40. Se chiedi aiuto, ti ammazzeranno

Ormai sapevo a memoria la strada fino al mio posto di lavoro, alla villa – di solito c'erano già Sandra, Jean-Paul e Morgan – ma quando aprii la porta del nostro studio, dove io dovevo finire di sistemare gli scaffali di carte e documenti, mi accorsi che stranamente nessuno dei tre era lì, quella mattina.

C'era silenzio. Non un singolo ticchettio dei tasti delle tastiere dei computer, non un singolo fruscio di fogli archiviati, non un singolo respiro che poteva far pensare fossero lì.

Strano.

Mi tolsi la giacca e la poggiai sullo schienale di una delle sedie del tavolo, sospirando pesantemente. Mi guardai attorno, girando su me stessa, misurai la stanza a grandi passi. Non c'era davvero nessuno.

Decisi di finire di sistemare i fascicoli da dove li avevo lasciati, solo ieri – mancava veramente poco perché terminassi quel piccolo incarico che mi era stato dato – quando una voce gelida mi fece sobbalzare.

«Siamo in anticipo, oggi».

Mi voltai di scatto.

James Smoke in persona mi si presentò alle spalle, seduto al tavolo, dove fino a dieci secondi prima non c'era neanche l'ombra di una mosca. Aveva una tazza di tè fumante in mano, un'altra invece se ne stava davanti a sé; un sorrisetto compiaciuto stampato sulle labbra era la causa di rughe d'espressione agli angoli dei suoi occhi, e prima che potessi dire qualsiasi cosa, «siediti, ti prego. Ti ho portato una tazza di tè, Selena,» mi invitò a prendere il posto difronte al suo.

Deglutii. Nonostante la paura, che sentivo scivolarmi lungo la spina dorsale come una gelida carezza, non rifiutai. Come avrei potuto?

«Grazie,» annuii.

«Come stai stamattina, Selena?» mi incitò, con un cenno, ad assaggiare il tè. Che fosse avvelenato? Probabilmente non lo era, ma chi lo sa: se Niall diceva il vero e James voleva davvero uccidermi, con il veleno  non si sarebbe neppure sporcato le mani.

«Bene,» mentii, decidendo di tentare la sorte e prendere un sorso dalla bevanda. «E tu?»

«Potrebbe andare meglio, lo ammetto,» confessò.

«Dove... dove sono Sandra, Morgan e Jean-Paul?» domandai.

Smoke, di tutta risposta, ridacchiò sommessamente. «Ho concesso loro un paio d'ore di libertà, stamattina».

«Ma a me no,» osservai. «Perché?»

«Ah,» esordì, posando la tazza. «La vera domanda non è questa. Perché non mi chiedi ciò che vuoi veramente sapere, mia cara? Te lo leggo in faccia che hai paura, ma credimi quando ti dico che non ce n'è alcun bisogno».

Presi un profondo respiro. Mi tremavano le dita. Che fosse stato il tè, o avevo davvero così tanta paura come sosteneva lui? A me non sembrava, insomma, ero stata più terrorizzata di così molte altre volte, eppure non mi pareva neanche d'essere stata avvelenata: la bevanda era a posto, ergo dovevo essere io il problema.

Misi da parte la paura. «Cos'è che vuoi da me, James?»

«Ora ci siamo,» annuì lui. «Avevo bisogno di parlarti, ieri sera, ma i miei uomini sono tornati a mani vuote-»

«I tuoi uomini hanno ucciso Dalia, ieri sera».

Si accigliò. «Sì, Daniel ha accennato ad una sparatoria, ma non credevo...» la sua voce si spense per un attimo, e per un attimo credetti quasi di vedere una scintilla di dispiacere nei suoi occhi. Poi, però, disse: «Peccato. Un vero peccato. Pregherò per la sua anima,» e sorrise.

Dalia si stava decomponendo, vermi e insetti stavano mangiando la sua carne morta. Dalia, che profumava di lavanda e biscotti, ora puzzava di lerciume e di marcio. Dalia, che amava il sole, ora se ne stava in un buco sotto terra. E lui, intanto, rideva.

Mi venne la nausea. Avrei volentieri rimesso il tè che stavo bevendo.

«Su, non guardarmi così, Selena,» James si ricompose. «Tutti devono morire, prima o poi. Io, te, Harry... non è una cosa così sconvolgente».

