3. Dove ogni speranza va in fumo (pt. 1)

Il rombo della macchina e il tremore del sedile a causa del motore acceso, fu ciò che mi destò dal mio sonno ristoratore, la mattina seguente.

Alzai la testa, drizzai il mio corpo indolenzito e freddo, strofinando ripetutamente le mani lungo le mie braccia dalla pelle ghiacciata, per cercare di infonderci un pochino di calore con quel misero attrito che speravo di creare.

«Prenditi il mio giubbotto, se hai freddo,» la voce annoiata e leggermente infastidita di Harry mi fece girare il capo, per guardarlo.

«Sto bene così, ma grazie,» annuii, massaggiandomi pure il retro del collo. Era da un bel po' che non dormivo in un'auto, ed era stranamente più accogliente del piccolo materasso nel locale di Jack.

Harry tossicchiò, ricatturando il mio sguardo. «Comunque, fra poco ci fermeremo a mangiare e altre cazzate. Immagino avrai fame».

«E anche sete,» aggiunsi. «Grazie, Harry».

Borbottò qualcos'altro che non captai, liquidando il mio ringraziamento con un lieve cenno della mano e un'occhiata veloce alla mia figura, di sfuggita; i suoi occhi stavano meglio puntati sulla strada, che scorreva veloce sotto di noi, e i miei stavano ben attenti a non passare sul suo corpo. Non sapevo se fidarmi di lui o meno, ma sapevo che mi aveva tolta dalla strada, e quello, per ora, mi sarebbe bastato. Magari, certo, aveva fini più oscuri per cui l'aveva fatto, ma dove sarei finita, io, se non avessi deciso di seguirlo?

Fino a poche ore prima avevo un lavoro, un tetto sopra la testa, una garanzia che mi assicurava che sarei arrivata a fine giornata. Adesso? Solo Harry. E il dipendere interamente da lui mi era, in qualche modo, un fardello. Quel ragazzo era un mezzo mistero, che probabilmente non sarei mai riuscita a svelare. Non serviva un genio per capire che non era un santo, e che aveva ucciso per soldi, ma ero stranamente contenta di stare in sua compagnia, invece che da sola, in una città fredda, senza sapere cosa diamine fare o dove andare.

Involontariamente, girai la testa per guardarlo.

Osservai come i ricci castani, raccolti ora in quella sua bandana a stelle e strisce, lottassero per ricadergli in faccia. Ieri sera, quando non ce l'aveva indosso, le ciocche ricce che adornavano il suo viso arrivavano quasi alle sue spalle. Il naso dritto, lo sguardo fisso davanti a sé, la postura rigida; il suo petto, però, si alzava e si abbassava regolarmente, in modo perfettamente calmo e rilassato, sotto alla maglietta nera dei Pink Floyd che gli copriva il torso.

«Non puoi dirmi dove abiti?» mi azzardai a chiedere, di nuovo.

«Non puoi smetterla di chiederlo?» rispose.

«Se me lo dicessi, sì».

Harry sbuffò. «Ti piace leggere,» constatò, lanciandomi una piccolissima occhiata curiosa con la coda dell'occhio. «Qual è il tuo libro preferito?»

«Songs of Experience, di William Blake, senza dubbio. E poi amo anche Orgoglio e Pregiudizio, e tutti i libri di Dickens. Conosci Dickens, vero? Racconta un mucchio di storie su ragazzi orfani e senzatetto e-» mi bloccai, quando notai che aveva iniziato a ridacchiare sotto i baffi.

«Ha, ha, ha,» dissi, infastidita, scandendo le sillabe della mia risata finta e sarcastica. «Ma che intelligente trucchetto per farmi cambiare argomento».

«Non era un trucchetto, era solo una domanda,» si giustificò. «Sei tu che hai iniziato a parlare come una radio rotta».

«Sbaglio o tu non sopportavi le domande?»

«Sbagli, mia cara Selena,» ammiccò. «Le domande mi piacciono quando sono io a farle».

«Incoerente,» borbottai.

«Mi hanno rifilato aggettivi peggiori, non mi offendo, non preoccuparti,» fece spallucce.

