26. Questione di egoismo

Harry

Il corpo pesante e senza vita dell'uomo si accasciò sopra di me, schiacciandomi, proprio mentre sentivo la lama fredda del suo coltello aprire un taglio nella mia gola. Me lo scrollai di dosso, alzandomi in piedi velocemente: un lieve bruciore, seguito dalla sensazione fastidiosa del sangue caldo scorrere lungo la mia pelle mi fece storcere il naso, ma quando tastai il taglio con la mano, constatando che era solo un graffio superficiale, sospirai di sollievo.

Selena, a pochi passi di distanza, fece cadere a terra la pistola, fissando con occhi vuoti quello che aveva fatto. La prima volta ad uccidere qualcuno non era mai facile. Prima c'era stata quella scarica di adrenalina che ti aveva dato coraggio, ma una volta premuto il grilletto non si poteva mica tornare indietro. Poi, ecco che arrivavano i sensi di colpa per aver tolto la vita ad una persona, arrivava lo sgomento, l'incredulità, la disperazione. Arrivava il cosa farò, adesso? seguito dal sono un mostro, arrivavano le notti insonni e le immagini degli ultimi attimi di vita della persona che si aveva ucciso.

Non diventava di certo più facile, ma si imparava a conviverci.

«Cosa mi sta succedendo, Harry?» mormorò. «Perché l'ho fatto?»

«Non è stata colpa tua,» dissi, andandole incontro.

«Sì, invece, e lo sai».

«Mi hai salvato la vita. Hai fatto quello che dovevi».

Lei scosse la testa. «Non vuol dire che sia giusto,» rispose. «E non venirmi a dire che la vita non è giusta, perché non ho scuse. Non cercare di giustificare quello che ho fatto».

Sospirai, avvicinandomi ancora. Alla luce della luna, vedevo che aveva gli occhi lucidi. «Non ti sto giustificando, sto solo dicendo che a volte si fanno cose brutte, ma non significa però che tu sia una persona cattiva».

Il suo sguardo cadde sul corpo dell'uomo. «Dovremmo almeno spostarlo da questo posto, così potranno trovarlo e seppellirlo, fargli un funerale decente. Nessuno merita di marcire in una casa schifosa come questa».

«Se pensi che potrebbe aiutarti, sì,» annuii, meravigliandomi della sua idea. Con qualche sforzo lo portammo fuori dalla casa, adagiandolo sul grande dondolo del portico, stranamente ancora intatto. Sel gli incrociò le braccia al petto, poi gli chiuse le palpebre e fece un passo indietro.

«Sai, pensavo che quando si muore, gli occhi si chiudessero,» mormorò, fermandosi al mio fianco. «Oddio. Mi viene da vomitare».

La vidi chinarsi a terra, e subito le raccolsi i capelli, lasciando che si svuotasse di tutta la bile che aveva in corpo. Anche io avevo vomitato, la prima volta che avevo visto un cadavere. E anche la seconda. La terza ero riuscito a tenere tutto giù, la quarta pure. Adesso, c'ero abituato.

Le carezzai la schiena, aspettando che finisse, poi frugai nel mio zaino alla ricerca di una bottiglietta d'acqua con la quale potesse sciacquarsi la bocca; volle anche lavarsi i denti, sostenendo quanto schifo le facesse avere il sapore della bile incastrato nel palato, e chiaramente la capivo benissimo.

«Dovremmo andare, prima che tornino gli altri,» le dissi, e si allontanò di qualche passo da me, per guardarmi. Solo in quel momento, al chiarore della luna, mi accorsi del grande taglio che andava dal suo sopracciglio alla tempia, che stava ancora sanguinando.

«Cos'hai fatto?» chiesi, indicandolo e diventando improvvisamente preoccupato.

Lei si toccò il taglio con i polpastrelli, facendo una smorfia di dolore. «E' solo un graffio, lascia stare, sto bene. Devo solo pulire il sangue,» borbottò.

«Quello non è solo un graffio,» osservai. «Andiamo, prima troviamo gli altri, meglio è».