La nausea saliva e non gli risposi. Sogghignò: «Volevo, in realtà, congratularmi di persona per la tua relazione con mio nipote. Sono davvero felice che Harry abbia finalmente trovato la sua dolce metà».

Se prima c'era un briciolo di speranza che la mia paura fosse rimasta all'interno del mio corpo, ora quella speranza si era volatilizzata nel nulla più puro. «Come l'hai saputo?» chiesi, dopo qualche istante di silenzio. «È stato Daniel?»

«Daniel? Oh, no... ho fonti molto più attendibili di lui,» rise. «Da quant'è che va avanti a mia insaputa la vostra storia? Se me l'avessi detto prima vi avrei fatto un regalo».

«Per quello volevi parlarmi, ieri sera?»

«Non proprio, no,» scosse la testa, prese un sorso di tè e per una decina di secondi rimase a guardare la bevanda non più fumante. «È piuttosto difficile da spiegare, a dire il vero, senza rivelarti cose di una rilevanza troppo grande perché tu possa conoscerle,» ricominciò. «In breve, ieri sera ho perso un fedele collega in seguito ad una piccola scorreria in città, una cosa da nulla...» mormorò. «Lavorava nel dipartimento delle finanze, si occupava delle azioni della mia azienda. Un compito parecchio importante, direi. Un compito difficile, pure,» fece una pausa, iniziando a rigirarsi un anello che teneva al dito.

Lo osservai attentamente, cercando di decifrare la sua espressione divisa tra lo stizzito e il rassegnato. «Ti avevo mandata a chiamare,» continuò. «Ieri sera, Selena: ho bisogno che tu prenda il posto del mio vecchio collega. Vedila come una promozione, un mio regalo in ritardo per congratularmi con te e Harry. Dovresti esserne felice».

«James,» sospirai. «Anche se volessi accettare, non sarei all'altezza di quel lavoro. Ti potrei far andare in rovina in un secondo, se sbagliassi».

«Mia cara, questo lo so!» esclamò. «Non sono così sciocco da affidare le azioni e la finanza ad una ragazzina mondana innamorata come te. Senza offesa, ovviamente».

«Allora non capisco...»

«Selena, Selena, fidati delle mie parole,» si alzò dalla sedia, spingendola indietro, per poi sistemarla com'era prima. «Presentati nel mio studio domattina, alla solita ora, e ti sarà tutto più chiaro. Inoltre, lavorando con me, potrai farmi tutte le domande che vuoi, alle quali io risponderò senza mentire. So che sei una persona curiosa, tu».

«Ma-»

«Non ammetto discussioni, che sia chiaro. Ci vediamo domani, alle otto in punto. Buona giornata».

Non feci tempo a replicare che era già uscito dalla stanza e si era chiuso la porta alle spalle, lasciandomi col cuore ancora terrorizzato, che a momenti sentivo sarebbe esploso, ed un ronzio fastidioso nelle orecchie, accompagnato dal rumore della sua risata gelida. Non riuscivo neanche a formulare una risposta possibile a ciò che era appena accaduto. Cosa era appena accaduto? Dalia era morta per un posto di lavoro, dunque? E Smoke cosa se ne poteva mai fare di me, fra tutti? Solo per colpa di ciò che sentivo per Harry?

Guardai in basso, verso la tazza di tè, e notai una lacrima caderci all'interno: nel punto in cui toccò la superficie marroncina della bevanda, fendendola e mescolandosi ad essa, si scaturirono piccole onde concentriche originate dall'impatto. Poi ce ne scivolò dentro un'altra, e un'altra ancora, e prima di accorgermene, stavo piangendo in silenzio, per non farmi sentire da eventuali orecchie in corridoio.

Piansi un po', piansi fino a che non mi calmai quel tanto da smettere di tremare, anche se stavo ancora singhiozzando sommessamente quando decisi di finire di sistemare l'ultimo scaffale dell'archivio, nel punto più lontano della stanza da dove si trovava la porta d'entrata.

Il tè lo lasciai lì, assieme alla giacca, e tirando su col naso mi incamminai verso dove le mie gambe mi stavano automaticamente portando. Non sapevo se ero nelle facoltà mentali di mettermi a riordinare i fascicoli in ordine alfabetico – una cosa semplicissima, ma in quel momento non avrei potuto dire neanche quale lettera venisse dopo la a, tanto ero scossa – eppure quella mattina, in realtà, di fascicoli non ne toccai neanche uno.

