36. Meglio un mostro vivo, che un uomo morto (pt. 1)
Stava palesemente fingendo di dormire, quando mi risvegliai nel suo letto, la mattina del venticinque dicembre. O forse era pomeriggio, a giudicare dalla luce che proveniva dalla finestra, che entrava nella stanza e la inondava di un bianco giallastro, accecante, quasi. Era difficile dirlo.
I suoi capelli castani erano sparsi sul suo viso, ricci disordinati e leggermente umidi di sudore: avevamo avuto caldo, quella notte, io e lui. Dormire abbracciati sotto alle coperte aveva prodotto una discreta dose di condensa, che s'era tramutata in acqua a contatto con le nostre pelli. Non appena s'era addormentato, dopo avermi baciata ancora e ancora e ancora, io m'ero leggermente allontanata da lui. Non riuscivo a sopportare quel calore animalesco fra di noi.
E ora lo guardavo, seduta e attenta ad ogni suo tic nervoso. Era sveglio, ma fingeva di dormire. Perché?
«Buon Natale, Harry,» mormorai, ripassando coi polpastrelli il contorno del suo viso. Gli spostai i capelli lontani dalla fronte.
Grugnì, poi «buon Natale, Selena,» rispose, aprendo prima una palpebra, poi l'altra. Mi tolsi le coperte di dosso, riappoggiando i piedi nudi sul pavimento freddo della camera, e mi strinsi nella tuta da ginnastica vecchia, strofinandomi le braccia con le mani. Per un attimo rimasi lì impalata, aspettando che dicesse qualcosa, eppure se ne rimase zitto e in silenzio: non voleva forse ricordare l'episodio di poche ore prima? Quel sono innamorato di te?
«Io vado a fare colazione,» annunciai allora. «Tu mi fai compagnia, o...?»
«Arrivo in un attimo,» si alzò a sedere, e fu il suo turno di osservarmi, dal bordo del letto. Inclinò leggermente la testa di lato, come un cane, e mi squadrò da cima a fondo, prima di aggiungere: «Mi faresti un tè caldo?»
«Certo,» replicai, dirigendomi verso la soglia. Uscii dalla stanza senza dire nient'altro, e quando mi richiusi la porta alle spalle, maledissi la mia incapacità cronica di comportarmi normalmente in situazioni come queste. Non che lui fosse stato meno in imbarazzo, in ogni caso. Avrei preferito se non mi avesse detto nulla, la sera prima.
Con uno sbuffo frustrato, andai in cucina e misi su l'acqua per il tè. Lanciai un'occhiata all'orologio sulla parete: erano le undici e mezza della mattina, e non sembrava affatto Natale. L'appartamento era ancora disordinato – un po' meno rispetto alla sera prima: Liam, Niall e Zayn dovevano averlo sistemato – ma nel lavello stavano abbandonati una decina di piatti sporchi, bicchieri e posate unte. Storsi il naso.
«Che schifo,» la voce di Harry alle mie spalle mi fece sobbalzare. «Su una di quelle forchette c'è ancora la saliva di Seth».
Mi girai a guardarlo. In quei cinque minuti, s'era vestito e sistemato, e il suo viso dapprima assonnato era ora sveglio e attento, come al solito. Harry pareva avere sempre qualcosa che gli frullava per la testa, ecco: c'erano quei momenti in cui il suo sguardo si perdeva nel vuoto, momenti in cui avrei tanto voluto sapere a cosa stesse pensando, e c'erano momenti in cui mi fissava così intensamente da farmi venire i brividi. Forse neanche lo faceva apposta, ma era da paura. Letteralmente.
«Dammi una mano a pulire,» dissi, iniziando a riempire l'altro lato del lavandino con dell'acqua bollente dal rubinetto e sapone liquido per le stoviglie.
«Scordatelo,» rise. «Non tocco quella roba là».
«Io lavo, e tu risciacqui e asciughi?»
Sbuffò. «Okay,» e si posizionò al mio lato destro.
Iniziai con i bicchieri e le posate, per poi passare ai piatti e alle pentole varie. La mia parte era la più rivoltante – tipo sentire pezzettini di cibo nell'acqua mentre frugavo oltre la superficie piena di bolle di sapone alla ricerca di eventuali cucchiaini che avevo mancato – ma c'ero abituata: quando stavo da Jack, oltre a pulire il cesso dovevo anche lavare i boccali e gli eventuali piatti.