Mi strappai un pezzo dell'orlo della maglia, aiutandomi coi denti, e glielo porsi per tamponare la ferita e fermare almeno un po' il sangue, poi presi il cellulare e composi il numero di Daniel. Mi domandavo dove fossero finiti lui e Robbie. Sempre se Daniel non se lo
fosse lasciato sfuggire.

Rispose dopo il terzo squillo. «Harry,» disse.

«Dove siete?» gli chiesi, non preoccupandomi di sapere se fossero feriti in alcun modo.

«In una casa che ha ancora le porte intatte, aspetteremo qui finché le acque non si saranno calmate. Voi state bene?» la preoccupazione nella sua voce mi sorprese.

«Io sì, ma Selena ha un brutto taglio che continua a sanguinare,» spiegai. «Robbie?»

«Sta bene anche lui. Dovreste raggiungerci, non è sicuro stare in strada. E poi qui ho una cassetta del pronto soccorso».

«Okay. Dov'è la casa?»

«Se parti dal punto in cui eravamo prima degli spari, vai dritto due isolati, poi gira a sinistra ed è la prima sulla destra. Ha la porta rossa».

«Arriviamo,» riattaccai senza aspettare una risposta, e ci affrettammo a raggiungerli; non iniziammo a correre solo perché il taglio di Selena avrebbe anche potuto riprendere a sanguinare, e non era ciò che volevamo, chiaramente. Il nostro passo, però, era veloce, e ben presto ritornammo al punto in cui c'eravamo separati. Da lì, seguimmo le indicazioni di Daniel: dritti per due isolati, poi a sinistra.

Non fu facile distinguere il colore della porta, visto che con la poca luce il rosso bordeaux sembrava più un marrone cupo, ma alla fine riuscimmo a trovare l'abitazione giusta. Provai ad aprirla ma ovviamente l'avevano chiusa, così iniziai a bussare forte sul legno finché la sagoma di Daniel non comparve sulla soglia, facendoci entrare.

«Avete controllato tutte le stanze?» chiesi, salendo le scale fino al piano superiore, da cui proveniva una luce giallastra.

Daniel annuì. «Positivo: siamo solo noi».

Robbie era seduto per terra in quello che sembrava essere una vecchio studio, c'erano degli scaffali impolverati alle pareti, dove la carta da parati era strappata si vedevano le assi di legno che componevano parte dei muri, e in un angolo della stanza c'era una specie di scrivania. Un paio di candele erano poggiate su di essa, illuminando con la loro luce fioca la stanza quanto bastasse per distinguere le cose che ci circondavano.

«Fa' vedere il taglio,» disse Daniel a Selena, che si tolse il pezzo di stoffa dalla fronte. «Come hai fatto? Ti servono dei punti, penso,» borbottò. «Siediti lì sopra, fammi questo piacere,» e si mise a frugare nel suo zaino, uno di quelli ideali per fare trekking o cose simili; ne estrasse una piccola cassetta bianca, che posò sul tavolo. Sel prese posto accanto ad essa, lasciando penzolare le gambe, mentre io andai dall'altro lato della stanza, senza staccare gli occhi da lei. Sentii lo sguardo di Robbie addosso ma feci finta di niente: non volevo ricominciasse a farmi la predica con lei presente.

«Hai davvero intenzione di darmi dei punti?» chiese lei, preoccupata. «Perché senza anestesia o-»

«Questi punti, Selena,» Daniel estrasse una sottospecie di cerotto a fasce. «Non perforano la pelle, si limitano a tenerla assieme, così da facilitare la coagulazione nello stesso modo in cui farebbero dei punti normali».

«Quindi tu sei una specie di medico?» disse lei, fissando il suo viso, curiosa.

«Ho studiato medicina per due anni e mezzo,»
le rispose, disinfettando e pulendo la ferita con una garza e quella che doveva essere acqua ossigenata. Sel fece una smorfia di dolore, ma non si spostò.

«E non hai mai pensato di continuare gli studi?» gli chiese ancora.

«Certo che sì».

«E perché non li hai continuati?»