Un rivolo di sangue scarlatto strisciava sul pavimento bianco, avvicinandosi ai miei piedi sempre di più man mano che essi si muovevano in quella direzione: quando mi fermai nella corsia fra gli scaffali che avevo riordinato il giorno precedente, e quei due che mi mancavano da finire, dove il rivolo di sangue pareva provenire, pensai di essere diventata pazza, di avere le allucinazioni. Forse urlai un po'.

C'era Jean-Paul davanti a me, seduto su una sedia. Era la sedia che avevo utilizzato io per arrivare ai ripiani più alti. Era una sedia di acciaio, era una sedia sicuramente scomodissima da usare per sedersi, però. E Jean-Paul lo stava facendo tranquillamente.

Era nudo per metà: aveva indosso solo un paio di pantaloni neri. Per il resto, vedevo solo sangue. Aveva il collo rotto, perché una testa umana non poteva stare in quella posizione essendo attaccata alla spina dorsale. Ma il collo non era solo rotto, era anche tagliato, – ecco, sgozzato – di maniera che il capo quasi gli cadeva dalle spalle, ciondolando indietro, esponendo completamente la trachea scarlatta.
Aveva ancora addosso gli occhiali. Il suo petto era bucato in vari punti, perforato da tagli profondi, e sulle sue labbra, forse con un pennello, era stato dipinto un sorriso rosso e spaventoso.
La quantità di sangue ai suoi piedi sembrava troppa per un corpo solo. Sette litri? Erano tanti.

Ma poi sbattei le palpebre e Jean-Paul sparì. Non c'era né lui, né il sangue, né la sedia – o meglio, la sedia era dove l'avevo lasciata io il giorno prima, a destra della corsia, e per una manciata di secondi rimasi impalata sul posto, a fissare il corridoio vuoto. Non avevo neanche avuto il tempo di metabolizzare il tutto.

Che me lo fossi immaginato? O stavo immaginando che lui non c'era mentre in realtà era davvero morto, lì davanti a me? Scossi la testa, ma nulla era cambiato. Misurai lo spazio a grandi passi, eppure ancora niente: a quanto pareva, Jean-Paul non era mai stato là, sgozzato. Probabilmente James aveva messo davvero qualcosa nel mio tè, ed era stata solo una fugace, ingannevole allucinazione, la mia.

In ogni caso, non toccai neanche un fascicolo, quella mattina. Presi la sedia, la appoggiai ad uno scaffale e mi appostai ad aspettare, per le successive ore, il finire del mio turno.

. . .

Uscii dallo studio mezz'ora prima dell'orario stabilito – il silenzio ronzante della mia corsia era diventato così insopportabile, nelle ore successive a mezzogiorno, da farmi quasi impazzire. Harry mi aveva pure telefonata, ma io non avevo risposto. La sua era l'ultima voce che volevo sentire, in quel momento, e il suo viso era proprio in fondo alla lista dei miei pensieri e desideri. Volevo solo andarmene di lì, dalla villa, da Smoke, dalla città stessa, andarmene via, in un posto lontano e dimenticato da Dio, uno sputo di terra in mezzo al mare cristallino del Pacifico o qualcosa di simile. Harry poteva anche venire con me, se voleva, ma di restare incatenata alla sua città non ne avevo proprio l'intenzione. E quindi, nelle ore successive a mezzogiorno, avevo rimuginato e rimuginato sulle possibili soluzioni al mio – nostro – problema principale: James Smoke. Come sbarazzarci di lui senza far crollare Smoke Town? Come levare il filo di ferro dalla corteccia del bonsai senza far morire il bonsai?

Non mi venne in mente nulla. Non ne capivo niente di botanica e piante, meno che meno di boss mafiosi e città maledette, nonostante tutti i libri che avevo letto e tutte le esperienze che avevo collezionato in quasi vent'anni di vita.

Semplicemente, mezz'ora prima della fine del mio turno, mi alzai dalla sedia, presi le mie cose e uscii dalla stanza con quei tediosissimi pensieri a volteggiarmi attorno alle meningi: ora avevo anche mal di testa.

