi puntati sulla città. «Cinque anni fa».
Da nero, il cielo ad est diventava via via più chiaro, e le stelle scomparivano ad una ad una, man mano che i minuti passavano. Il freddo ormai aveva penetrato il mio giubbotto, ma non avevo la minima intenzione di alzarmi; me ne rimasi lì con Harry, a fissare un punto impreciso nel vuoto sotto a noi, e mi ritrovai a pensare a quanto tutto sembrasse piccolo e insignificante, visto da quassù: ogni lampione, ogni automobile, ogni casa, tutto era trascurabile, e iniziai anche a pensare a quanto i nostri problemi lo fossero, se paragonati alla vastità del pensiero che uno poteva sviluppare. Effettivamente avevo pensato poco a mamma e papà, negli ultimi anni, perché, diamine, non erano più una priorità da molto, molto tempo. Io ero la sola a doversi occupare di me stessa, e la cosa richiedeva una certa dose di concentrazione. Harry, quella concentrazione, me l'aveva fatta perdere tirando fuori l'argomento genitori, che mi faceva rabbrividire quasi di più dell'aria gelida attorno a noi.
Poi, però, una strana sensazione di calore prese a diramarsi dal mio ginocchio. Istintivamente spostai gli occhi per vedere la causa che lo stava provocando, e «Harry,» mormorai, con un lieve sospiro, quando la sua mano strinse e strofinò la stoffa che copriva la mia coscia, svegliando la mia pelle intorpidita.
E mi decisi a guardarlo, facendo forse l'errore peggiore che avessi potuto fare: il suo viso era molto più vicino al mio di quanto non lo era stato il minuto precedente, così vicino che percepii il suo respiro sulla guancia, tiepido, che si raffreddava non appena veniva a contatto con l'aria fredda.
L'altra sua mano, quella che non stava stringendo la mia gamba, s'intrufolò fra i miei capelli, avvicinandomi a sé tanto da far sfiorare le nostre bocche quasi impercettibilmente, senza che si toccassero davvero; in quel momento, però, lassù seduti sul tetto della Torre Verde, non avrei desiderato altro che sentire le sue labbra sulle mie.
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