Mentre Harry finiva di asciugare le ultime stoviglie rimaste, tirai fuori due tazze dalla credenza e preparai il tè. «Vuoi biscotti?»
«No, grazie,» rispose, asciugandosi le mani sui pantaloni neri, per poi sedersi al tavolo della cucina, davanti a me. Di nuovo, calò il silenzio, ma un silenzio colmo di imbarazzo, stavolta, e non riuscii a smettere di pensare neanche un attimo a quello che c'eravamo detti quella sera. Continuavo a rimuginarci su, come probabilmente stava facendo lui, e la cosa era diventata parecchio stressante per me.
Tossicchiai, catturando la sua attenzione, e decisi di tirar fuori l'argomento. «Senti, Harry... riguardo ieri sera-»
Mi zittì con un brusco cenno della mano. «Non ricordarmelo,» mormorò. «È stata la cosa più stupida che io abbia mai fatto in vita mia».
Tanti, piccoli aghi mi iniziarono a perforare il cuore, e sentii gli occhi iniziare a bruciarmi. «Tu... tu non dicevi sul serio?» chiesi, con un filo di voce.
«Cosa-» Harry spalancò le palpebre, poggiando bruscamente la tazza di tè sul tavolo. «Cazzo, scusa! Non intendevo quello. Non scherzerei mai sul fatto che ti amo, Selena. Diamine, credo si veda lontano un miglio che sono stracotto di te. Solo che...» la sua voce si spense, scosse la testa e sbuffò, passandosi una mano fra i capelli.
«Solo che?»
«Solo che non ho idea di quello che dovremmo fare ora,» mormorò. «Hai capito cosa intendo?»
«Affatto,» ammisi. «Spiegati meglio».
Afferrò la tazza con entrambe le mani, sorseggiò il suo tè, poi «noi due,» disse, leccandosi le labbra. «Siamo cosa, esattamente?»
«Oh,» feci, capendo dove voleva arrivare, e un sorrisetto sghembo s'impossessò delle mie labbra. «Non lo so, Harry, cosa siamo?»
Fece spallucce, sorridendo maliziosamente, alternando occhiate a me con sorsi della sua bevanda.
«Hai intenzione di chiedermi di essere la tua ragazza o devo farlo io?» proseguii.
«Essere la mia ragazza,» ripeté. «Non suona così male».
«Harry...»
«Okay!» rise. «Okay, chiedimelo tu».
«Quanto sei odioso,» scossi la testa. «Vuoi-»
«Aspetta,» mi fermò, alzandosi da tavola. «Facciamo così: fanculo alle formalità, io e te stiamo insieme e basta. Nessuno chiede niente a nessuno».
«Niente formalità?»
«Niente formalità, Tigre,» confermò, fermandosi vicino a me. Mi alzai a mia volta, spingendo indietro la sedia, e le braccia di Harry subito mi arpionarono la vita, tirandomi conto il suo petto sodo con una forza tale da lasciarmi senza fiato. Presi io l'iniziativa di baciarlo, stavolta: prima sulle labbra, poi approfondendo il tutto. Sentii il gusto del tè, sia mio che suo, danzare attorno alle nostre lingue, come a ricordarci che la colazione ancora non l'avevamo finita, ma sentii anche il suo respiro dritto in bocca, e vidi l'arancione delle mie palpebre chiuse illuminate dal sole di mezzogiorno che entrava dalle finestre.
«Mh, Sel,» Harry si staccò di colpo.
«Dimmi».
«Prima che tutta questa cosa fra di noi finisca male, mettiamo in chiaro un paio di punti,» fece. «Primo: nessuno, oltre noi due, dovrà sapere di noi due. Neanche la tua amichetta Elle del cazzo, né Niall, né Zayn e Liam e Louis, né nessun altro».
«Cos'è, Harry Styles si vergogna di avere una ragazza vera?» lo punzecchiai. «Perdi la tua reputazione da cattivo ragazzo dal passato oscuro?»
«No,» scosse la testa. «Harry Styles è altamente fiero della sua ragazza, ed è per questo che non vuole trovarla morta in un vicolo buio alle tre del mattino, con un coltello in corpo o un proiettile in mezzo agli occhi, e il suo sangue tiepido sul marciapiede. Rendo l'idea?»
Rabbrividii. «Assolutamente sì».
