25. Se non hai altra scelta
Selena
Con quella frase, il mondo intero mi crollò addosso. I ricordi si abbatterono su di me come una tempesta di grandine e fulmini, e faticai a restare a galla nel mare in cui stavo disperatamente nuotando. O affogando.
Il respiro sembrò mancarmi, eppure i miei polmoni erano ancora pieni d'ossigeno, mi sembrava di cadere eppure i miei piedi erano ancora ben saldi a terra, mi sembrava di essere di nuovo sola, eppure Harry era ancora al mio fianco. Spiegare quel mio soffocamento illusorio, era impossibile.
La voce di Daniel era solo un rumore in sottofondo, indistinto, lontano, soffuso, non capii più niente dopo quella frase.
Sentii le lacrime iniziare a rigarmi il viso e le lasciai scorrere, non curandomi del fatto che sarei sembrata debole agli occhi degli altri. Strinsi i denti e cercai di premere il grilletto della pistola che tenevo stretta tra le mani, ma stavano tremando così tanto che non riuscivo a prendere la mira.
«Sel,» un lieve sussurro catturò la mia attenzione: il ronzio di una mosca in una cucina silenziosa alle tre di pomeriggio. «Non lo fare,» mormorò Harry, venendo vicino a me.
Cercai di ignorarlo, concentrandomi solo sull'arma. La visione mi si offuscò e con il dorso della mano mi asciugai velocemente le lacrime, sempre tenendo Shelman sotto tiro.
Shelman. Figuriamoci! Daniel aveva ragione nel dire che quello era un nome falso. Robbie Butler si chiamava, e il solo pronunciare mentalmente quelle due parole mi fece venire la nausea.
«Calmati, Tigre. Ascoltami, okay?» il suo tono era così tranquillo e controllato; di solito ero io ad essere quella a parlargli per placare la sua rabbia, non il contrario. Dovevo essere proprio andata, allora.
Strizzai gli occhi per scacciare altre lacrime. Vedevo che Daniel stava parlando, vedevo che anche mio zio parlava, ma le uniche cose che sentivo erano i forti battiti del mio cuore e la voce di Harry, che mi stava lentamente riportando a galla. Non ero neanche sicura di voler riemergere.
«Non fare cose di cui potresti pentirti,» sussurrò, posando una mano sulle mie. Lentamente lasciai che sfilasse la pistola dalla mia presa, ma non dissi niente per paura che la mia voce si potesse spezzare. Era già spezzata, in realtà, ma questo lo sapevo solo io.
Il tuo caro zio non vorrebbe rivederti?
In quel momento, la realizzazione del fatto che era tutto già stato calcolato, mi colpì peggio di un proiettile. James Smoke sapeva benissimo chi era David Shelman, sapeva che Harry mi avrebbe portata con sé, sapeva che questo era il mio punto debole. Lui lo sapeva! Era sempre stato un passo più avanti di noi.
Le voci diventarono sempre più forti, fino a quando non riemersi completamente dal mio mare di pensieri, paure, ricordi e dolore.
«Cosa facciamo con lui?» iniziò Daniel, indicando Robbie.
«Lo sai cosa devi fare,» risposi. «E se non lo fai tu, lo farò io».
Daniel parve approvare la mia idea, ma era troppo bello per essere vero: «Assolutamente no. Sel, è un tuo familiare. Viene con noi,» si intromise Harry.
«A quale scopo?» esclamai, perdendo nuovamente le staffe. «No, Harry. Non se ne parla nemmeno. Perché dovremmo rischiare di iniziare una guerra con James a causa sua?»
Anche Harry cominciò ad alzare la voce. «Ma non lo vedi che la guerra è già iniziata? So com'è avere uno zio non affidabile, egoista, bastardo e quant'altro, ma Shelman è l'unica famiglia che ti resta».
Stavo per dirgli che lui non faceva più parte della mia famiglia da un bel pezzo, quando Daniel mi precedette. «Perché non lo portiamo direttamente da mio padre? Deciderà lui cosa fare, chi lo sa, magari gli sarà utile».
«T-tuo padre?» balbettò Robbie.
«James Smoke in persona, signor Shelman,» dissi. Il terrore negli occhi di mio zio mi spinse ad essere d'accordo con l'idea di Daniel. Se non potevo ucciderlo, doveva per lo meno soffrire.