«James aveva bisogno di me nella società, quindi ho indirizzato il mio amore per il corpo umano, verso le macchine e la tecnologia. Non siamo poi molto diversi dai computer, sai. Abbiamo gli stessi ingranaggi, lo stesso motore, gli stessi parametri vitali, se ci pensi. Conoscere a fondo un computer è difficile quanto conoscere a fondo una persona,» spiegò. Questa storia io non la sapevo. «Ma adesso basta con le domande - mi serve luce, qualcuno può farmi un po' di luce?»

Mi alzai senza dire nulla, muto come Robbie, ed accesi la torcia del cellulare, puntandola sul taglio. Era decisamente non un semplice graffio. Daniel aprì i punti adesivi come si faceva con qualsiasi cerotto, appiccicandone la base da una parte del taglio, e l'altra base nella seconda parte, incrociando le estremità delle due componenti dello strano cerotto, così da chiudere la pelle.

«Probabilmente ti lascerà una cicatrice,» mormorò Daniel. «Spero non ti dispiaccia».

Selena lanciò un'occhiata a Robbie, che, velocemente, distolse lo sguardo. «Non sarebbe la prima,» rispose lei, usando quel tono che riservava solo per suo zio.

Non era la prima cicatrice? Cosa voleva dire?

Avrei voluto chiederglielo, quando lui sospirò, passandosi una mano sul viso. «Mi dispiace-»

«Non provare a scusarti. Non funziona,» lo interruppe.

«Selena...» mormorò. «Per favore».

«Io sono stanca. Vado di là a dormire,» Sel si alzò dal tavolo e uscì dalla stanza, lasciando un Daniel alquanto perplesso, che della situazione ci capiva meno di me, e un Robbie che stava perdendo le speranze.

«Harry, andresti a-» ricominciò quest'ultimo.

«Sì. Vado io,» sarei andato da lei anche se non me l'avesse chiesto. Per lei, dopotutto, avrei fatto qualsiasi cosa, e Robbie sembrava averlo già capito. Non sapevo se esserne sollevato o preoccupato: era tutto così strano quando c'era di mezzo Sel.

La trovai nella stanza accanto, immersa nella semi oscurità. I pallidi e deboli raggi lunari filtravano dalla finestra, illuminando la sua figura seduta a terra con le ginocchia raccolte al petto. Mi adagiai vicino a lei, senza dire niente; forse non voleva parlare.

Dopo una decina di minuti così, però, quando iniziai a non sentirmi più il culo, se per il freddo, per l'intorpidimento, o per il fatto che il sangue non c'arrivasse, estrassi il cellulare dalla tasca dei pantaloni e passai un braccio attorno alle sue spalle.

Lei non si mosse, quasi come non se ne fosse accorta.

Aprii una pagina internet, velocemente, con quella poca connessione dati che avevo, e dopo altri cinque minuti in cui dovetti aspettare che si caricasse, iniziai a leggere:

Tyger! Tyger! Burning bright
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?

La guardai di sottecchi. Ancora nessuna risposta.

In what distant deeps or skies
Burnt the fire of thine eyes?
On what wings dare he aspire?
What the hand dare seize the fire?

Feci un'altra pausa, e questa volta, «continua,» sussurrò, appoggiandosi completamente a me.

And what shoulder, and what art,
Could twist the sinews of thy heart?
And when thy heart began to beat,
What dread hand? And what dread feet?

What the hammer? What the chain?
In what furnace was thy brain?
What the anvil? What dread grasp
Dare its deadly terrors clasp?

When the stars threw down their spears,
And water'd heaven with their tears:
Did He smile His work to see?
Did He who made the Lamb make thee?

Selena sospirò, e quando ricominciai a parlare, la sua voce si unì alla mia negli ultimi quattro versi. A lei non serviva leggerla, la sapeva a memoria.

Tyger! Tyger! Burning bright
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Dare frame thy fearful symmetry?

Spensi il cellulare. «Cosa ti ha fatto, Tigre?»

«Lascia stare».