«Aggettivi del tipo?»

«Vuoi la lista?» alzò un sopracciglio. «I miei amici più stretti mi definiscono asociale, burbero, scontroso, antipatico, sciupafemmine, bastardo, egocentrico, spaccone, bipolare e quant'altro. La gente che non sa un cazzo di me, invece, solo assassino».

«E tu sei d'accordo con loro?» domandai.

«Abbastanza, sì. Ma sono anche terribilmente carismatico, affascinante, bellissimo-»

«Modesto, non dimenticare,» aggiunsi.

«Oh, andiamo!» rise. «Mi stavi divorando con quei tuoi occhioni, solo pochi minuti fa. Non puoi negare io sia un bellissimo ragazzo».

Distolsi velocemente lo sguardo da lui, sentendomi avvampare. «Non ti stavo divorando affatto,» mormorai. Feci cadere i capelli sul mio viso, per cercare di creare una specie di scudo tra le mie guance rosse dalla vergogna ed i suoi occhi verdi. Non funzionò molto.

Con un ghigno, «come no. Ma tranquilla, sono abituato ad essere fissato dalle ragazze,» disse.

«E ti sei mai chiesto perché?»

«Perché vorrebbero che le portassi a letto?» mi guardò di sottecchi, il suo tono sorprendentemente innocente rispetto alla frase che aveva detto.

«No,» risposi. «Perché forse stanno decidendo l'angolazione migliore da cui tirarti una sberla».

«Io sono sicuro sia perché vogliono che le porti a letto,» rimarcò.

«Che simpatico,» sbuffai.

«Come te,» ribatté, mettendo fine al discorso.

Posai la testa sul finestrino, non riuscendo ad evitare che un piccolo sorriso mi solcasse le labbra. Harry aveva un buon senso dell'umorismo, nonostante tutto, e forse non era così male come i suoi amici lo avevano descritto. Di sicuro era un abile manipolatore, in quanto era completamente riuscito a distrarmi dalla mia prima domanda.

Raddrizzai la schiena, tossicchiai, e «Harry-» iniziai, venendo interrotta subito.

«No. Scordatelo,» disse, e il suo tono leggermente più tagliente mi fece accigliare.

«Ma non sai neanche cosa stavo per chiederti,» obiettai.

«Lo so, invece, e la risposta è no, non te lo dico».

Sbuffai, accasciandomi sul sedile, come una bambina a cui era stato negato il permesso di accarezzare la tigre allo zoo, facendogli il muso, che servì solo ad infastidirlo più di quanto già non fosse.

Un quarto d'ora dopo, ci fermammo ad un autogrill, proprio quando avevo iniziato a sentire il bisogno di andare in bagno.

«Aspetta qui,» ordinò lui, brusco, scendendo dall'auto e chiudendo la portiera dietro di sé, prima che potessi protestare. Lo guardai allontanarsi a passo svelto e sparire nel locale, poco distante da una postazione di lavaggio auto.

Aspetta qui. Certo, solo se non gli fosse dispiaciuto che avessi usato il sedile per fare pipì.

Mi assicurai che non stesse guardando verso di me, ed uscii dalla macchina; dovevo davvero sgranchirmi le gambe e rinfrescarmi il viso.

Trovai dei bagni con un entrata nel retro del negozio, in modo da non dover rischiare di farmi beccare da Harry. Storsi il naso all'odore che proveniva dai gabinetti, ma se avessi aspettato ancora cinque minuti, sarei scoppiata, quindi mi feci coraggio, inspirando profondamente e trattenendo il fiato, prima di chiudere la porta alle mie spalle, così da non inalare quell'aria puzzolente.

Mi lavai le mani e i polsi almeno tre volte, spruzzandomi poi un po' d'acqua fresca in faccia. Cercai di sistemarmi i capelli, ma senza una spazzola non riuscii a fare un gran che, e dovetti rassegnarmi a lasciarli sciolti nel loro perenne stato disordinato e acciottolato.

Tornai all'auto, constatando con mio immenso sollievo che Harry non c'era ancora. O ero stata estremamente veloce ad andare in bagno e a fare tutte quelle cose da ragazza, o lui era un maschio estremamente lento nel fare la spesa.

