34. Robbie Butler ha metaforicamente ammazzato se stesso

Harry

Due settimane passarono in un battito di ciglia. Mi svegliavo attorno alle undici, facevo colazione — o pranzo — con Selena e Robbie, poi mi trascinavo al divano, mi raggomitolavo nella coperta che stava lì e tornavo a dormire fino all'ora di cena, quando mi alzavo e mangiavo ancora. Ero sfinito dal troppo non fare niente, ma nella sua monotonia, esso mi piaceva. Anche perché c'era Selena, a casa con me, e l'essere il moribondo della situazione implicava una certa dose di cure da parte sua — la doccia, per esempio. Oh, la doccia! Una benedizione. E per la prima volta, ringraziai Cheng per avermi incrinato quelle due ossa, quando venne il momento di farmela.

Il problema stava nel fatto che io, da solo, non riuscivo a lavarmi. Compiere movimenti troppo ampi con le braccia, quali alzarle per insaponarmi i capelli o piegarle per raggiungere la schiena, avrebbe fatto peggiorare le mie povere, povere costole, e Selena questo mica poteva permetterlo. Quindi, s'era offerta d'aiutarmi — che brava ragazza, così premurosa.

La prima volta, regnava l'imbarazzo. Erano all'incirca le tre del pomeriggio, Robbie stava parecchio male per la bottiglia di vino che non poteva avere, e Sel ed io eravamo chiusi in quel piccolo bagno pieno di vapore, l'uno di fronte all'altra.

«Devi spogliarmi,» le avevo detto. E lei: «Cosa?» aveva risposto.

«Non riesco a togliermi la maglia da solo. Devi spogliarmi tu».

Mi aveva sfilato la t-shirt, rossa in viso, e s'era fermata un attimo a guardare quelle botte violacee in prossimità delle costole incrinate, dove la punta dello scarpone di quel coglione cornuto mi aveva fracassato la pelle e la carne. E poi c'erano le pacche minori, ma quelle ormai erano giallastre, appena visibili. E mentre lei, appunto, mi guardava, mi ero sfilato i pantaloni e li avevo buttati da qualche parte alle mie spalle. I boxer li avevo tenuti, ma solo perché lei mi aveva chiesto di non toglierli.

Una volta sotto il getto, però, aveva assunto una certa autorità, nel spostarmi di qua e di là per strofinare la mia schiena e il resto del torace, come una vera infermiera. Un'infermiera estremamente sexy, in quel modo tutto particolare che caratterizzava la sua determinazione, a metà fra il divertente e il professionale. E il mio autocontrollo già scarseggiante di suo aveva faticato a tenere a bada me e i miei pensieri che viaggiavano sempre più oltre il limite del consentito, tanto che avevo iniziato a fingere un'indifferenza così ben riuscita da farle sparire il rossore alle guance e tutto l'imbarazzo e la delicatezza nei suoi gesti. Meglio così.

Insomma, quelle due settimane passarono in un lampo. Robbie si riprese così come mi ripresi — o quasi — io, e quattordici giorni dopo, ecco che stavamo portando quel povero uomo ad incontrare la sua sorte, alla villa di James. Non la vedevo bene, per lui. A Selena non sembrava importare, eppure anche lei era nervosa e tesa, quella mattina; se fosse perché doveva decidere se accettare o meno il lavoro, o se fosse perché Robbie sarebbe probabilmente finito ammazzato, io non avrei saputo dirlo.

«Quanto manca?» la voce dello zio di Sel, lì sull'orlo del tremante, era la colonna sonora della mia macchina. Quante volte aveva chiesto quanto mancava? Venti? Venticinque? Troppe, in ogni caso. E mi stava iniziando a dare sui nervi.

«Poco,» rispose Selena, dal sedile anteriore vicino al mio. «Cinque minuti o giù di lì». Era la terza volta che lei interagiva direttamente con lui. Solitamente lo ignorava, come se non esistesse, eppure c'erano state un altro paio di volte in cui gli aveva effettivamente rivolto la parola: la prima, sei giorni fa, quando Robbie le aveva chiesto cosa stesse leggendo, e la seconda, l'altro ieri, quando lei gli aveva domandato se volesse la carne al sangue o ben cotta.