«Sai,» mormorai. «È okay se hai delle cicatrici. Tutti ne abbiamo. Pure la tigre più forte ne ha, sicuramente. Quello che non è okay, è tenersi tutto dentro. Non va bene, perché prima o poi scoppierai».

«Lo so,» rispose. «Solo che... non lo so».

«Abbiamo tutto il resto della notte,» le ricordai, togliendomi la giacca e poggiandola sopra le nostre spalle. Questa catapecchia non era molto calda. Proprio per niente. «E poi sono io, di che ti preoccupi?»

Il silenzio calò di nuovo, ma 'sta volta, era un silenzio diverso: carico di aspettative e pensieri disgiunti, che lentamente si incagliavano tra loro e ritrovavano un senso.

«Sai già che i miei sono morti quando avevo nove anni,» iniziò. «Quindi ti risparmio i dettagli. Sai già come ci si sente, ad essere soli».

Rafforzai la presa sulla sua vita, stringendola per darle conforto, ma non interrompendo il suo racconto.

«Stavamo in una piccola città a poche miglia da Portland. Non avevo parenti vicini che potessero occuparsi di me, quindi mi sono dovuta trasferire dall'altra parte del Paese; ho lasciato i miei amici, i vicini, i luoghi in cui ero cresciuta, per andare a vivere coi miei zii, Leah e Robbie - il fratello di mia madre - a Chicago,» continuò, la sua voce era solo un flebile sussurro.

«E non nego che tutto è andato bene, per qualche tempo. Non mi hanno mai fatto mancare nulla, mi volevano fare felice. Essendo una bambina orfana, non ho mai socializzato molto, non avevo amiche, me ne stavo tutto il giorno in casa. Il mio unico amico, era il mio psicologo. Forse è per questo che ho accettato di uscire con Mike... è stato il primo a dimostrare interesse per me, anche se non doveva per forza, al contrario dei miei zii che si sentivano obbligati a tenermi con loro».

Prese un respiro profondo, mentre io poggiai le mie labbra a pochi centimetri dal taglio sulla sua tempia.

«Poi, vabbè, ecco la parte triste: le cose hanno iniziato ad andare a rotoli. Robbie ha perso il lavoro, è caduto in depressione, e i pochi risparmi di mia zia li ha iniziati a spendere tutti nell'alcol. Ha ricominciato a fumare e forse anche a drogarsi, tornava a casa tardi ogni sera, ubriaco marcio. Lo strappo alla routine è stato la nostra rovina: quell'unica volta in cui è tornato prima del previsto, stranamente sobrio, ha iniziato a litigare con Leah. Ho ascoltato la loro discussione, perché chi non l'avrebbe fatto?, e viene fuori che, guarda caso, ha usato tutti i soldi che mamma e papà mi avevano messo da parte per l'università, perché apparentemente, un certo James Smoke ce l'aveva con lui».

«È lì dove hai sentito il suo nome, quindi,» mormorai. «Robbie aveva debiti già a quel tempo, con mio zio».

«Credo di sì,» Sel tirò su col naso. «E mi sono incazzata, Harry. Dio, quanto mi sono incazzata, quella volta. Sono entrata in cucina urlandogli contro, dicendogli che non aveva il diritto di rubare i soldi che i miei mi avevano lasciato, per comprare la sua merda schifosa: a Robbie non è andato giù. Forse l'ha spaventato il fatto che una diciassettenne gli avesse buttato addosso troppa realtà in un colpo solo. Che ne so. So che mi sono risvegliata in ospedale,» e senza preavviso, afferrò la mia mano, spostandola sotto il tessuto dei suoi vestiti, facendola sfiorare con una cicatrice grande il doppio di quella sulla sua tempia, nel basso ventre. Trattenni il fiato, percorrendo la sua pelle, mentre lei si lasciò scappare uno sbuffo di frustrazione. Sembrava sull'orlo delle lacrime.

«Robbie ti ha fatto questo?» chiesi, incredulo.

«E ha raccontato ai medici che è stato un tentativo di suicidio, Harry. Suicidio! Non ha detto che è stato lui a piantarmi un coltello nello stomaco, capisci?»