Stavo per aprire lo sportello e ritornare al mio posto, quando notai qualcuno venirmi in contro. Era un ragazzo poco più grande di me, dai corti capelli neri e gli occhi azzurri. La schiena dritta, rigida quasi come quella di un soldato, che stonava con il semplicissimo paio di jeans e il maglione di lana a motivi romboidali che aveva indosso.

«Hey,» mi disse, fermandosi ad un paio di metri di distanza.

«Ci conosciamo?» domandai, perplessa.

«Negativo,» scosse la testa. «Sono Daniel,» disse, porgendomi una mano che strinsi, nonostante le sirene di allarme nella mia testa avessero iniziato a suonare.

«Selena,» mormorai poi.

«È la tua auto?» chiese, osservando la macchina di Harry. Era interessato all'auto, dunque?

«No. È di un mio... amico,» risposi. Io e Harry eravamo amici? Probabilmente no.

«Un tuo amico? E come si chiama?»

Stavo per domandargli perché cavolo gli interessasse sapere così tanto, quando una voce davanti a noi mi fece sobbalzare.

«Daniel!» Harry avanzava verso di noi a passo svelto, una mezza corsa, la sua espressione divisa fra l'arrabbiato e il preoccupato. Tra le mani aveva una busta di carta marrone, probabilmente il nostro pranzo.

Un momento. Aveva chiamato Daniel per nome?

Si fermò al mio fianco, spingendomi leggermente dietro di sé, quasi con fare protettivo, mentre analizzava Daniel come io avevo analizzato i gabinetti, poco fa.

«Harry. Dovevo immaginarlo,» disse Daniel. «Solo tu hai gusti così, nella scelta delle auto».

«Solo tu hai gusti così, nella scelta del modo di vestire. Dimmi, te l'ha fatto la nonna, quel maglioncino? O ti stai dilettando nel lavoro ai ferri?»

«Sei di buon umore, oggi,» ammiccò Daniel in risposta, spostando lo sguardo da lui a me. «Posso offrirti qualcosa da bere, Selena? Una ragazza come te non dovrebbe girare con persone come lui».

«No, grazie,» dissi. «Non accetto da bere dagli sconosciuti. Potrebbero essere dei maniaci, sai com'è».

Daniel serrò la mascella, il sorriso compiaciuto che era presente sul suo volto, scomparve di colpo. «Era lei la complicazione?»

«No,» tagliò corto Harry, serio, e il fatto che Daniel avesse menzionato una complicazione, mi fece pensare fosse lui la persona a cui Harry aveva parlato al telefono, la sera prima.

«Stai confondendo il lavoro con il tuo piacere personale. Non va affatto bene-»

«Non era lei la complicazione,» ringhiò il ragazzo, ancora, serrando i pugni.

«-dovrò fare rapporto a James, e sai come la prenderà».

«Tu non farai rapporto a nessuno,» continuò Harry, digrignando i denti. «La complicazione è stata la fottuta polizia, dannazione. Quel bastardo mi ha sparato, e ho dovuto ammazzarlo».

«E lei cosa ci fa con te, se non era la complicazione di cui parlavi?» insistette Daniel.

«Era lì quando l'ho ucciso. Se gli sbirri l'avessero fermata, avrebbe parlato, e ora sarei nei guai fino al collo,» gli spiegò, omettendo la parte in cui gli avevo detto di essere senza casa, tutto quello che aveva seguito la mia confessione, e il suo atto di estrema umanità nel farmi venire con lui. Ma di certo, rivelare quel particolare al ragazzo davanti a noi, sarebbe stato sciocco. Estremamente sciocco.

Daniel tornò a sorridere in modo quasi crudele, scuotendo la testa. «Sei un bravo bugiardo, te lo concedo; James ti avrebbe tirato fuori da qualsiasi guaio ti fossi cacciato, e lo sai. Ma va bene, lasciamo correre. Diamo tutta la colpa agli sbirri, l'importante è che quel figlio di puttana sia morto stecchito».

«Perché non sali in macchina, Selena?» mormorò Harry. «Abbiamo finito, qui».