«Accetterai il lavoro, Selena?» continuò lui.

«No».

«E a Smoke andrà bene?»

«No».

«Quindi cosa farai?»

«Non lo so!» scattò Sel, facendo sobbalzare sia me che suo zio. «Non lo so, Robbie, smettila di mettermi pressione!»

«Io starei mettendo pressione a te?» L'uomo sbuffò. «Io morirò fra meno di cinque minuti, e tu saresti quella sotto pressione? Ma per favore!»

«È solo colpa tua se Smoke ti vuole morto,» Selena lo fulminò con lo sguardo. «È solo colpa tua se hai iniziato a bere, ed è solo colpa tua se hai rovinato la nostra famiglia-»

«Sai perché ho iniziato a bere?» la interruppe lui, iniziando ad alzare la voce. «Sai perché, Selena?»

«Perché?»

Robbie si zittì qualche attimo. Tornò con la schiena appoggiata al sedile, lo sguardo umido, perso ora fuori dal finestrino, dietro il quale scorrevano le vie del centro di Smoke Town. «Leah mi tradiva con un avvocato. Uno ricco, bello, pieno di amore da darle, con una vita perfetta e serena. Era rimasta con noi solo per te, sai? Perché non credeva saresti stata abbastanza forte da sopportare un'altra perdita. E poi mi mancava mia sorella, Selena. Avevo promesso di starle accanto, eppure lei era finita sotto un camion con tuo padre e ti aveva lasciata a me. Come credi avrei potuto darti quello che tu volevi dalla vita?»

Me ne rimasi in silenzio, con gli occhi fissi sulla strada, indifferente. Dalla voce, sentivo che Robbie aveva iniziato a piangere, e pure Selena — che voleva sembrare impassibile — aveva delle lacrime salate e quiete che le rigavano il volto. Mancava troppo poco per arrivare al termine della corsa.

«La notte in cui ti ho ferita, mi era crollato il modo addosso. Mi sentivo un mostro, Selena. Ero troppo codardo per ammazzarmi, nonostante la morte sarebbe stata la soluzione più facile per tutti, ma allo stesso tempo ero così schifato da quello che stavo diventando da non voler più vivere. Non volevo né vivere, né morire, capisci?» tirò su col naso, asciugandosi gli occhi con la manica della giacca. «No, non devi capire. Spero tu non debba mai capire come ci si sente ad essere me».

«Ho ucciso una persona,» disse Selena, invece. «Ho ucciso una persona, Robbie. Dimmi, tu hai mai ucciso una persona?»

«No».

«Bugiardo,» mormorò lei. «Tutti gli assassini non sanno se vogliono vivere o morire. Vivere perché la morte li spaventa più del normale, morire perché la vita che hanno è spaventosa quanto la morte. Io capisco come ti senti, perché ho ucciso una persona. Tu chi hai ammazzato?»

Robbie non le diede mai una risposta, a quella domanda. Le sue labbra si cucirono assieme, e muto proprio come un assassino, passò il restante minuto di viaggio. A cosa stesse pensando, non era difficile immaginarlo.

Lasciai l'auto davanti alla villa, oltre i suoi cancelli, e i miei passeggeri scesero traballando. Erano entrambi scossi e feriti, e non dissero una parola da quando misero piede sul ghiaino, a quando tre guardie armate ci scortarono fino alla biblioteca di James Smoke.

Mio zio ci stava aspettando, perché le porte erano aperte e lui era palesemente felice — l'unica persona felice in tutta la città, probabilmente. E chissà perché.

«Accomodatevi, vi prego!» esclamò, alzandosi dalla sua poltrona e posando il libro che stava leggendo sul tavolino davanti a sé. «Non è una splendida giornata, oggi?»

«Lo è davvero,» la voce di Daniel, alle nostre spalle, rispose alla domanda retorica postaci dall'uomo. «Mi hai fatto chiamare, padre?»

«Sì, l'ho fatto,» replicò James, proprio quando suo figlio si posizionò al suo fianco. «Signori, potete andare,» disse ancora alle tre guardie che ci avevano accompagnati fin lì. «E voi, accomodatevi, su,» ci ripeté, indicando il divano in pelle che presto venne, da noi, occupato: Robbie a destra, Selena al centro, io a sinistra.