In corridoio, non c'era anima viva. Tutti erano presumibilmente al lavoro, o fuori nei giardini, o ancora, fuori dai cancelli e immersi nelle strade, e io, dal canto mio, mi affrettai per le scale di marmo cercando di evitare che le mie scarpe facessero troppo rumore, strofinandosi sulla superficie chiara.

Il silenzio della villa, però, venne interrotto da una voce familiare che si avvicinava, un po' furtiva, a dove mi trovavo io: «... no, no, no,» stava dicendo. «Non credo sappia nulla,» e mi nascosi, senza esitazione, dietro una delle grandi tende rosse ai lati delle vetrate del pianerottolo dopo il secondo piano.

Il mormorio era decisamente proveniente da Daniel, e sembrava stesse parlando al telefono. Con chi, chiaramente, non lo sapevo. Una sola cosa era certa: non voleva farsi sentire. Si muoveva a disagio, sembrava lui stesso a disagio, parlava sottovoce, indiscreto, come se stesse facendo una cosa sbagliata che nessuno doveva venire a sapere.
Sbirciai da dietro il tessuto cremisi, vedendo infatti la sua figura con il dispositivo all'orecchio.

«Senti, non dovremmo parlarne ora. Lo so che è importante, ma-» non capii quello che disse dopo. «Adesso?» continuò, fermandosi di colpo. «Okay,» sbuffò poi. «In ogni caso, Harry non sospetta di niente».

Nel sentire il suo nome, mi feci più attenta.

«Esatto. O almeno penso. E neppure James, se è per quello,» ci fu una breve pausa, poi: «Arrivo».

Daniel riattaccò e iniziò a camminare verso di me, nella direzione in cui stava andando prima di fermarsi. Mi schiacciai contro la tenda, per non essere vista, e lui mi oltrepassò svelto, senza dare segno d'avermi notata. La curiosità, ancora una volta, ebbe la meglio su di me e le mie azioni: non resistetti alla tentazione e decisi, in una frazione di secondo, di seguirlo. Anche solo per vedere dove stesse andando, non necessariamente per smascherare i suoi loschi affari – perché erano loschi, senza ombra di dubbio.

Daniel uscì dalla villa, facendo il giro del retro per tornare in città. Mi tenni a dieci metri buoni di distanza da lui, in modo da non farmi beccare, mentre percorreva le vie del centro fino ad arrivare alla periferia. Non ero mai stata da quelle parti, e se l'avessi perso di vista, non avrei saputo come tornare né alla villa, né all'appartamento, motivo per il quale accorciai quei dieci metri a cinque scarsi.

Il cancello di ferro battuto che separava le due zone di Smoke Town era stato sostituito con un muro, alto e imponente, come se questa porzione di periferia fosse, in qualche modo, più pericolosa, e servisse quindi una maggiore sicurezza. Probabilmente era così. Harry mi aveva parlato dei vari distretti e quartieri, e mi aveva detto che non ce n'era uno uguale ad un altro. Il Morris, dove stava l'appartamento di Joe, era uno dei migliori, – il ché era tutto da dire – ma ce n'erano altri, come Amber Lane e Hill Street che contavano più criminali che civili, bambini compresi.
Per non parlare di Jacks Ave, aggiungeva Niall.
Mio Dio, Selena, tieni il culo fuori da Jackson Avenue, enfatizzava sempre Harry. È un ordine.

«Non è sicuro qui,» una voce davanti a me, mi fece tornare bruscamente alla realtà. Alzai lo sguardo verso il grande muro: una scala in ferro battuto, simile a quelle anti incendio usate nei condomini, era l'unico modo per oltrepassare la barriera alta più di tre metri, e due uomini in divisa se ne stavano a fare la guardia alla base. Daniel era ormai sulla sommità.

«Lo so,» replicai. Feci vedere loro la tessera che Smoke mi aveva dato quando mi aveva assunta, dicendo che avevo una faccenda da sbrigare in periferia e che me la sapevo cavare da sola.

«Se urli, ti ignoreranno, se chiedi aiuto, ti ammazzeranno,» disse la guardia a sinistra.

«So anche questo,» mormorai.

«Bene,» annuì lui. I due si lanciarono un'ultima occhiata circospetta, prima di lasciarmi passare. Iniziai a salire i gradini di acciaio quasi di corsa, senza osare guardare giù, e una volta in cima, notai che Daniel era a meno di mezzo isolato di distanza da me, e mi affrettai quindi a scendere la scalinata, dall'altra parte, dove altre due guardie mi rivolsero un breve cenno di saluto.