Harry emise un sonoro sbuffo, ma alla fine anche lui accettò, constatando che fosse l'opzione migliore che avessimo.
. . .
Quando tornammo all'hotel, Daniel ed io entrammo a recuperare le nostre cose mentre Harry ci aspettava in auto, per tenere d'occhio Robbie. Non avevo idea di quanto tempo sarei riuscita a resistere, stando tre ore e mezzo in uno spazio ristretto con quel verme di persona che era mio zio, ma non avevo molta altra scelta.
«Mi mancherà questa stanza, se devo essere sincero. Qualche volta è bello andare via da Smoke Town,» disse Daniel, mentre andai in bagno a recuperare il mio spazzolino e a togliermi il vestito di dosso.
«Se ti piace tanto, perché non restiamo fino a domattina?» gli domandai, infilando un piede nella gamba del mio consueto paio di jeans. Non morivo di certo dalla voglia di tornare in città.
«Prima torniamo meglio è. La pazienza di mio padre non è infinita,» rispose, lo sentii scrivere qualcosa al computer e «posso farti una domanda?» mi chiese poi.
Annuii, ma mi ricordai che non poteva vedermi, essendo nella stanza accanto, quindi dissi: «Sì, se devi».
«Shelman è davvero tuo zio o stava raccontando una balla per salvarsi il culo?»
Sospirai, mettendomi la maglietta. «Si chiama Robbie Butler e sì, lo è,» tenni la camicia a quadri di Harry che profumava ancora del suo odore. Mi feci una coda veloce e uscii dal bagno per vedere Daniel sistemare le coperte del suo letto. Anche a me sarebbe mancato questo posto. Mi sarebbe mancata la quiete di Baltimore e il suo spirito Natalizio, mi sarebbe mancato giocare con Harry sulla neve, e il suo modo di essere gentile, perché una volta arrivati a Smoke Town sicuramente sarebbe ritornato ad essere il solito antipatico. Mi sarebbero mancate un sacco di cose. Stranamente però, non m'ero mai sentita più a casa di quando stavo a Smoke Town.
«Dai, andiamo,» mormorò Daniel, aprendo la porta della stanza e chiudendo le luci. «Questa è tua. Harry non vorrebbe, ma penso dovresti abituarti all'idea di girare con una di queste».
Mi porse la pistola che mi aveva fatto vedere in macchina, due giorni prima. La accettai mormorando un ringraziamento veloce, prima di infilarla nella cintura dei jeans. Alla reception Will non c'era e mi dispiacque non poterlo salutare; Daniel velocemente effettuò il check-out, e ancor più velocemente uscimmo dall'hotel.
La Land Rover di Harry aveva il motore acceso ed era parcheggiata proprio sul ciglio della strada. Daniel salì nel sedile posteriore per poter controllare mio zio, così io aprii la portiera del passeggero e mi sedetti vicino ad Harry, che subito fece muovere l'auto, portandola sull'asfalto.
«Non credevo mi avresti fatto questo, sai. Stare dalla loro parte invece che dalla mia...» disse Robbie, non appena mi vide.
Harry si irrigidì ma continuò a guidare cautamente, vidi Daniel lanciargli un'occhiataccia, mentre io mi limitai a poggiare la testa sul finestrino e a cercare di bloccare le sue parole.
«Sono passati tre anni Sel, e questo è il saluto che mi dai?» continuò.
«Ne sono passati a malapena due,» lo corressi. «E non chiamarmi così,» sibilai. «Fallo un'altra volta e giuro che non vivrai abbastanza perché Smoke ti possa ricevere».
«Non sta scherzando,» lo ammonì Daniel. «Fossi in te me ne starei zitto».
Robbie borbottò qualcos'altro e poi si arrese, facendo ritornare il silenzio nell'auto. Controllai l'orario che segnava il cellulare che Harry mi aveva regalato, meravigliandomi che fossero solo le undici e venti di notte. Nonostante quello, c'erano ancora macchine per strada ed anche alcuni pedoni che passeggiavano sui marciapiedi. Le luci degli addobbi di Natale erano accesi, e ancora non avevo capito bene perché; insomma, a Natale mancava un mesetto scarso.