Nessuno parlò per quelle che sembrarono ore, tutti messi in soggezione dallo sguardo inquisitore di James, che passava da Sel a Robbie velocemente, soffermandosi poco su di me, ma abbastanza da mettermi i brividi.

«Non credevo che avrei visto così tanta somiglianza, a dire il vero,» infine la sua voce gremita di divertimento ruppe il silenzio. «Robbie Butler e Selena Parker... zio e nipote. Tua madre era sua sorella, se non erro, Selena».

«Lo sapevi,» ringhiò Sel. «Lo sapevi fin dall'inizio che Shelman era lui».

Ti prego, sta zitta.

Smoke ridacchiò. «Certo che lo sapevo. Dubitavi, forse, delle mie fonti di informazione? So più cose io su di te di quante non ne sappia tu stessa, te l'ho detto».

«Non capisco perché dovrebbe interessarti. Un uomo che ha potere, soldi, collegamenti in tutto il mondo, si preoccupa di informarsi tanto su di me. Perché?» continuò lei.

James si rigirò un anello al dito. «E' qui che ti sbagli. Vedi, un nemico è sempre un nemico, non importa quanto insignificante potrebbe essere. Il sapere è potere, come si suol dire,» sospirò. «Ma ora bando alle ciance, passiamo a questioni più importanti. Una caramella?» allungò la mano verso il barattolo di cristallo pieno di confetti colorati, togliendoci il coperchio e inclinandolo verso di noi.

«No,» rispondemmo io e lei all'unisono. Robbie si limitò a scuotere la testa.

Smoke allora prese per sé un dolcetto alla liquirizia, lo scartò, si sfregò le mani e «se Butler non ha i cinquecento ventitré mila quattrocentodieci dollari, non vedo perché dovrei risparmiare la sua miserabile vita,» disse.

Daniel tossicchiò. «Abbiamo pensato, o meglio ho pensato, che potrebbe rendersi utile in qualche modo per ripagarvi, padre. Ho sbagliato?»

James, di nuovo, rivolse il suo sguardo verso Sel. «A pensarci bene, forse non del tutto,» accavallò le gambe, coperte dal tessuto prezioso dei pantaloni neri da lavoro, poggiò le spalle allo schienale e continuò a fissarla intensamente, mentre mangiava la sua caramella. «Dipende tutto da te, Selena. Hai pensato alla mia proposta?»

«Sì,» rispose lei. «Ci ho pensato».

Trattenni il fiato. Sentii il mio cuore accelerare. Lei, al contrario di me, pareva così calma che mi domandai se non si fosse drogata, prima di scendere dall'auto. Ogni traccia del nervosismo di prima sembrava sparita dal suo organismo.

«Ebbene?» insistette mio zio.

«Ebbene, no. Non verrò a lavorare per te, James,» scandì ogni singola parola, come se stesse parlando ad un bambino, ma con un tono velenoso e aspro. «Grazie della proposta, ma non me la sento proprio».

Smoke sospirò, alzando gli occhi al cielo. «Peccato. Un gran peccato. Adesso, purtroppo, Butler ci rimetterà la vita».

Selena rimase impassibile. «Fa pure. Uccidilo, non m'interessa: non verrò a lavorare per te».

Lo sguardo di terrore e sgomento sul volto di Robbie mi fece provare una pena per lui che non credevo possibile. Doveva aver fatto male, sentirle dire quelle parole.

«Ah, Selena, sei esattamente uguale a me, dopotutto,» mormorò James. «Un mezzo per uno scopo. Avevo ragione, noi due pensiamo allo stesso modo. L'unico a perdere qualcosa sarà tuo zio, allora. Meglio così».

Passarono alcuni istanti di silenzio, poi Smoke continuò, rivolgendosi a Daniel. «Te ne occuperesti tu? Magari fuori, così non rovini il tappeto con il suo sangue».