Seguendo il cugino di Harry, mi addentrai per le stradine strette e malconce, sempre di più, cercando di non dimenticare da dove stavo passando così da non perdermi e poter ritrovare la strada per tornare indietro.

All'improvviso, però, un cartello stradale catturò il mio sguardo:

Jackson Avenue.

Mi fermai di colpo. Non potevo di certo andare a Jacks Ave. Un conto era la periferia, un altro era correre direttamente nelle braccia del clan più aggressivo di Smoke Town. Insomma, loro cacciavano, mi aveva detto Harry, e l'avevo pure sperimentata sulla mia pelle, la sete di sangue e di morte che caratterizzava quella gente. Aveva lasciato una cicatrice. Per giunta, il cielo si stava scurendo.

Daniel poteva anche farsi fottere.

Sbuffai, decidendo di tornare alla villa e rinunciando a pedinarlo, osservando mentre si allontanava sempre di più in quel quartiere. Magari l'avrebbero pure fatto secco.

Riuscii a fare solo un centinaio di metri, però, prima che le vie iniziassero a sembrarmi tutte uguali. Da dove ero passata, prima? Ricordavo quei cassonetti, ricordavo particolari delle case, ma non ricordavo da che parte avevo girato: destra o sinistra? Sembrava tutto simmetrico, lì, dalle strade alla disposizione degli edifici, e cominciai a sentire una nota di panico crescermi nello stomaco.

Chiama Harry, mi suggerì la mia coscienza, e lo feci senza esitare.

Rispose dopo il secondo squillo: «Sel, cazzo, stai ancora lavorando? Sono le sei passate-

«Harry...» presi fiato, e senza tanti giri di parole, «mi sono persa,» ammisi. Fu un duro colpo, quella consapevolezza, più per me che per lui. Per colpa mia, potevo lasciarci le penne, e no, dannazione, non volevo morire lì, per strada, non quel giorno.

«Come hai fatto a perderti in una villa?» ridacchiò.

Scossi la testa, guardandomi nervosamente alle spalle, cercando di non entrare nel panico. «No, no. Sono in periferia, poco distante da Jacks Ave».

Ci fu una pausa. «Stai scherzando? Ti prego, dimmi che questo è un fottuto scherzo».

«No...» sussurrai.

«Vengo a prenderti. Dove ti trovi, più o meno?» il suo tono era agitato, quasi tremante, mentre sentivo il motore della sua auto partire con un rombo.

Mi passai una mano fra i capelli. «Non lo so. C'è un... bidone della spazzatura nero vicino ad uno grigio-»

«Sel,» sbuffò, frustrato. «È irrilevante. Dimmi qualcosa che non ci sia in tutti i cazzo di vicoli».

«Okay, okay,» mi guardai attorno. «C'è una specie di... fontana e un filo della corrente con appese delle scarpe».

«Non ho idea di cosa tu stia parlando,» borbottò. «Di scarpe appese in giro ce ne sono a migliaia: indicano i posti in cui possono avvenire...»

«...gli scambi di droga, lo so,» finii la frase per lui. «Uhm... c'è una strana casa,» dissi, socchiudendo gli occhi.

«Strana?»

«È... bella. Molto bella, Harry,» ed era veramente insolito per la periferia, figuriamoci poi lì, sul confine con Jacks Ave.

«Descrivila».

«Ha la porta rossa. Edera curata che cresce sulle pareti dipinte di giallo. Piante sui davanzali. Proprio carina. Sarebbe bello vivere in una casetta del genere, un cottage in campagna o-»

«Concentrati, Sel,» ringhiò Harry, piano.

«Sì, scusa,» scossi la testa, facendo qualche passo nella stradina dove stava la strana abitazione.

«C'è un muro alla tua destra?» mi chiese.

«Sì».

«E c'è disegnato un lupo che ulula?»

«Beh, non sembra tanto un lupo,» osservai, guardando il murales. «Cioè, pare più un pastore tedesco-»

«Selena, cazzo, ti vuoi concentrare-»

«Sì, è un lupo che ulula, Harry,» dissi. «Disegnato di merda, ma credo sia un lupo».