Il suo umore era così drasticamente calato che non osai obiettare o domandargli come mai conoscesse quel ragazzo: sapevo si sarebbe arrabbiato ancora di più, e non era il caso. Tornai a sedermi quindi al mio posto, chiudendo la portiera, aspettando che Harry e Daniel si scambiassero le ultime parole; poi, il primo mi seguì all'interno dell'abitacolo del veicolo, e il secondo girò i tacchi, allontanandosi parecchio compiaciuto e vittorioso verso il bar dell'autogrill, proprio mentre noi due uscivamo dal parcheggio.

La bandana della bandiera Americana finì sui sedili posteriori, così che le mani del ragazzo potessero passare ripetutamente fra i suoi capelli, azione che avevo capito faceva quando era frustrato o irritato.

«Harry,» mormorai. «Mi dispiace, non-»

«No, dannazione! Se ti chiedo di stare in macchina, ci stai, Selena,» esclamò, a voce troppo alta. «E poi, gli hai detto il tuo nome. Cosa cazzo hai che non va?»

«Scusami, diamine!» quasi urlai. «Non sono abituata ad avere gente come voi due che mi ronza attorno, okay? Sembrava un tipo normale-»

«Sembrava, appunto,» mi interruppe. «Non fidarti delle apparenze. Solitamente, gente che si veste così di merda nasconde una pistola nella giacca».

«Perché, tu no?»

«No,» rispose. «La mia è nella cintura».

«Ah, beh, allora posso stare tranquilla,» borbottai, sarcastica.

«Sì, puoi. Sono l'ultima persona al mondo che ammazzerebbe una ragazza, te compresa, -anche se mi fai saltare i nervi. Al contrario, Daniel sarebbe il primo a farlo,» strinse forte il volante, tanto che le sue nocche sbiancarono, poi, dopo qualche minuto di silenzio tombale, mi passò il sacchetto del pranzo.

«Mangia qualcosa. Io non ho più fame,» mormorò, mentre tiravo fuori un panino. «La prossima volta ascoltami e fai quello che ti dico, grazie».

«Dovevo andare in bagno. Non penso t'avrebbe fatto piacere avere i sedili impregnati dal dolce profumo della mia pipì».

«Che schifo, Selena,» ridacchiò. «Potevi tenertela».

«Non è colpa mia se i miei reni depurano il mio sangue,» presi un morso dal mio pranzo.

«Lo è, invece, avresti potuto dire ai tuoi reni di non depurare il sangue».

«L'ho fatto, sai, ma non mi ascoltano».

«Avresti potuto aspettare dieci minuti, chiedermi di fermarmi, per poi accucciarti sul ciglio della strada. Avresti pure fatto bere le povere piante secche».

Sbuffai, trattenendo una piccola risata, «smettila di prendermi in giro,» dissi, mettendo fine al nostro breve scambio di parole. Forse gli avevo sollevato un po' l'umore, perché non pareva più arrabbiato come prima; non stava sorridendo, certo, ma non era neanche furioso. Neutrale, la sua espressione, concentrata sulla strada. Forse era meglio così.

Restammo quindi in silenzio per un bel po'. Finii di mangiare il mio panino, bevvi metà della bottiglietta d'acqua che mi aveva comprato, mentre lui guidava e tamburellava le dita sul volante. Di tanto in tanto mi lanciava un'occhiata disinteressata, per una qualche ragione che conosceva solo lui, o forse neanche ce l'aveva, un motivo.

Il paesaggio fuori dal finestrino stava lentamente cambiando; dove, fino a poco prima, si scorgevano campi di terra ghiacciata dalla brina, ora c'erano prati di erba ingiallita che si stendevano fino in lontananza, sia a destra che a sinistra della strada. Il cielo rimaneva nuvoloso, ma la pioggia non aveva ancora iniziato a cadere.

Nuvole e poesie, la combinazione perfetta.

Estrassi il consueto libro dal mio zaino, e proprio quando la prima goccia d'acqua colpì il parabrezza con uno splat, i miei occhi si focalizzarono sulle parole. Di nuovo.