«Bene,» fece un cenno affermativo col capo, allontanandosi di qualche passo. «Secondo: domani inizi a lavorare per Smoke. So che è tanto chiedertelo, ma vorrei tu non facessi nulla di quello che sicuramente ti frullerà per la testa».
«Tipo cosa?» il mio tè si era ormai raffreddato, e lo finii con due grandi sorsi.
«Tipo fare domande impertinenti a James, rispondergli male, curiosare dove non dovresti. Fai solo quello che ti dice di fare, nulla di più, nulla di meno. Così evitiamo guai e tu torni a casa viva e vegeta».
«E se mi chiede di fare qualcosa che non voglio fare?» obiettai. «Se mi chiede di uccidere una persona?»
«Non lo farà,» rispose lui, deciso, abbandonando la sua tazza nel lavandino ora sgombero dalle stoviglie. «Nel caso, però, ubbidisci agli ordini».
«Ma-»
«Niente ma,» mi fulminò con lo sguardo. «Hai visto le tre tombe sotto casa, Sel. Non voglio doverne scavare una anche per te. Se James ti chiede di sparare ad una persona, tu lo fai e basta,» sbuffò. «Come ho detto, però, non lo farà. Non ha tempo da perdere con quei giochetti del cazzo».
«Lo vedi come sei?» ribattei. «A forza di vivere qui, si perde la propria umanità. Credi io sarei capace di ammazzare qualcuno a sangue freddo, così, senza protestare?»
Harry contrasse la mascella, incrociando le braccia al petto. Per un attimo parve non aver neanche sentito ciò che gli avevo detto, poi però si avvicinò di qualche passo, fermandosi ad una spanna di distanza da me. «Un'importante lezione che imparerai qui a Smoke Town: meglio un mostro vivo, che un uomo morto, Selena Parker. Sono stato chiaro? Non me ne frega un cazzo di nessuno, tranne te. Per me possono tutti crepare, io compreso, l'importante è che tu resti viva».
«Sei un tale egoista, Har-».
Mi interruppe: «Sì, lo sono. Amore è egoismo, me l'hai detto tu stessa, a Baltimore. Egoismo di coppia, l'hai chiamato, ma pur sempre egoismo. Quindi non biasimarmi per questo, te lo chiedo per favore».
Sospirai pesantemente, lasciando che le mie braccia ciondolassero ai miei fianchi. Non avrei saputo come controbattere, neanche se avesse avuto torto. Il fatto era che aveva completamente ragione. «Okay,» mi arresi, infine.
«Promettilo, Selena. Promettimi che ti metterai al primo posto in ogni situazione. Anche a costo della vita di qualcun altro».
Glielo promisi.
Glielo promisi con le dita incrociate, nascoste dietro la mia schiena.
. . .
Mi resi conto che Harry non aveva ancora ricevuto il regalo di Natale da parte mia solo quando fu troppo tardi. Il venticinque dicembre era passato, e quello sarebbe stato il mio primo giorno di lavoro alla villa di James: dire che ero nervosa era poco. Tenevo le mani nelle maniche della giacca, come una tartaruga che si rintanava nel suo guscio, per non far vedere a Harry quanto stessero effettivamente tremando. Parevano foglie al vento.
Entrambi scendemmo dall'auto, parcheggiata davanti alla villa, e non appena misi piede fuori, una folata d'aria gelida mi scosse da cima a fondo.
«Secondo te,» iniziai. «Se scappiamo adesso, abbiamo qualche possibilità di-»
«No,» tagliò corto lui, scuotendo la testa e stringendosi nel giubbotto. «Ascolta: cerca di passare inosservata e andrà tutto benone. Okay?»
«Okay,» bofonchiai.
Harry sbuffò, fermandosi difronte a me. Sentivo gli occhi delle guardie di James, vicino alla grande porta d'entrata, su di noi. O almeno, supposi ci stessero guardando. «Vorrei stringerti fino a soffocarti e non mollarti più,» mormorò. «Ed è straziante non poterlo fare».
«Anche io vorrei stare con te,» replicai. «Ma è meglio così».
«Già,» fece una smorfia. «Vengo a prenderti io più tardi. Finisci alle cinque, giusto?»
Annuii.
«Bene,» proseguì lui. «Ci vediamo dopo, Tigre,» e forzò un sorriso, cercando di infondermi un minimo di coraggio. Il mio l'avevo lasciato a casa.