Provai a raccogliere le ginocchia al petto, quando Harry mi lanciò uno sguardo truce, cercando di mascherare un piccolo sorriso che si stava formando sulle sue labbra. «Le sai le regole, niente scarpe sui sedili, Tigre».
«Ai tuoi ordini, Bucky,» risposi, sfilandomi gli scarponcini, potendo finalmente mettermi comoda, e Harry alzò gli occhi al cielo, tornando a guardare la strada.
. . .
Harry
Verso mezzanotte meno un quarto, Sel si abbandonò al sonno sul sedile dell'auto. Stava diventando un'abitudine per lei, addormentarsi in quel posto, e io dovevo ancora capire come diamine facesse a dormire seduta.
Poco prima, mi aveva dimostrato che l'idea che mi ero fatto sul suo conto era completamente sbagliata. Al vederla, uno subito pensava a quanto fosse carina; poi le parlava, e constatava quanto fosse gentile e dolce, poi la baciava, e notava quanto fosse timida e inesperta.
Invece no!
Lei era più tenace e determinata di quanto potessi immaginare. Non avevo idea che Selena, la mia Selena, avrebbe avuto il coraggio di minacciare un suo familiare con una pistola carica, di ordinare pure che venisse ucciso, e di ignorarlo dopo due anni che non lo vedeva -da quello che avevo capito. Smoke Town la stava cambiando, così come aveva cambiato me, ma Sel, al contrario, stava diventando più forte.
Anche Daniel chiuse gli occhi, dopo qualche minuto in cui stava combattendo contro il sonno, lasciandomi solo con Shelman, o come cazzo si chiamasse. Dallo specchietto retrovisore, vedevo che aveva gli occhi fissi su di Sel.
«So a cosa stai pensando,» mormorò, spostando lo sguardo da lei a me.
Alzai un sopracciglio. «Ah, davvero?»
«Pensi a lei».
«Ti sbagli,» mentii.
Lui ignorò la mia affermazione. «Poco fa, vi siete chiamati con dei nomi strani. Perché?»
«E' una cosa nostra, lei è Tigre ed io sono Bucky. Punto, non c'è un perché. E smettila di fare domande,» Shelman ed io non saremmo andati molto d'accordo, di questo passo. Per un po' restò in silenzio, e per un po' s'intende neanche cinque minuti.
«Sta con te, vero?» chiese. «Voglio dire, Sel è la tua ragazza?»
«Selena. Si chiama Selena,» ringhiai, iniziando a perdere la pazienza. «E no. Non è la mia ragazza».
«Però vorresti che lo fosse».
«No,» sbuffai sonoramente. «Siamo amici, o coinquilini, o quel che vuoi, ma nulla di più. La conosco da un mese e mezzo, tanto per la cronaca».
«Adesso ti racconto una cosa,» tossicchiò lui. «Apri bene le orecchie».
«Non puoi addormentarti e lasciarmi guidare in pace?» un altro sbuffo da parte mia.
«Una volta, parecchi anni fa,» iniziò, e dovetti ricorrere a tutto il mio buon senso per non girarmi per tirargli un pugno e metterlo al tappeto. «Stavo lì in un bar. A non fare niente, essenzialmente. Ho ordinato un bicchiere di whisky, ma il padrone si rifiutava di darmelo, sostenendo d'averlo finito, e la stessa cosa valeva per il cognac e il Jack Daniel's. Così mi sono alzato con l'intenzione di andarmene, ma un tizio della tua età, seduto ad un tavolino con una ragazza, ha attirato la mia attenzione. Mi sono rimesso giù e ho teso le orecchie, e indovina cosa lui ha detto a lei?»
«Ho scordato il portafogli?» provai, trovandomi stranamente coinvolto dal suo racconto.
«Ti amo, Lucy,» mi corresse Shelman.
«Ah Gesù,» alzai gli occhi al cielo.
«Lei, tutta sbigottita, gli disse che era pazzo, perché si conoscevano da troppo poco, e sai, però, quale fu la risposta del ragazzo?»
«Dammela, così ci conosciamo meglio?»
«Un essere umano impiega un quinto di secondo ad innamorarsi, ed è scientificamente provato. Vengono coinvolte dodici aree del cervello, che rilasciano sostanze come l'adrenalina e la dopamina, le quali ci fanno provare l'euforia dell'amore. Non è pazzia, è scienza».