«E loro gli hanno creduto?»

«Leah ha confermato, e ho dovuto farlo anche io, solo perché avevo paura. O perché gli volevo bene, dopotutto, non lo so. Non so niente, dannazione,» e scoppiò a piangere, improvvisamente. Neanche tanto improvvisamente, a dirla tutta: si sentiva nella sua voce che voleva piangere, che ne aveva bisogno, ed era solo questione di tempo prima che fosse successo.

E anche a me venne da piangere. Sentii qualcosa fare crack, dentro il mio petto, sentii il mio labbro inferiore tremare tanto quanto il corpicino di lei, stretto a me. Perché era inconcepibile, impossibile, che una persona come Selena, fosse stata ferita così: non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Era orribile da pensare. Avrei voluto tanto che non me l'avesse detto.

«Sai perché lo odio tanto? Non per il fatto che ha ferito me, ma perché per colpa sua, ho rischiato di non poter mai diventare mamma, di non poter avere una famiglia mia, in futuro,» cercò di tranquillizzarsi, senza successo.

Tanto io li odio i bambini, Sel.

Non mi lasciò il tempo di formulare una parola che continuò a parlare: «E questa non è neanche la parte peggiore. Due settimane dopo, Mike mi ha mollata con un SMS, e mia zia ha fatto le valige ed è partita, lasciandomi da sola con Robbie,» la sua voce si incrinò e bastò un mio sussurro per farla scoppiare in lacrime di nuovo.

Non cercai di farla smettere, non cercai di calmarla o di risollevarle il morale, semplicemente la tenni stretta al mio petto, lasciando che le sue lacrime mi bagnassero il collo e la maglia, mescolandosi con il sangue secco del mio taglio. Non stavo capendo più  nulla, in tutta sincerità. Se avessi capito ancora qualcos'altro, sarei andato direttamente da Robbie, ad ammazzarlo con le mie mani. Riuscivo solo a pensare a quanto stava male, a quanto era stata male, e a quanto stessi cadendo per lei. Alla fine, stava vincendo la gravità, ecco: non era Sel quella che sarebbe caduta per prima, perché io ero ad un passo dall'atterrare al suolo - mi sarei innamorato di lei, quando l'avrei toccato, sicuro come la morte. La mia discesa era partita da quel bacio maledetto, tutto per puro egoismo; l'aveva detto anche lei, però, che l'amore era, di fatto, egoismo. La domanda era: quanto tempo ci avrei impiegato, ancora, per terminare quella caduta? Un giorno? Un'ora? Una settimana? Un mese? Un anno? Non ne avevo idea.

Qualche minuto dopo, Sel si riprese, calmando il respiro e asciugandosi gli occhi, ma restando sempre vicino a me.

«Sono stata con lui quasi un anno, prima di scappare di casa, non appena compiuti i diciotto anni. Non ne potevo più. Ogni giorno non faceva altro che ricordarmi di come fosse stata colpa mia se i miei erano morti, colpa mia se aveva perso il lavoro e colpa mia se Leah se ne era andata di casa. E poi mi picchiava, ogni volta che poteva. Ho iniziato a sperare di non svegliarmi più alla mattina, di morire nel sonno e poter rivedere i miei genitori, lontana da mio zio,» disse. «Ho girato un bel po' prima di trovare posto nel pub di Jack, dove ho lavorato poco più di sei mesi. Poi, una sera, un ragazzo antipatico e scorbutico dagli occhi verdi e i capelli ricci è entrato nel locale».

Sentii un sorriso formarsi sulle sue labbra mentre si ricordava del nostro primo incontro.

«Mi ha chiesto in malomodo se fossi sorda perchè non gli avevo risposto, poi ha ordinato un bicchiere d'acqua. Non puoi neanche immaginare quanto avtei voluto tirargli una sberla,» bisbigliò, facendomi ridacchiare.

«Penso che dovrei ringraziarlo. Quel ragazzo è la miglior cosa che mi sia mai capitata,» mormorò. «Quindi grazie, Bucky. Per tutto».