«Me ne leggeresti una?» mormorò Harry, all'improvviso.

Boccheggiai, sorpresa. «Cosa?»

«Mi leggi una poesia? La tua preferita. Voglio vedere quanto brutta è,» ripeté, e neanche provai a nascondere il fastidio che il suo commentino mi aveva recato.

«Bene,» dissi. «The Tyger. La conosci?»

«Mai sentita,» scosse la testa. «Procedi pure».

Tyger! Tyger! Burning bright
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?

Chiusi il libro, guardando ora lui, e continuai a recitare i versi che erano rimasti impressi nella mia mente. Forse capiva ciò che stavo dicendo, forse no. Erano difficili da decifrare, i suoi pensieri, perché più parole uscivano dalla mia bocca, più lui pareva chiudersi.

«Questa è la tua preferita?» chiese, quando smisi di parlare. «Fa schifo».

«Perché?»

«Perché è scritta in un modo incomprensibile».

«È inglese antico, grazie tante, Harry,» alzai gli occhi al cielo. «Il significato è molto profondo, una volta compreso il testo».

«Ma non mi dire,» bofonchiò. «Non ho tempo di tradurre filastrocche dall'inglese antico, all'americano di oggi».

«Posso farlo io, se vuoi».

Sbuffò. «Okay. Sentiamo».

«William Blake parla della libertà dell'uomo, perché contro la Tigre, che in questa poesia è vista come una creatura perfetta ma terribile, che si aggira di notte nelle foreste, spaventando tutti con la sua agghiacciante simmetria,» spiegai. «Poi, Blake paragona la Tigre all'Agnello, chiedendosi se il creatore dell'uno, fosse anche quello dell'altro, e come fosse stato possibile che una mano avesse generato due animali tanto diversi. Nessuna delle domande del testo avrà una risposta, in ogni caso».

Harry se ne rimase zitto, per qualche manciata di secondi, poi «scommetto che tu non vedi te stessa come la Tigre,» sghignazzò. «Perché io non riuscirei mai a pensare a te come una creatura simile. Sei troppo tenera e indifesa, e mi sorprende un sacco che ti piaccia una poesia del genere».

«Infatti, non mi vedo come la Tigre,» mormorai.

«Perché ami tanto questa poesia, allora? Se non ti immedesimi nel protagonista, ci dev'essere un altro motivo».

Sospirai. «Mi piace e basta, cosa c'è di strano?»

Mi guardò di sottecchi. «Stai mentendo, Selena. Sei una pessima, pessima bugiarda».

«E allora?» scrollai le spalle. «Perché ti interessa?».

Con nonchalance, «Non mi interessa, mi annoio,» disse. «Facciamo così; se mi spieghi perché questa poesia ti piace tanto, risponderò a una delle tue fastidiose e antipatiche domande».

Ecco, immaginavo sarebbe successo. Harry aveva perfettamente capito il mio problema a controllare la mia curiosità, e lo stava usando a suo vantaggio. E non era neppure giusto, perché lui pareva non avere un tallone d'Achille, mentre io ero una spugna che non faceva altro che perdere acqua da ogni falla.

«Mia madre me la leggeva, da piccola,» mi arresi.

Dopo un paio di attimi di silenzio, «capisco,» annuì lui. «Beh, tocca a te».

Quanti anni aveva? Il suo colore preferito? Come si chiamavano i suoi genitori? Aveva un migliore amico o una ragazza?

Un leggero sorriso s'impossessò del mio viso, al solo pensare a ciò che gli avrei domandato. «Dov'è, esattamente, casa tua?» la mia voce uscì meno forte e meno compiaciuta del previsto, ma lui capì lo stesso, perché si irrigidì e contrasse la mascella.

«Hai appena sprecato un ottimo motivo di conversazione, complimenti,» cantilenò. «Non ho intenzione di rispondere».

«Perché?»

«Perché di no».

«Sai che continuerò ad assillarti finché non me lo dirai, vero?»

Lui sbuffò. «Tra tutto quello che potevi chiedermi, proprio quello vuoi sapere?»

«Sì».

«Benissimo,» sbuffò. «Denville, New Jersey. Mai sentito?»