«Ricordami di darti il tuo regalo di Natale, dopo, Bucky,» dissi.
«Perché, mi hai fatto un regalo?» il suo viso s'illuminò di colpo. «Il tuo amore non è abbastanza?»
«Non è nulla di ché, in ogni caso,» precisai, lanciando un'occhiata alle mie spalle. «E penso che dovrei andare».
«Giusto,» borbottò lui. «Uhm... a dopo, allora».
«A dopo,» sussurrai. I nostri sguardi rimasero incastrati l'uno in quello dell'altra per qualche secondo in più, poi lui si girò. Feci una decina di passi in avanti, mentre sentivo il motore della sua auto partire, e una volta arrivata ai piedi della scalinata bianca, mi voltai in tempo per vederlo andare via, uscendo dal cancello, inoltrandosi nelle strade di Smoke Town.
Ero sola di nuovo.
Con un sospiro, salii i gradini, contandoli mentalmente: nove. Come le ore che sarei dovuta rimanere lì. Nove ore lunghe e infinite. Erano troppe!
«Guarda un po' chi si rivede,» la voce divertita della guardia ferma sul lato sinistro del portone mi fece alzare la testa. «Selena, giusto?»
«Uhm, sì,» annuii. Il suo viso era familiare, ma non lo riconobbi per via dei suoi tratti, bensì per il fatto che aveva auricolari nelle orecchie, collegati ad un iPod che sporgeva dalla tasca della sua divisa nera. «Carter?»
«Carter in persona, esattamente,» sogghignò. «Te la fai ancora con Styles, vedo».
Non risposi.
«Non è così santo come potresti pensare, sappilo,» continuò.
«Lo so,» replicai. «Non deve mica piacermi: devo solo convivere con lui, e non posso farci niente,» scrollai le spalle. «Trovassi un altro appartamento con acqua, luce e gas, completamente gratis, e mi ci trasferirei all'istante. Per ora, mi tocca star lì con lui».
Carter ridacchiò. «Ho sentito dire che ti unisci a Smoke».
«Hai sentito bene».
«Occhio ai coltelli, Selena. Potresti morire e non accorgertene nemmeno».
Cercai di non trasalire. «Grazie dell'informazione, Carter,» dissi. «Ora dovrei andare».
«Certo,» annuì, aprendomi la grande porta. «Buon primo giorno».
Gli rivolsi un finto sorriso, che ricambiò in modo altrettanto finto, e successivamente varcai la soglia: la prima cosa che percepii, oltre che al cambio di temperatura, fu una dolce melodia classica, di un pianoforte, e dedussi qualcuno stesse suonando quello che c'era nell'atrio principale. In effetti non mi stavo sbagliando; non appena la sala mi si presentò davanti, stagliandosi in tutta la sua eleganza, dai marmi dei pavimenti ai cristalli del lampadario, notai una figura maschile seduta al pianoforte a coda nero, posto qualche metro più in là da dove m'ero fermata.
Le mani di James Smoke parevano volare sopra ai tasti, veloci, leggere, come se neanche li stesse toccando: spostava a tratti il busto in avanti, in corrispondenza del pedale che veniva schiacciato dal suo piede destro, i suoi occhi fissi davanti a sé. Non aveva alcuno spartito, né sembrava aver notato la mia presenza. C'era solo la melodia, per lui.
Rimasi ad ascoltare, a debita distanza, e a seguire i movimenti delle dita di James. Quasi mi dimenticai del motivo per cui ero lì, e per un attimo, dimenticai pure chi fosse James Smoke in realtà. Perché la villa, la musica, le luci e la calma che c'era, rendevano tutto surreale, come in un sogno.
Ero così presa dal fascino dell'insieme, così utopico e accattivante, che non mi accorsi neppure quando composizione terminò. Solo la voce dura di Smoke mi fece tornare al presente: «Sei in ritardo,» disse, senza guardarmi.
Mi riscossi subito. «Lo sono?»
«Di tre minuti,» precisò, girandosi ora a guardarmi. «Avvicinati».
Mossi subito i piedi, senza paura: volevo davvero avvicinarmi, in realtà.
«Sai suonare?» domandò.
«Purtroppo no,» scossi la testa. «Non ho mai avuto occasione di imparare».
«Tua madre era una pianista, no?» alzò un sopracciglio.
«Lo era, nel tempo libero. Ma non mi ha mai insegnato nulla. Teneva quell'arte per sé».