«Sono io quello che dovrei ringraziarti, Tigre».

Grazie, sto cadendo. Grazie, mi stai facendo precipitare. Grazie, eh. Grazie. Però in fondo, ti ringrazio sul serio. Grazie, Sel.

Restammo in silenzio per un bel po' di tempo. Usammo le giacche come coperta improvvisata, assieme ad una specie di lenzuolo impolverato che estrassi dall'armadio addossato alla parete. Dormire su un pavimento faceva davvero schifo, ma dormire con Sel tra le braccia sul pavimento, era meglio di quanto potessi sperare. Meglio di qualsiasi letto, materasso, o cuscino.

. . .

Selena

Erano passate un paio d'ore, da quando avevo smesso di piangere. Ed eravamo entrambi ancora svegli. Io di certo non avrei dormito, non così tesa e poco rilassata - e in più, Harry stava diventando parecchio interessante da guardare, al chiarore della luna che filtrava dalla finestra. Gli avevo raccontato di Robbie, della mia cicatrice, e non avrei mai creduto di poterlo fare davvero: era già abbastanza il fatto che lo sapesse Smoke, ma Harry!, oh Dio, Harry avrebbe potuto anche pensare che avessi veramente tentato il suicidio, e chissà come l'avrebbe presa in quel caso. Però mi aveva creduta. La gratitudine che sentivo per lui, era pure più forte del dolore, che dopo aver versato l'ultima lacrima, ripresi ad ignorare.

«Secondo te cosa voleva dire quell'uomo?» gli domandai. «Quello di Jackson Avenue. Secondo te vogliono ribellarsi a Smoke?»

«Non lo so: deve rimanere un segreto. E' meglio non dire niente di tutto questo a Daniel,» mormorò.

«Dici che qualcosa potrebbe cambiare, ora?»

«È possibile. Jackson Avenue è parecchio indiscreta, sa cogliere tutti gli attimi-»

Lo interruppi, girandomi su un fianco per fissarlo negli occhi. Vicinissimi, tanto che il suo respiro lo sentivo dritto sulle labbra. «Intendo, fra noi. Dopo ciò che t'ho detto».

«Fra noi,» ripeté lui. «Diamine, mi sembra ovvio che cambieranno. Quello che mi hai raccontato, quello che lui ti ha fatto-»

Si bloccò, chiuse gli occhi. Non finì la frase.

«Io vorrei che non mi trattassi in modo diverso, ora che lo sai,» continuai. «Perché a me va bene così. Io non ti ho compatito quando mi hai detto d'essere orfano, quando mi hai detto che tua sorella è stata uccisa. Non voglio che tu lo faccia con me».

«Posso provare ad incazzarmi di meno,» disse. «O ti posso cucinare qualcosa anche io, di tanto in tanto».

«Gradirei se abbassassi la tavoletta del cesso, e non sporcassi il pavimento solo per infastidirmi, questo sì,» confessai. «Ma per il resto, rimani come sei. Altrimenti non saresti più Harry».

Non rispose, dopo questa, ma sentii la sua mano posarsi sulla mia vita, calda e ferrea, e pensai che se avessi aperto bocca di nuovo, sarebbero volate fuori così tante farfalle che la migrazione delle Monarca, a confronto, sarebbe parsa una brutta copia povera e rinsecchita al massimo.

Harry era troppo, troppo vicino, e più ci pensavo, più mi agitavo: se ne sarebbe accorto, prima o poi. Infatti, «Sel,» sussurrò, dopo qualche attimo. Non riuscivo neppure a guardarlo in faccia.

«Harry?» risposi, col viso sepolto nel suo petto.

«Voglio baciarti, Sel».

Ecco, perfetto. Adesso chi le fermava più, le farfalle?

Lentamente, scostai la testa dall'incavo del suo collo, tanto da percepire le sue labbra a pochi centimetri dalle mie, e «prima ho vomitato, lo sai».

«Secondo te me ne frega se hai vomitato? Ti sei lavata i denti, poi».

«Il retrogusto c'è ancora».