Roteai gli occhi un'altra volta, lo guardai di sfuggita, e «con questo che cazzo vorresti insinuare?»
«Che non c'è bisogno di conoscere una persona, per innamorarsi di lei. Insomma, prendi Romeo e Giulietta-»
«Già, prendi loro. Guarda che bella fine hanno fatto».
«Non è quello il punto, ragazzo!» ridacchiò lui. «Ti sto dicendo che è okay se ami Selena, anche se vi conoscete da un mese e mezzo. Magari te ne sei innamorato appena l'hai vista, tu che ne sai?»
«Tu, che ne sai!» esclamai. «Ma si può sapere perché diamine ti sei convinto io sia innamorato di lei? Per quei due nomignoli che ci siamo dati? Cos'è, vietato inventarsi nomignoli, adesso?»
«No, non è per i nomignoli,» un leggero sorriso gli solcò le labbra. «È per come la guardi».
Involontariamente spostai gli occhi su di lei. Com'è che la guardavo? Io non la guardavo in nessun modo. Guardavo tutti così, io. «Ti sbagli,» replicai.
«L'hai appena rifatto».
«Sei completamente ubriaco, amico. Non so neanche perché cazzo ti sto ancora ascoltando».
«I bambini, gli ubriachi e i leggings dicono sempre la verità, non lo sapevi?» Shelman alzò un sopracciglio. «È lei quella che vuoi, quella che ami, nonostante tu voglia fare finta di niente? È davvero lei quella che ti fa sentire vivo, che ti fa battere il cuore, che ti fa sorridere? Se lo è, posso darti un consiglio?»
«Assolutamente no,» borbottai, riferendomi sia al fatto di amarla, sia sul consiglio. Delle due, non sapevo quale fosse la cosa peggiore.
«Te lo darò lo stesso,» ridacchiò, estraendo degli occhiali da vista dal taschino della giacca. «Qualunque cazzata ti passi per la testa, diglielo. Dille cosa provi. Non fare il coglione, non fare il bastardo misterioso, non essere un cretino. Falle sapere cosa rappresenta per te. Ascoltami bene. Tu la vuoi? La ami? Bene, allora faglielo sapere, falla sentire speciale, amata, quando è triste abbracciala e quando ti rendi conto di sbagliare chiedile scusa. Non ero lì quando ne aveva bisogno, sono stato orribile con lei, quindi non commettere il mio stesso errore. Se si ama, ragazzo, si ama sempre in due. Ricordalo».
«Sì, chiaro,» sarcastico, lo guardai. «Dormi, ti prego. O smetti di parlare».
Purtroppo per me, le sue maledettissime parole alcolizzate mi stavano andando alla testa: se si ama, si ama sempre in due. Che diamine stava a significare? Mica pensava che non esistevano amori non corrisposti, vero? Perché in quel caso, era messo peggio del previsto. Natalie non mi amava. Quindi nemmeno io amavo lei? Forse era solo per il suo aspetto, forse la desideravo e basta, ero innamorato dell'idea che lei amasse me. Ma non poteva essere così. O sì?
In effetti, mi sentivo euforico quando stavo con Sel. Non euforico nel senso vero e proprio della parola, ma mi sentivo e basta. Provavo qualcosa. Che fosse stata rabbia quando mi innervosiva, tenerezza quando si imbronciava, stima quando non si arrendeva, o eccitazione a baciarla.
Ecco, quel bacio che mi aveva fottuto. Tutta colpa sua.
«Non la amo mica, io. Giusto?» e invece di porre la questione a me stesso, la pensai ad alta voce. Ma no che non la amavo. È che non stavo capendo un cazzo di niente, da quel bacio. Come iniziare un problema di geometria così complicato che a metà non ci si ricordava nemmeno cosa si stava cercando di trovare.
«Dovresti essere tu a dirmelo, questo. Ma ti posso assicurare che io ero l'unico a chiamarla Sel, ed ora sei tu ad avere quel privilegio. Se non altro, lei per te sente qualcosa, ragazzo,» rispose Shelman.
«Comunque io sono Harry,» dissi.
«Robbie,» accennò ad un sorriso.