«E se tu avessi avuto occasione, l'avresti colta, dunque?» indagò.
«Penso di sì,» replicai.
«Bene,» sorrise. «Posso darti un'occasione, Selena. Un'ora al giorno, ogni giorno. Arricchirebbe sensibilmente la tua cultura».
Sbattei le palpebre più e più volte. «C-cosa? Non ho afferrato,» balbettai.
«Potrai prendere lezioni di pianoforte, se la cosa t'interessa».
Okay. Questa non me l'aspettavo proprio. Dov'era il trabocchetto? «Dovrei pensarci, credo,» dissi, guardinga. «Insomma, il costo di un insegnante non me lo posso permettere, e non me la sentirei di chiedere soldi a Harry per un mio capriccio».
James ridacchiò, scuotendo il capo e alzandosi dallo sgabello. Richiuse la tastiera, delicatamente, tornando a guardarmi. «Mia cara Selena. Una cosa che devi capire, è che la cultura non ha prezzo,» posò una mano sulla mia spalla, guidandomi verso la scalinata che portava ai piani superiori. «Vedi, di certo non ti farei pagare un insegnante quando sono io stesso ad offrirti la possibilità di imparare qualcosa di nuovo. E se anche dovessi pagarlo, tu avresti a disposizione lo stipendio che ti assegnerò ogni mese, per tuo il lavoro qui: a Harry non dovresti comunque chiedere nulla».
«Oh».
«Pensaci, valuta i pro e i contro della mia offerta. Se la tua risposta sarà affermativa, direi che potremmo sottrarre un'ora di lavoro, scambiandola con un'ora di cultura».
«Certo, ci penserò».
Smoke lasciò la presa sulla mia spalla, aumentando il passo fino a camminare davanti a me. «Ti mostro dove lavorerai per il prossimo mese o giù di lì,» mi indicò la porta di quello che forse era uno studio: una stanza meno luminosa e ampia del previsto, ma sempre pulita e ben organizzata. Al centro c'era un tavolo sopra cui erano poggiati vari computer, e, dietro di essi, tre persone che stavano scrivendo qualcosa con la tastiera. Ma la cosa che attirò la mia attenzione erano le pareti, completamente, interamente, rivestite di scaffali di fascicoli, carte, scartoffie e documenti di ogni genere.
Nel vederci, i tre dipendenti si alzarono in piedi. «Buongiorno, signore,» disse uno di loro, un uomo sui trent'anni, mingherlino e alto. Indossava un paio di occhiali che parevano più grandi del suo viso magro e scavato, i suoi capelli castano chiaro tirati ordinatamente indietro.
«Sandra, saresti così gentile da spiegarle cosa fate?» chiese, James, senza preoccuparsi di ricambiare il saluto.
Una donna africana, dal fisico robusto ma dal sorriso amichevole annuì leggermente. Sandra era lei, sicuramente.
«Bene. Puoi iniziare con il sistemare i fascicoli,» Smoke fece un cenno verso gli scaffali. «Ti spiegherà lei come fare. Hai un'ora e mezza di pausa pranzo, a mezzogiorno, e il tuo turno finisce alle cinque. Ti chiedo solo di scendere nel mio studio, di sotto, prima che te ne vada,» disse. «Buon lavoro, Selena».
Dopo avermi rivolto un ultimo sguardo, se ne andò dalla stanza a grandi passi, lasciandomi sola con i tre dipendenti.
Mi mordicchiai nervosamente l'interno della guancia: «Salve,» dissi, impacciata.
La donna di colore venne verso di me e mi strinse la mano. «Sono Sandra, tanto piacere...»
«Selena,» risposi, restituendo la stretta.
«...Selena,» sorrise. «Loro sono Jean-Paul,» indicò l'uomo mingherlino con gli occhiali. «E Morgan,» il secondo uomo, decisamente più vecchio del primo, dai capelli grigi e un folto paio di baffi mi salutò.
«Ciao,» mormorai.