«Sel,» m'apostrofò lui, ridacchiando sommessamente. «Smettila di sparare stronzate. Se non vuoi baciarmi, basta che me lo dici chiaro e tondo».

«Ma io ti voglio baciare, solo che-»

«Perfetto,» sfoderò un sorriso sghembo da ragazzaccio, prima di premere con forza la sua bocca sulla mia.

Fu un sollievo. Come quando la schiena prudeva insopportabilmente, e qualcuno le dava una grattatina con le unghie, proprio sul punto giusto. Baciare Harry fu un sollievo così grande che neppure un bicchiere d'acqua nel deserto reggeva il confronto.

Labbra su labbra, si modellarono da sole: io non sapevo neanche cosa fare. Non c'era quello stupore di improvvisa realizzazione del fatto che lo stavo veramente baciando, com'era successo la prima volta. No, eravamo noi. Solo noi, e gli schiocchi delle nostre bocche umide, a contatto l'una con l'altra, e di tanto in tanto, un mio lievissimo sospiro. L'aria mia era l'aria sua, e tutto si stava scaldando. E poi, quando entrarono in scena le lingue, ah, tutta un'altra cosa; come accendere la luce in una stanza buia, proprio così, per avere una visione a centottanta gradi.

Fu lì, mentre ci stavamo scambiando tenere effusioni sdraiati su un pavimento meno tenero, che mi resi conto di amare Harry. E per poco non mi staccai da lui, per poco non lo spinsi via - me lo stava impedendo, la sua mano ancora stretta attorno alla mia vita, e l'altra che si era intrufolata sotto il mio collo, per arpionare la mia schiena e attirarmi vicina vicina al suo corpo. Quando mi resi conto di amarlo, fermai le mie labbra di scatto, per riprendere fiato: forse mi mancava il respiro, e stavo delirando. Forse era quello.

Harry ne approfittò per pressare la bocca sulla mia mascella, fino al arrivare al collo, assaggiando la mia pelle e facendomi ansimare silenziosamente, più di prima. Così non mi stava aiutando a recuperare ossigeno, in ogni caso.

Il fatto era semplice: m'ero innamorata. E forse da un sacco di tempo, a dire il vero. C'era voluto un bacio per creare la prima frattura nella mia fragile, invisibile corazza, e quest'ultimo l'aveva fatta esplodere completamente, come la dinamite. Colpa di Harry, o colpa mia? Colpa di entrambi. Colpa del nostro egoismo, che superava di gran lunga il passo che avrei dovuto fare per allontanarmi da lui. Avevo sempre cercato di non essere così egoista, ma l'amore mi fregava ogni volta. Ero stata così egoista da accettare un passaggio da parte sua, quella notte a Cleveland, così egoista da vivere a sue spese, così egoista da raccontargli di Robbie.

Ero stata così egoista da innamorarmi di lui.

Lo amo!

Ah Dio, lo amo. E adesso?

«Harry-» iniziai, ma neanche mi lasciò il tempo di finire la frase, facendo riconnettere le nostre labbra. Avido e quasi prepotente, mi baciò ancora, e io restituii tutta quell'avarizia e prepotenza ancora, ancora e ancora. Ma ancora, la consapevolezza che lo stavo amando, ritornò ad orbitare attorno alle nostre teste. Non era un segreto mio, doveva essere pure suo.

«Devo dirti una cosa, Harry-»

«Dimmela domani,» rispose, col fiato corto. Non ero l'unica a cui mancava l'aria.

«È importante,» continuai.

«Più di questo?»

«Non lo so,» ammisi. Era importante, dirgli che lo amavo? Che cosa sarebbe cambiato? Volevo che le cose cambiassero? E poi, lui non credeva nell'amore di coppia, e le sue ragioni erano più che valide. C'avevo quasi ripensato anche io: avevo bisogno di salvarmi, però, e amare Harry me l'avrebbe permesso. Probabilmente.

«Forse no - tu baciami ancora,» mi arresi, alla fine. Glielo avrei detto l'indomani.

Un bacio, in quel momento, andava più che bene.

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