Daniel riuscì a fare solo un passo verso Robbie, prima che Sel lo interrompesse, alzandosi in piedi e mettendosi fra lui e suo zio. «Nessuno ucciderà nessuno,» disse. «Possiamo benissimo giungere ad un compromesso-»

«Mia cara Selena,» rise James. «Io ho messo le mie condizioni. Tu vieni a lavorare per me, Robbie si tiene la sua vita. Più compromesso di così?»

«Spostati,» Daniel estrasse la pistola dalla fondina.

«Spostati, Sel,» mormorai. Ovviamente non m'ascoltò: piantò i piedi a terra, tenendo lo sguardo puntato in quello di James, ignorando sia me che Daniel.

«Guarda che non ho problemi a piantarti un proiettile nella gamba o nel braccio,» proseguì mio cugino. «Se non ti sposti subito».

«Bene,» sibilò lei. «Hai vinto. Verrò a lavorare per te, ma lui resta vivo».

«No,» ribattei, alzandomi a mia volta, ma la mano di Daniel entrò improvvisamente in collisione con le mie costole, facendomi piegare in due dal dolore, impedendomi di protestare oltre.

«Hai la mia parola, Selena. Tu lavori per me, Robbie Butler si tiene la sua vita. Un equo scambio, direi,» sorrise Smoke, euforico e felice della sua ennesima vittoria. «Anche se non lo voglio nella mia città. Potrà trasferirsi da un'altra parte al più presto, pulito da ogni accusa, e i miei uomini lo lasceranno in pace».

Provai ad obiettare, ma di nuovo Daniel si avvicinò e premette il suo pugno dove sapeva mi avrebbe fatto male, facendo pressione sulle costole. «Stanne fuori, Harry. Non riguarda te la cosa,» mi disse lui, a denti stretti, nell'orecchio.

Sel e James si strinsero la mano, poi lui le diede un foglio con il contratto di lavoro. Lei lo firmò senza neanche leggerlo, così come avevo fatto io tempo fa. Anche se lo avesse studiato attentamente, che differenza avrebbe mai potuto fare? Nessuna. O ti stavano bene le condizioni di James, o niente lavoro. E niente lavoro, in questo caso, avrebbe significato morte certa per Robbie.

«Ho sentito che non hai ancora imparato le leggi,» disse Smoke, osservandola scrivere il suo nome sopra al foglio. «Dovrai impararle, tutte e duecentotrenta, comprese le eccezioni, ovviamente, e le ec-eccezioni. A dire il vero, anche Cheng dovrebbe studiarle meglio,» mi guardò. «E Harry, questa è la prima e ultima volta che ti prenderai una punizione al suo posto. Intesi? Alla prossima, pagherà anche lei a causa tua».

Il dolore fisico che Daniel mi stava provocando mi impedì di rispondergli, ma era niente confronto al sentimento di tradimento che sentivo nei confronti di Sel. Non avrebbe dovuto accettare, neanche per salvare la vita a Robbie. Io ci avevo rimesso i miei genitori, cinque anni fa, e nonostante poi avessi firmato il contratto, Smoke aveva comunque fatto uccidere Gemma. Non si potevano fare patti con lui.

«Direi che è tutto sistemato. Selena, inizi il giorno dopo Natale. Hai poco più di una settimana per imparare tutte le leggi. E devi essere qui alle otto in punto,» Smoke mi fece tornare al presente quando sbatté sul tavolino una copia del codice delle regole di Smoke Town. Era uno dei pochi libri che avevo letto. «Tu e Harry potete andare. Vorrei solo scambiare due parole con Robbie, in privato».

Quando Daniel tolse la mano dal mio torace, il dolore scomparve immediatamente. Sel arrivò al mio fianco, lanciando un'occhiata di scuse a suo zio, che però sembrava sollevato nel sapere che Smoke non aveva intenzione di ucciderlo. Teoricamente.

Uscimmo dalla biblioteca velocemente, prima che James cambiasse idea. Restava comunque il fatto che Sel aveva accettato quel lavoro. Ora, come diamine avrei fatto a proteggerla?

«Harry...» iniziò lei. La zittii con un gesto brusco della mano.

«Non provare nemmeno a scusarti,» iniziai a camminare per il corridoio, diretto fuori dalla villa. I suoi passi leggeri che mi seguivano riecheggiavano sulle pareti, unendosi ai miei, meno lenti e più furiosi.