Sentii Harry sospirare di sollievo. «Ho capito dove sei. Vai verso la porta rossa. Che numero civico ha?»

Feci come mi aveva chiesto, dando una rapida occhiata anche alle altre abitazioni. Sembravano tutte infestate dai fantasmi, tutte eccetto quella.  «4A».

«Bene. Ci vive un mio amico, si chiama Sam. Stai da lui finché non arrivo, okay? E non accettare niente di quello che ti darà da mangiare o da bere, intesi?»

«Okay. Grazie, Harry,» dissi. Già mi sentivo meglio.

«Sta attenta,» replicò, prima di riattaccare. Mi feci coraggio e salii i due gradini, bussando alla pesante porta rossa un paio di volte, prima che questa si aprì. Un ragazzo poco più giovane di Harry, forse, dai capelli corvini spettinati e gli occhi dello stesso colore, era in piedi sulla soglia. I lineamenti del suo viso dovevano essere dolci, ma vedendomi, le sue sopracciglia si corrugarono in un'espressione confusa.

«Ciao,» iniziai. «Sam?»

«Già,» borbottò. «Cosa vuoi?»

«Mi sono persa e-»

«Senti,» mi interruppe. «Non posso aiutarti. Non ho spazio in casa, e se vuoi da mangiare sappi che ho a malapena i soldi per prendermelo per me, quindi no, non posso ospitarti. Addio».

Stava per chiudere la porta, quando lo fermai. «Sono un'amica di Harry».

Nel sentire il suo nome, Sam si voltò di nuovo nella mia direzione. «Harry Styles?»

«Sì».

Sospirò, guardò prima a destra, successivamente a sinistra, per poi dire: «Muoviti,» e mi tirò per una manica all'interno della sua casa, richiudendo la porta dietro di sé.

«Sono Selena,» gli porsi una mano, e lui la strinse con entrambe le sue.

«Sam. Samuel. Ma lo sai già».

Osservai l'interno della casa, che era stranamente molto meglio vista da fuori. Non che fosse sporca, era solo tanto semplice rispetto al colore rosso del portone d'ingresso e il giallo pallido dei muri. E l'odore di cannabis e tabacco impregnava l'aria.

«Posso offrirti qualcosa? Tè? Caffè?» mi fece segno di seguirlo fino alla piccola cucina, dove mi lasciò accomodare su una sedia.

«Uh... sono apposto così, grazie,» mormorai, ricordandomi di quello che Harry mi aveva raccomandata di non fare.

«Che cazzata. Sei pallida come il marmo e ti tremano le mani. Ti faccio il tè». Iniziò ad armeggiare con un bollitore sopra una piastra di fortuna. Non aveva i fornelli che avevano i ragazzi nell'albergo.

«Come conosci Harry?» chiese, mentre accendeva la fiamma.

«A Cleveland, verso ottobre, ci siamo incontrati per caso e sono venuta con lui a Smoke Town. Vivo nel suo appartamento».

«Cioè, così, di punto in bianco?»

«Più o meno...» bofonchiai. «Storia lunga, te l'ho riassunta un po'».

«Capisco...» annuì, pensieroso, accendendosi una cicca. «Quindi,» aspirò ed espirò. «Tu stai pure con Niall e gli altri, giusto?»

«Giusto,» confermai. «Tu invece, come conosci Harry? Mi ha detto che siete amici».

Rise, scuotendo la testa. «Amici non proprio. Non gli sono mai stato tanto simpatico,» si sedette difronte a me, mentre aspettavamo che l'acqua si scaldasse.

«E come mai?»

«Ero il ragazzo di sua sorella,» sospirò.

Le mie labbra formarono una O di sorpresa. «Com'era, lei? Se posso chiedere... insomma, Harry ne parla così di rado...»

Scrollò le spalle. «Fantastica. Dolce, grintosa, scopava da Dio. E ovviamente sapeva amare come poche sanno fare. Sai, non per vantarmi, ma sono stato l'unico, per lei. E lei per me. Tu non sai quanto cazzo io vada fiero di essere la persona che l'ha fatta innamorare. Quanto andavo fiero di lei, dannazione,» aspirò altro fumo, si girò verso il lavandino della piccola cucina e spense la sigaretta sul bordo. Rimase così, in silenzio, una manciata di secondi.