«Vieni, ti faccio vedere come vanno sistemati i fascicoli,» ci avvicinammo ad uno scaffale. Mi spiegò per filo e per segno l'ordine in cui metterli, la direzione in cui andavano appoggiati, i vari tipi di documenti che c'erano... e un quarto d'ora dopo, lei tornò al computer mentre io iniziai a rovistare tra le carte, mettendo in pratica quello che avevo appreso in quei pochi minuti. Lavorammo in silenzio per quelle che sembrarono ore, gli unici rumori che si sentivano erano i fogli che spostavo io e il tic dei loro polpastrelli sui tasti dei computer. Il mio cellulare vibrò silenziosamente nella mia tasca, ma lo ignorai. Notai Jean-Paul pulirsi il sudore dalla fronte con un fazzoletto, la sua espressione concentrata sullo schermo.
«A cosa state lavorando?» chiesi, tutto d'un tratto, smettendo di setacciare i documenti e appoggiandoli sul tavolo.
Sandra si girò verso di me. «Che ne dici se ti spiego a pranzo? Adesso siamo tutti occupati».
Le sorrisi, cercando di smorzare la mia curiosità. «Va bene». Sbuffai silenziosamente, rassegnata, e tornai al lavoro. Nessuno disse più niente fino a pranzo, quando Sandra mi accompagnò alla zona mensa della villa. C'erano tre tavolate rettangolari dov'erano seduti a occhio e croce trenta persone: immaginai che fossero lo staff e i dipendenti di James. Notai un paio di uomini vestiti di nero, e per mia grande sorpresa e sollievo, Lee era fra di loro.
«Selena!» esclamò. «Cosa ci fai qua?» mi venne incontro con il suo vassoio colmo di cibo, indicandomi di prenderne uno e di servirmi al buffet.
«Ci lavoro, qua. Ecco cosa,» borbottai.
Strabuzzò gli occhi, aspettandomi mentre sceglievo cosa mangiare. «Come? Davvero? E a Harry va bene?»
«No, non gli va bene affatto. Ma dovrà abituarsi,» risposi. Quando anche il mio piatto fu pieno, mi avviai con Lee verso il suo tavolo. Sandra si unì a noi, mentre Jean-Paul e Morgan andarono verso un altro gruppetto di persone.
Stavo per inforcare un pezzo di spezzatino, quando, di nuovo, il mio cellulare vibrò. Lo estrassi dalla tasca e sbloccai lo schermo. C'erano almeno otto messaggi, tutti da parte di Harry.
Da Harry:
Sel, tutto bene? H x.
Da Harry:
Com'è il lavoro? X.
Da Harry:
James ti ha dato problemi?
Da Harry:
Perché non mi rispondi?
Da Harry:
Stai bene? E' successo qualcosa?
Da Harry:
Sel. Mi stai facendo preoccupare.
Da Harry:
Ti giuro che se non rispondi, vengo lì.
Da Harry:
Selena! Rispondi al cazzo di messaggio!
Deglutii e digitai velocemente un breve testo, poi lo inviai.
Sto bene. Scusa, stavo sistemando delle carte. Tu come stai?
La sua risposta non tardò ad arrivare, come se, durante tutto questo tempo, non avesse fatto altro che fissare lo schermo, in attesa di un mio messaggio.
Da Harry:
Stavo morendo di infarto. Cristo, Sel, mi fai saltare i nervi. Sta attenta, okay? A dopo. H x.
Le voci di Lee e Sandra che discutevano mi fecero tornare alla realtà. Gli inviai un ultimo messaggio con un'altra faccina sorridente e una a forma di cuore, prima di mettere via il cellulare.
«Non male la carne, oggi,» osservò lui.
«Già,» concordò Sandra.
«Da quant'è che lavori per James?» le chiesi.
Lei ridacchiò. «Da un bel po' di anni, a dire il vero. Morgan anche più di me. Lasciatelo dire, tesoro, è strano che ti abbia assunta».
«Perché è strano?» Aggrottai le sopracciglia.
«Beh, sei giovane. Non molte persone della tua età lavorano per Smoke, escludendo suo figlio e suo nipote. Non so se li conosci».
Lee tossicchiò, lanciandomi un'occhiata circospetta.
«Uhm. Sì, so chi sono, più o meno,» mentii. «Devo averli visti un paio di volte».
«Ecco. Stagli alla larga, per il tuo bene. Soprattutto al nipote».
«Perché? Cos'ha Har... lui, che non va?»
«Ti hanno mai detto che fai troppe domande?» rise. «Stagli alla larga e basta. Non è il genere di persona che vuoi nella tua vita. Ancora non so come faccia Lee ad essergli amico».