«Harry!» esclamò. «Vuoi ascoltarmi per cinque secondi?»

Mi fermai di colpo, girandomi per guardarla. «Ne avevamo parlato. Niente lavoro. Me l'avevi promesso».

Lei abbassò lo sguardo sulle sue scarpe. Sbuffai e le alzai delicatamente il viso con una mano, cercando di decifrare la sua espressione.

«Cosa avrei dovuto fare?» rispose, scettica.

«Non accettare quel lavoro. Ecco cosa. Mantenere la promessa».

«Avrebbe ucciso Robbie, Harry, per colpa mia. E non ho intenzione di diventare come James,» mormorò, abbassando il tono ad un sussurro a malapena udibile. «Sto cambiando, non so se te ne sei reso conto. Ho tolto la vita ad una persona, non voglio essere responsabile della morte di qualcun altro».

Lasciai la presa sul suo viso, la mia rabbia e frustrazione si stavano lentamente dissolvendo. «Te l'ho detto, devi smetterla di pensare a quell'uomo».

Sbuffò. «Per te è facile. Per me no».

«Non è facile. Ho solo imparato che bisogna fare quello che è necessario, anche se non sempre coincide con quello che è giusto».

«E' quello che ho appena fatto anche io. Ho dovuto accettare il lavoro, anche se non era giusto».

Scossi la testa, stringendo i pugni per non urlarle addosso. «Tu non capisci. Lui ti farà del male per arrivare a me, Sel. Non è questione di cosa sia necessario».

Sel emise un sospiro rassegnato, poi si passò una mano fra i capelli. «E quindi, cosa faccio adesso?»

«Cosa facciamo. Siamo una squadra, giusto?» provai a sorridere per rassicurarla, ma non convinsi neppure me stesso. Non ci riuscivo proprio, a sorridere. Volevo solo urlare e seppellire la mia testa sotto terra, come gli struzzi, così nessuno mi avrebbe visto piangere dalla disperazione.

«Cosa facciamo, adesso?» si corresse.

«Abbiamo circa una settimana prima di Natale. Tu imparati quelle leggi, io cercherò di dissuadere James-»

«Le leggi!» esclamò. «Ho lasciato il libro sul tavolino, in biblioteca».

Sbuffai, dandole le chiavi della mia auto. «Vado a prenderlo io. Tu aspettami in macchina. E non attirare l'attenzione delle guardie, per favore».

Quasi corsi per arrivare difronte alla grande porta di legno, ancora aperta. Dall'interno si sentivano le voci soffuse di mio zio, di Daniel e di Robbie mentre parlavano, e non riuscii a non fermarmi ad ascoltare, appoggiandomi alla parete.

«... e il suo contratto?» disse quest'ultimo. «Non potete fare così! L'avete ingannata!»

«Non mi servi a nulla, Butler, e mio nipote mi ha fatto arrabbiare così tanto che non ho alcuna intenzione di mantenere il patto con lei,» rispose la voce di Smoke.

«Vi prego!» esclamò Robbie. «Farò tutto quello che volete, ma lasciatemi vivere!»

Feci capolino oltre la soglia prima di sentire altro. Tre paia di occhi si fissarono su di me. «Cos'è questa storia?» domandai, andando davanti ad un Robbie impaurito e tremante, come Sel aveva fatto poco prima.

«Nessuno ti ha mai insegnato a bussare, Harry?» James era frustrato di vedermi, arrabbiato e probabilmente anche infastidito al punto da ricorrere alla pistola che era appoggiata sulla scrivania.

«Cos'è questa storia?» ripetei, più insistente. «Hai promesso che non lo avresti ucciso».

James rise. «E' vero, l'ho fatto. Ma ho cambiato idea».

Daniel rimase in silenzio, al suo fianco.

«Selena ha firmato un contratto perché tu non lo uccidessi,» ringhiai.

«Lo so che l'ha firmato, per questo ora non può tornare indietro. Butler morirà, che ti piaccia o meno. Io al contrario di lei, non ho firmato nulla».

Digrignai i denti. Dietro di me, sentivo Robbie respirare affannosamente. «Non puoi farlo,» ribadii.