«Mi dispiace, Sam,» dissi.

«Sì, dispiace anche a me,» la sua voce pareva tremare, tanto che credetti stesse piangendo, ma quando si rigirò verso di me, qualche attimo dopo, scoprii che nessuna lacrima s'era formata nei suoi occhi. No, neanche l'ombra: doveva averle già versate tutte.

Emise un altro lieve sospiro, prima di ritornare alla realtà, emergendo dai suoi ricordi e sorridendomi come poco prima. «Dimmi un po', Joe e Dalia come se la cavano? È da un bel po' che non li sento...» la sua voce però si spense nel vedere il mio viso contratto da un'espressione di dolore misto a sdegno e un pizzico di vergogna, pure: Dalia, come potevo sentire quel nome e rimanere impassibile? Non potevo.

«Joe sta bene,» replicai.

«E Dalia?» insistette, ma forse aveva già capito cos'era successo, perché scossi la testa, non riuscendo a dire a voce alta che se n'era andata, che non avrebbe potuto salutarla, che nessuno di noi avrebbe più sentito la sua voce dolce o la sua risata contagiosa. No, Dalia era morta e questo era quanto. Tutto qua. E faceva un male cane.

«Non è vero,» disse, piano. «Dalia è morta?»

Deglutii il groppo che avevo in gola per rispondergli. «Le hanno sparato».

Lo vidi coprirsi la bocca con le mani, i suoi occhi sgranarsi per lo stupore, ma neanche stavolta si riempirono di lacrime. «Quando?» riuscì a chiedere.

«Ieri sera».

«Mio Dio...» si alzò in piedi, camminando avanti ed indietro un paio di volte per calmarsi. «E Harry e Joe...? Come l'hanno presa?»

«Meglio di quanto mi sarei aspettata».

Sam annuì, prendendo un grande respiro e appoggiandosi alla parete. «Non credevo potesse succedere anche a Dalia... ma perché lei? Ha infranto la legge?»

«È lunga da spiegare, Sam,» scossi la testa. Gli raccontai in breve di James, di come lavorassi per lui, della mi uscita con Harry e dell'irruzione di Cheng nel loro appartamento, che aveva inevitabilmente portato Dalia ad un buco nel terreno. Poi il bollitore prese a dimenarsi, e Sam lo alzò dalla piastra per versarne il contenuto in due tazze distinte. Stavo per berne il primo sorso, quando la porta d'entrata si spalancò e la figura di Harry fece capolino nella piccola cucina.

«Tu,» mi puntò un dito contro. «Vuoi farmi venire un fottuto infarto! Ti dico di fare attenzione, di stare lontana dai guai, e invece, cosa fai? Vai fuori in periferia, da sola, vicino a Jacks Ave!» era letteralmente furioso.

«Harry-» provò Sam, anzandosi.

«Stanne fuori,» gli ordinò, brusco, tenendo sempre gli occhi puntati sul mio viso. «Perché diamine sei andata via dalla villa?»

Mi alzai in piedi anche io, respirando profondamente per mantenere la calma. «Per tornare a casa».

«Appunto, a casa!» esclamò lui. «Non in giro per la città! Che cazzo ti è saltato in mente?»

Se gli avessi detto che l'avevo fatto per seguire Daniel, sarebbe andato oltre al limite. Avrebbe forse preso a pugni la casa di Sam, ferendo se stesso ancora di più, per non parlare di quello che avrebbe detto a me. Non poteva saperlo. «Pensavo di riuscire ad arrivare all'albergo da sola, okay?» risposi. «Mi dispiace».

«Ti dispiace?» rise Harry, ironico. «Ti dispiace? Potevi essere uccisa, Cristo santo! Come se Dalia non fosse bastata ieri, oggi tu dovevi fare una delle tue cazzate per dimostrarmi chissà quale fesseria che ti sei piantata in testa, così da rovinare tutto

Fece una pausa, cercando di calmarsi. Strinse le sue mani a pugno, tanto che le sue nocche sbiancarono. «Non lo capisci che non voglio perderti, Sel?» mormorò poi, dopo quasi un minuto di silenzio. «Mi sembra di parlare ad un cazzo di muro, con te. Non voglio perderti, ma tu sembra voglia perdere me».

Feci qualche passo verso di lui. «Non vado da nessuna parte, lo sai. Non senza di te, va bene?»