L'uomo alzò gli occhi al cielo, ignorandola, e poi la donna si lanciò in un discorso dettagliato su quello che faceva, il modo in cui trascriveva i documenti nel computer, come li archiviava. Mi spiegò per filo e per segno gli algoritmi che usava per decifrare rari messaggi criptati in alcuni documenti e altre procedure di cui capii gran poco. Non smise di parlare un secondo, forse per impedirmi di farle altre domande su Harry. Quando tornammo nel nostro studio, dopo la pausa pranzo, calò nuovamente il silenzio.
Sistemai altri fascicoli, mentre Morgan, Jean-Paul e Sandra battevano a macchina i numeri, e finalmente, alle cinque del pomeriggio, quando iniziavo a non poterne più di spostare a destra e a sinistra carte e fogli, il turno finì.
«Ci vediamo domani,» mi salutò Sandra, distogliendomi dai miei pensieri agitati.
«A domani,» risposi.
«Non cacciarti nei guai,» mi raccomandò Morgan, serio. Le prime parole che mi aveva rivolto. Jean-Paul mi fece un veloce cenno, prima di scappare letteralmente dalle scale.
Mi fermai davanti allo studio di James, quello in cui Harry mi aveva praticamente sparato, guardando Morgan e Sandra allontanarsi verso l'uscita della villa, entrambi provvisti della loro valigetta e di pesanti giacche a vento.
Come l'altra volta, Smoke era seduto dietro alla sua scrivania, intento a studiare attentamente un foglio di carta. Rimasi impalata sulla soglia fino a quando non si decise a prestarmi un minimo d'attenzione.
«Siediti pure,» disse. «Com'è andato il primo giorno?» domandò poi, appoggiando le carte sul tavolo e puntando il suo sguardo sul mio viso.
Tossicchiai. «Bene».
Rimase in silenzio qualche secondo, come a valutare la mia risposta. «Impressioni? Accorgimenti? Ti prego di essere sincera: pretendo la sincerità da tutti i miei dipendenti, così come io sono sincero con loro».
«Beh,» tossicchiai. «Sistemare i fascicoli è noioso. Inoltre, il silenzio era troppo... assordante. Però il cibo della mensa era ottimo».
Smoke sorrise fra sé. «Perfetto, grazie,» annuì. «Ti ho chiamata per discutere dello stipendio. Pensavo di partire dalla somma di novecento dollari al mese. So che non è molto, ma come inizio dovrebbe andare».
Strabuzzai gli occhi. «Novecento dollari?»
«Non ti va bene?»
«Al contrario,» dissi. «È anche troppo».
Pensare che in un solo mese avrei guadagnato più di quanto non avevo fatto in tre anni, mi metteva addosso una certa quantità di esaltazione. Mi sentivo quasi fiera di me, e ancora non avevo fatto nulla.
Mi passò poi una tessera di plastica, che mi rigirai fra le mani. Aveva tutti i miei dati anagrafici scritti sopra, assieme ad una mia foto vecchia di un paio di anni.
«Devi farla passare allo scan all'inizio e alla fine del turno, ogni giorno. Inoltre, essa ti garantirà l'incolumità e l'astensione verso alcune leggi che potrebbero frenare la tua curiosità. Non vieto i miei dipendenti dal leggere i libri proibiti, ad esempio,» mi fece un cenno d'assenso. «Direi che è tutto sistemato, ora. Puoi andare. E ricordati di essere puntuale alle otto, domani».
Annuii, lo salutai e ringraziai, mi alzai dalla sedia, quasi correndo fuori dallo studio. Percorsi i corridoi ormai familiari fino all'uscita della villa, dove appoggiata al cofano della sua Land Rover stava l'unica persona che volevo davvero vedere: Harry.
. . . . . . .
Buona domenica!
Come state? Tutto okay? Come va a scuola?
Mi pendo questo piccolo ritaglio di spazio per farvi presente la pagina Instagram di Smoke Town e le altre storie (anxieteve) in cui potete trovare approfondimenti, curiosità, citazioni, eventuali anticipazioni e quant'altro (il link è nella bio).
Inoltre, volevo invitarvi alla lettura del mio libro di poesie inutili, "Ambiguità, Banalità, Casualità", e "L'Arte di Essere il Non Essere", una storia d'amore che è più un manuale per combattere le mancanze. Li trovate entrambi sul mio profilo :)
Detto ciò, vi auguro un buon week end e una vita meravigliosa.
Lottie x
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