Tossicchiai leggermente, poi, sottovoce, «grazie, Robbie,» bisbigliai.
«E' il minimo, Harry».
. . .
Selena
Mi svegliai a causa di uno scossone alla macchina ed una forte imprecazione da parte di Harry. Eravamo fermi in mezzo ad una strada che stranamente non era illuminata né da lampioni, né da fari di altre auto, talmente buia che non riuscii a distinguere dove iniziava o dove finiva. Daniel, come me, aprì gli occhi e si guardò attorno, ma si vedeva gran poco.
«Cazzo! Maledetto bas-»
«Che succede?» interruppi la raffica di parolacce di Harry, rimettendomi le scarpe e scendendo dall'auto.
«La fottuta gomma, ecco cosa!» esclamò, usando la luce del cellulare come torcia ed illuminando una ruota a terra.
«Chiamiamo un carro attrezzi,» proposi.
«A Smoke Town i carri attrezzi non ci sono,» spense la luce, facendo piombare tutto di nuovo nell'oscurità. Eravamo già a Smoke Town, dunque. Harry aprì le portiere posteriori ed incitò Daniel e Robbie ad uscire dall'auto. «Si va a piedi,» annunciò. «Tornerò domani per la macchina, quindi sarebbe meglio portare gli zaini e tutto».
«Dove siamo, esattamente?» chiese Daniel, sbadigliando, issandosi il suo piccolo bagaglio sulle spalle, mentre io rabbrividii per il freddo.
«Qualche isolato più a sud di Jacks Ave, quindi è meglio se ci sbrighiamo,» gli rispose Harry.
Jackson Avenue. Il posto peggiore di Smoke Town. Questa non ci voleva.
Daniel iniziò a camminare seguito da mio zio, che non capiva perché avessimo tanta fretta di andarcene da quel posto, mentre Harry teneva il mio passo, restando al mio fianco. Senza pensarci, feci intrecciare le nostre mani: un istinto involontario, dato dall'improvviso timore che mi aveva percorsa da capo a piedi. Il contatto umano era rassicurante, molto più dell'aria fredda della notte.
«Hai paura di Jackson Avenue?» gli chiesi.
«Come conosci quel posto?»
«Ne ho sentito parlare,» risposi, evitando di dirgli da chi ne avevo sentito parlare. Mica volevo mettere Lee nei guai.
«Non è Jacks Ave che fa paura, sono le persone che ci vivono».
«Il clan?»
«Sai troppe cose, Sel,» scosse la testa. «Sì, comunque, il clan. Noi li chiamiamo Jackys,» mormorò, abbassando il tono della voce.
Camminammo in silenzio per un paio di minuti, Daniel e Robbie erano una decina di metri più avanti di noi; ancora ci tenevamo per mano, e cosa più strana, non pareva intenzionato a lasciarla andare. «Posso farti una domanda?» chiese, dopo un po'.
«Dipende quale,» replicai. Già sapevo cosa voleva sapere, e ne ebbi la conferma quando «perché odi tanto Robbie?» disse.
Era una cosa scontata. Anche io avrei voluto conoscere la risposta, se i nostri ruoli fossero stati invertiti. «È una storia lunga, finirei con l'annoiarti,» divagai. «Ti basti sapere che è un vile verme schifoso: non fidarti di lui».
«Sel,» scosse la testa, strattonando la mia mano e costringendomi a fermarmi. «Non dire così. Non buttare giù per il cesso il tuo unico familiare, cazzo. Lo sai che sono un esperto in materia».
«Fai pace con James Smoke, io farò pace con Robbie,» incrociai le braccia al petto, sciogliendo il contatto fra le nostre pelli.
«Sono due cose diverse,» scosse la testa.
«Forse. Il principio è lo stesso, però. E poi, Robbie ha un debito di cinquecento mila dollari, che non può pagare. La sua fine mi sembra ovvia, a questo punto».
«E non ti dispiace?» emulò la mia posizione, a braccia conserte.
Scossi la testa. «No».
«Non t'importa che un tuo parente venga ammazzato?» serrò la mascella e aggrottò le sopracciglia.
Prima che potessi rimarcare la mia precedente risposta, uno sparo mi fece sussultare, risuonando nel buio, e sulla finestra a pochi passi dalla mia testa comparve il foro di un proiettile.