Per quel poco che ne sapevo, Denville era il cento del traffico di droga del paese. Aveva il più alto tasso di criminalità degli Stati Uniti, e la polizia aveva un qualche ordine restrittivo per il quale non poteva neppure metterci piede. Avevo letto più volte, sui giornali che la gente buttava nella spazzatura, che Denville era la casa di una multinazionale di droga e un boss della mafia.

Rabbrividii. Non era per niente un bel posto in cui vivere.

«Capisco,» imitai ciò che lui m'aveva detto poco prima. «Beh, wow».

«Beh, wow?»

«Avrei dovuto immaginalo. I tuoi loschi affari, le botte sul viso, le bende sulle mani, la maglia dei Pink Floyd-»

«I Pink Floyd cosa c'entrano con Denville, scusa?»

«Musica depressiva, per gente depressa,» mi giustificai. «Anche se non hai l'aria da drogato o da alcolizzato».

«Infatti,» annuì. «Io non bevo».

«Neanche un piccolo bicchierino di whisky una volta ogni tanto?» lo punzecchiai.

«No,» scosse la testa. «Solo acqua naturale, al massimo frizzante. E tè inglese».

«Coca-Cola?»

«Mi fa schifo».

«Caffè?»

«Non mi fa dormire».

«Che triste, Harry,» constatai. «Davvero, davvero triste».

Non mi rispose, ma quando lo guardai, vidi che non era arrabbiato affatto, così poggiai la testa sul finestrino dell'auto, lasciando che la conversazione si tramutasse in un silenzio gentile e sereno. Il paesaggio cambiò di nuovo –le praterie ingiallite dal tempo di ottobre furono sostituite da boschetti di faggi con le foglie rosse e arancioni, e la pioggia iniziò a cadere più forte, bagnando i finestrini e la strada su cui erano cadute molte di quelle foglie colorate.

Harry stava guidando da quasi tre ore, quando un cartello stradale catturò la mia attenzione.

Denville, 10 miglia

Una strana sensazione si fece strada nella mia pelle. Ansia. Ansia e paura. Non sapevo cosa aspettarmi da quella città. Avevo girato moltissimi luoghi diversi, visto molte cose brutte e spaventose, ma probabilmente nessuna di esse si sarebbe avvicinata minimamente a Denville.

Pochi minuti più tardi, un secondo cartello stradale ci annunciò il benvenuto nella città, anche se recinzioni di filo spinato a ridosso delle case più esterne, avrebbero dissuaso chiunque ad entrarci. Il cielo s'era fatto in qualche modo più cupo, mentre Harry guidava attraverso le strade, imboccandone una secondaria di tanto in tanto, tenendo gli occhi e le orecchie aperti.

Era nervoso, proprio come lo ero io, anche se non avrei dovuto averne motivo; lui sarebbe stato con me, giusto?

I pochi lampioni accesi creavano ombre sinistre agli angoli delle case dai muri imbrattati di graffiti, dove erbacce crescevano tra le crepe dell'asfalto rovinato. C'erano macchine rottamate dentro cui si potevano vedere barboni e senzatetto dormire, i vetri delle finestre delle abitazioni erano perforati da fori di proiettile. Sembrava una città fantasma, viva eppure morta. Un brivido di paura mi percorse la spina dorsale.

Harry, infine, parcheggiò la macchina nel cortile sul retro di un edificio che sembrava un po' meglio degli altri attorno ad esso. Eravamo entrambi riluttanti ad abbandonare l'abitacolo della Land Rover, io guardavo lui e lui dritto davanti a sé, come ipnotizzato.

Poi, però, sospirò, si mosse, puntò i suoi occhi nei miei, e «benvenuta nella mia città, Selena,» disse.

. . . . . . .

Hey!

Volevo dirvi solo che questo è l'ultimo capitolo per questa settimana, anche se mi dispiace perché ne avrei ancora un paio già corretti, solo che non voglio correre troppo con gli aggiornamenti per trovarmi a mani vuote fra qualche giorno.

Spero stiate tutte bene e niente, ci sentiamo la settimana prossima con un nuovo capitolo.

Lottie x

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