«Seh, come no,» sbuffò. «Dillo che non te ne frega un cazzo di quello che sento io, e chiudiamo tutto qua».

«La discussione o la relazione?» Storsi il naso.

«Relazione? Che relazione?» sentii Sam chiedere, ma nessuno dei due gli fece caso più di tanto.

«Entrambi, Sel. Perché non mi rifiuto di struggermi di nuovo con una che-»

Chiusi le distanze fra me e lui, impedendogli di parlare con la mia bocca premuta a forza sulla sua. «Scusa, Harry. Di te mi frega, lo sai. E mi frega anche di me stessa, e giuro che non volevo rischiare la vita così, prima. Non volevo, davvero,» biascicai, poi.

«Zitta,» con una mano attorno alla vita e una sulla mia guancia, Harry mi baciò a sua volta. «E non fare più stronzate, okay? Perché mi hai fatto morire di spavento, Tigre mia».

Sam ci ricordò della sua presenza, tossicchiando leggermente. Mi allontanai da Harry, imbarazzata un pochino: non avevo detto a Sam che Harry ed io eravamo fidanzati. Nella fretta del racconto, avevo omesso quel particolare privato e piuttosto irrilevante alla questione, ma che in realtà era la faccenda più spinosa di tutte.

«Oh. Ci sei anche tu,» borbottò lui, riferendosi a Sam.

«Già,» annuì l'altro. «Sai com'è, è casa mia... e non sapevo steste insieme».

«Cosa stai insinuando?» Harry assottigliò gli occhi. «Che ci hai provato con lei perché non sapevi fosse mia, o perché non credevi possibile che uno come me potesse essere amato da una come lei?»

«La tua ragazza non mi interessa,» sbuffò Sam.

«Non è la mia ragazza, è la mia donna,» e Harry fece passare un braccio attorno alle mie spalle. «Ma ti ringrazio per averla tirata via dalla strada».

Sam borbottò qualcosa a mezza voce, prima di dire un «figurati,» annoiato e disinteressato, anche se dedussi, dal piccolo sorriso che gli spuntò poco dopo, quando Harry non stava guardando, che si sentiva soddisfatto per quel ringraziamento.

Restammo giusto il tempo di bere il tè, i due che parlavano di quello che era accaduto in queste settimane: Sam gli chiese di portare le sue condoglianze a Joe e agli altri, promettendoci che sarebbe venuto a visitarci, di tanto in tanto, e poi uscimmo da casa sua e salimmo in auto.

«Sono felice tu stia bene, Selena,» mormorò Harry, prima di accendere il motore. «Davvero, davvero felice. Non me lo sarei mai perdonato se ti fosse successo qualcosa di brutto».

«Lo so,» gli rivolsi un cenno affermativo col capo, i miei occhi fissi sulle mie mani. «Povero Sam...»

«Torniamo a casa?»

Lanciai un'ultima occhiata alla piccola casetta gialla con l'edera rampicante e il portone rosso, e non riuscii a non chiedermi, fra me e me, come mai fosse in quelle condizioni semi perfette. Poi annuii. «Torniamo a casa,» dissi.

. . . . . . .

Buonasera :)
Scusate davvero per questo ritardo inumano ahaha sapete, devo raccontarvi un sacco di cose che mi stanno succedendo, anche se non credo che v'interessino più di tanto
Comunque boh, mi sento con uno da un po' ' di tempo (storia lunghissima) e niente, penso scriveremo qualcosa a quattro mani (lui è un mezzo poeta) e niente, sono esaltata mentalmente da questa cosa ahaha
A voi come va la vita? Raccontatemi un po', su! Siete innamorate? Fidanzate? Avete una cotta? Flirt?

Ne approfitto per dirvi che, nonostante questi aggiornamenti rari, non lascerò ST senza una fine: piano piano sto correggendo e prima o poi ce la farò ahaha non preoccupatevi!

Inoltre, vi sarei davvero grata se passaste sul profilo Instagram dedicato alle mie storie: anxieteve
Essenzialmente ci posto alcune citazioni (mie e di alcuni scrittori/poeti veri), foto che mi piacciono, news su ST, a volte spoiler, curiosità, approfondimenti e cazzate varie su di me, quindi ecco ahaha se vi interessa fateci un salto :)

Alla prossima!

Lottie x

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