«Cazzo,» imprecò Harry, spostandomi dietro di sé. «Corri!»
Non me lo feci ripetere due volte. Sfrecciammo in un vicolo secondario proprio mentre veniva sparato un secondo proiettile da qualche parte dietro di noi, e la realizzazione che, se il tiratore avesse avuto più fortuna, io sarei morta, mi fece correre ancora più forte. Il rumore dei nostri passi venne subito accompagnato da quello di altre persone, segno che ci stavano inseguendo, motivo in più per aumentare la velocità. Svoltammo in un'altra strada nella speranza di seminarli, e la mano di Harry ritrovò la mia, stringendola forte per non lasciarmi andare. Accelerai il passo ancora, ignorando i muscoli che bruciavano, ignorando i miei polmoni che richiedevano ossigeno e ignorando la punta nel petto. Ecco, sapevo che avrei dovuto fare un po' più di moto, dannazione.
«Di qua,» sussurrò Harry, tirandomi all'interno di una casa disabitata. Mi appoggiai contro la parete fredda ed impolverata di quello che, una volta, doveva essere il salotto, e lui rimase a pochi centimetri di distanza da me, i nostri respiri erano corti ed irregolari dovuti alla corsa e, nel mio caso, anche al terrore.
«Stai bene?» chiese, piano, sfiorando con le dita il mio viso, mentre mi spostava una ciocca di capelli dietro all'orecchio. Annuii, proprio mentre i passi dei nostri inseguitori ritornarono a farsi sentire, e Harry mi fece segno di stare ferma, sporgendosi dalla finestra per osservare la strada.
«...da questa parte!»
«No! Sono andati a destra!»
«Non possono essere andati a destra, non li vedo».
«Continuiamo a cercare».
«Voi andate, io controllo qui».
Sentii altri passi affrettati che si allontanavano, poi Harry si abbassò, tornando vicino a me. «Merda,» borbottò, trascinandomi dietro un divano malandato.
Pochi secondi dopo, una sagoma nera fece capolino oltre la porta, a tre metri da noi. Mi strinsi al petto del ragazzo, chiudendo gli occhi e cercando di calmare il mio cuore, mentre lui fece passare un braccio attorno alla mia vita, attirandomi ancora più vicina, per non essere scoperti. Le assi di legno marcio scricchiolavano sotto le suole degli scarponi dell'uomo che si faceva più vicino con ogni passo.
«So che siete qui, da qualche parte,» la voce grave e minacciosa dello sconosciuto mi fece rabbrividire. «Perché non uscite dal vostro nascondiglio?»
Harry mi coprì la bocca con la mano, come a raccomandarmi di non fare rumore.
«Facciamo un gioco. Avete cinque secondi per farvi vedere, poi inizierò a cercarvi, e quando vi avrò trovati, mi implorerete di uccidervi,» continuò, aggiungendo anche un tono di scherno alla voce. «Uno...»
«Tu stai giù. Vado io,» sussurrò Harry al mio orecchio.
Scossi la testa, proprio quando l'uomo pronunciò il due. «Vengo con te».
«No. Non obiettare. Per favore».
«Tre...»
«Harry-»
«Tranquilla, sono più forte di lui. Andrà tutto bene,» bisbigliò.
«Quattro...»
Harry si alzò in piedi, mettendo le mani sopra alla testa. «Fermo,» disse. «Sono qui».
«Ah, ne ero sicuro,» ci fu una pausa. «E l'altra persona dov'è?»
«Sono solo,» mentì Harry, camminando per mettersi davanti al divano. «Cosa vuoi?»
«Tu e la ragazza siete entrati nel nostro territorio. Noi odiamo gli intrusi,» rispose l'uomo, ignorando la bugia di Harry.
«Il vostro territorio?» chiese lui.
«Mai sentito parlare di Jackson Avenue?»
Trattenni il fiato. Harry aveva detto che non eravamo entrati a Jackson Avenue.
«Qui non siamo a Jacks Ave,» gli rispose.
La risata dello sconosciuto riempì la stanza, facendomi venire la pelle d'oca. «Ti sbagli. Non lo sai, stupido ragazzo? Ci stiamo allargando, stiamo espandendo il nostro territorio. Qui, ora, siamo a Jackson Avenue».