«Certo che posso,» mi rispose, quasi con un tono di scherno e di vittoria. «Te ne occuperesti tu, Daniel?»

«Sì,» mormorò lui, facendo un passo verso di noi.

«No,» sibilai, indietreggiando.

Smoke sospirò. «Non opporre resistenza, Harry, è inutile».

«Altrimenti?» lo sfidai.

«Altrimenti me la prenderò con Selena. E' arrivato il momento di scegliere. O lui, o lei».

Rimasi a fissarlo, incenerendolo con lo sguardo, immobile e teso come una corda di violino. Valutai l'opzione di correre, afferrare la pistola sul tavolino e sparargli prima che Daniel lo potesse fare a Robbie, o attaccare Daniel, sperando di vincere, prendergli l'arma e uccidere James.

«Scegli lei,» mormorò Robbie, interrompendo i miei pensieri e facendo un passo avanti. «Non ne vale la pena, per me».

«Non dire stronzate,» borbottai. «Non ho intenzione di lasciarti morire così. Il contratto è stato firmat-»

«Non puoi salvare tutti, Harry. O me o lei».

«Sì che posso!» quasi gridai. Delle lacrime mi pizzicarono gli occhi, ma le ricacciai giù assieme alla saliva che sentivo ristagnarmi in bocca. Mi veniva sia da piangere che da vomitare.

«Va bene così, non importa,» continuò Robbie. «Se serve a salvare Selena».

Daniel lo afferrò per un braccio, iniziando a trascinarlo fuori dalla biblioteca. Agguantai il tomo delle leggi, rivolsi un'occhiata a James — che stava sorridendo in modo vittorioso — e li seguii velocemente all'esterno della stanza.

«Non farlo!» quasi lo supplicai. «Daniel, per favore».

«Devo,» non mi guardò nemmeno quando lo disse. Si fermò, tenendo Robbie sotto tiro, ma concedendoci qualche secondo.

«Promettimi che le dirai quello che senti per lei,» iniziò lui, prendendo il colletto della mia maglia per guardarmi negli occhi.

«Sai che non lo farò,» mormorai.

«Ti prego. Promettimelo. Ti chiedo solo questo,» nella sua voce c'era una nota di disperazione che mi fece sbuffare e annuire.

«Okay,» mi arresi. «Glielo dirò».

«La proteggerai?»

«Con la mia vita».

Parve sollevato. Un lieve sorriso si fece largo sul suo viso preoccupato. «Grazie, Harry».

«Tempo scaduto,» il tono meschino, crudele e distaccato di mio cugino mi giunse alle orecchie. Strappò Robbie dalla mia presa.

«Non farlo, Daniel,» provai, un'ultima volta, guardandoli allontanarsi verso un'ala della villa che avrebbe portato al cortile sul retro.

Mio cugino si voltò verso di me prima di sparire dietro l'angolo, la sua espressione indecifrabile: sembrava in qualche modo colpevole, dispiaciuta. Poi, entrambi scomparvero dalla mia vista, e io soffocai un grido di rabbia sbattendo un pugno contro il muro. Dannazione! E ora? Come diamine avrei fatto dire a Selena che aveva firmato inutilmente il contratto? Che suo zio sarebbe morto? E come avrei fatto a dirle che la amavo? Perché la amavo, giusto? Ne ero in grado?
Non sapevo niente di niente — se non che tutto ciò che avevamo fatto era stata solo una perdita di tempo.

Mi trascinai fino all'entrata principale, scesi gli scalini e tornai alla macchina, dove Selena mi stava ancora aspettando. Forzai un sorriso, lasciando il libro delle leggi sul cruscotto. «Ecco,» dissi.

«Robbie non torna con noi?»

Deglutii. «No... James vuole che si trasferisca a New York. Gli ha trovato un lavoro e un appartamento in quattro e quattr'otto, partirà fra poco. Mi dispiace che non abbiate potuto salutarvi».

Bugiardo!

Lei scrollò le spalle. «Va bene così. Immagino sia la cosa migliore, dopotutto».

E per tutto il tragitto tenni lo sguardo sulla strada, cercando di non piangere: quelle due settimane erano passate davvero in un battito di ciglia.

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