«Non potete, James Smo-»
«James Smoke è un illuso se crede che ce ne staremo nel nostro quartiere mentre la nostra città cade,» ringhiò. «E ora dovrò ucciderti. Il resto del gruppo non vorrebbe, ma questo sacrificio è necessario affinché la nostra comunità resti al sicuro. Prima te, poi la ragazza che si nasconde qua da qualche parte».
Mi sporsi dal divano per vedere l'uomo di Jackson Avenue estrarre una pistola e puntarla contro di lui, e senza pensare a quello che stavo facendo, mi alzai in piedi e con una velocità che non avrei mai immaginato di possedere, spostai il suo braccio verso l'alto senza dargli tempo di reagire, proprio quando premette sul grilletto. Una nuvola di polvere e detriti cadde dal soffitto che era stato perforato, assieme a schegge di legno e intonaco ammuffito. L'uomo però si riscosse subito e qualcosa di duro e tagliente mi colpì alla testa, facendomi disorientare e mollare la presa sulla sua pistola. Sentii del liquido caldo e appiccicoso al tatto colarmi dalla tempia, per mescolarsi ai miei capelli, ma lo ignorai. Prima che l'uomo potesse spararmi, Harry gli strappò l'arma di mano, gettandola a terra dall'altra parte della stanza.
Quello che successe dopo fu una veloce serie di immagini sfocate e indistinte. Harry lo colpì alla gola, ma l'altro rispose subito ed il suo pugno entrò in collisione con la sua mascella: erano entrambi forti, nessuno sembrava avere la meglio sull'altro, fino a quando l'uomo puntò con una ginocchiata l'addome di Harry, che però la parò facilmente, bloccando la sua gamba e facendolo poi cadere a terra a pochi passi da dove stavo io.
L'uomo si rialzò in un attimo e con un ringhio si avventò su di me. Riuscii a schivarlo, abbassandomi e sfuggendo alla sua presa, andando poi al fianco di Harry; lo sconosciuto vestito di nero estrasse una lama dall'interno della giacca, avanzando poi verso di noi -Harry mi spostò dietro il suo corpo, facendo un passo indietro ogni volta che l'uomo ne faceva uno avanti.
«Mi è venuta un'idea. Pensavo che potrei uccidere prima lei, molto lentamente, costringendo te a guardarla morire. Poi, solo dopo che mi avrai implorato, finirei anche te,» ghignò, avvicinandosi ancora. «O potrei fare il contrario, uccidere te prima e gustarmi la tua ragazza senza averti tra i piedi. Che ne dici, moccioso insolente?»
Rabbrividii al solo pensiero, sentendo poi il muro venire a contatto con la mia schiena. Prima che potessi fermarlo, Harry si avventò su di lui, noncurante del fatto che l'uomo avesse un coltello in mano. La poca luce lunare non era abbastanza perché potessi vedere tutto chiaramente, ma pochi attimi dopo, le due figure iniziarono a rotolare per terra. A volte era Harry ad avere il controllo, altre volte era l'uomo di Jacks Ave.
Solo in quel momento, mi ricordai che Daniel mi aveva dato una pistola, e la estrassi senza esitare, tenendola puntata a terra. Non volevo sparare a meno che non fosse stato necessario, ché avrei potuto colpire Harry, senza contare il fatto che probabilmente avrei attirato qua tutti i nostri inseguitori: volessero ucciderci o meno, quello io non potevo saperlo.
Ad un certo punto, i due si fermarono. La punta del coltello era ad una spanna dalla gola di Harry, che stava usando entrambe le braccia per cercare di allontanarlo, mentre le ginocchia dello sconosciuto premevano sulle sue spalle, ancorandolo al pavimento.
Feci l'unica cosa che mi venne in mente: mi avvicinai e puntai l'arma alla testa dell'uomo, che rabbrividì al contatto del metallo con la sua tempia, e «lascialo stare,» mormorai. «Non costringermi a spararti». Eppure non mollò la presa; il coltello si stava facendo sempre più vicino alla sua gola.
«Non farlo, Sel,» mi disse Harry, a denti stretti.
Deglutii. Il tempo sembrò rallentare. Poco prima che la lama trapassasse la pelle del collo di Harry, chiusi gli occhi e premetti il grilletto.
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