14. La moda riflette i tempi in cui si vive
Era sempre stato facile, per me, diffidare delle persone. Le innumerevoli delusioni che avevo subito, le ferite e le bastonate sulla schiena, le avevo ricevute tutte da persone in cui, ormai, credevo, ma dopo due anni di bugiardi, fidarsi era diventato difficile. Poi era arrivato Harry, e spinta dalla disperazione, dalla paura, e dal non sapere cosa fare, mi ero lasciata trasportare dalle sue mani, mi ero fidata, fino ad incontrare altri quattro come lui.
Dopo due anni di persone bugiarde, ne avevo trovate ancora.
Il dolore che il suo manganello mi aveva procurato, non era nulla confronto al sentimento di tradimento che sentivo crescere nel petto, man mano che i secondi passavano. «Liam,» mormorai, incredula.
«Scusami, mi dispiace tanto Selena, giuro che non volevo farti del male-» iniziò, allungando una mano verso di me, ma mi sottrassi al suo tocco lebbroso, quasi disgustata.
«Non ci posso credere. È questo che fate? Andate in giro a picchiare e uccidere gente innocente?» esclamai. «Non è solo droga, dunque».
La bambina aveva smesso di singhiozzare disperata, alzandosi a sedere e nascondendosi dietro alle mie gambe, quello che avevo fatto anche io per anni, con un'unica differenza: le gambe dietro cui mi ero sempre riparata, si spostavano in continuazione, di maniera che i colpi ricadessero comunque su di me. Per quello, davanti a Liam, rimasi immobile.
Notai un'altra figura arrivare dalla direzione in cui ero venuta io, e quando fu abbastanza vicina, riconobbi la folta chioma riccia di Harry, che avanzava sicuro verso di noi.
Liam lasciò cadere a terra il bastone, producendo un sussulto nella bambina alle mie spalle. «Non è innocente, ha infranto la legge,» rispose lui, passandosi ripetutamente entrambe le mani fra i capelli. «Vengo pagato per questo, Selena».
Resistetti all'enorme impulso di prendere quel manganello e romperglielo in testa; sarebbe servito, forse, per far tornare le rotelle al loro posto? «Dio, Liam! È solo una bambina! Le leggi di Smoke sono barbarie, non leggi,» sbottai. «Siete completamente matti, Cristo santo».
Harry ci raggiunse in quel momento, forse più preoccupato di me, e parte della rabbia che Liam m'aveva procurato, la scaraventai contro di lui. Se gli avessi dato retta, a quest'ora ci sarebbe un altra persona colpevole di aver picchiato una ragazzina, e un'altra ragazzina che era stata picchiata. La curiosità uccise il gatto, certo, ma allo stesso tempo, salvò il topo. Harry, che tanto voleva farsi gli affari suoi, menefreghista, spaccone e ipocrita, non avrebbe sicuramente fatto nulla a riguardo -non la conosceva nemmeno, quella bambina, quindi perché mai avrebbe dovuto?
Aveva mentito alla cassiera, Harry; le aveva detto d'essere come me. La verità? Io non ero come lui. Avevamo gli stessi diritti e lo stesso valore come essere umano, ma non eravamo la stessa persona.
Presi un respiro profondo, rendendomi conto che avevo smesso di respirare, ed ignorai entrambi i ragazzi, chinandomi a controllare che la bambina stesse bene. Era sporca di polvere e fango, i suoi capelli castani un pochino unti -cosa potevo aspettarmi da un abitante di periferia?- ma nonostante ciò, due bellissimi occhi azzurri spiccavano nel suo viso rotondo, brillanti per via delle lacrime. La carnagione era relativamente olivastra, o forse pareva più scura per via dello sporco; farle un bagno avrebbe sicuramente migliorato la sua situazione.
«È tutto okay?» le sussurrai. Lei annuì, lanciando un'occhiata spaventata verso Liam e Harry. Anche se non potevo vederli, immaginai stessero fissando me, ascoltando senza parlare quello che stavo dicendo alla bambina. Cos'altro avrebbero dovuto guardare?
«Come ti chiami?» chiesi. All'inizio non credevo avrebbe risposto, visti i quindici secondi d'esitazione, ma poi dalla sua piccola bocca uscì una parola: «J-Jane,» mormorò, così piano che faticai a sentirla.
«Oh, quindi tu sei l'amica Peter Pan e la ragazza di Tarzan. Piacere di conoscerti, io sono Selena, e nessun libro parla di me, quindi non so se riuscirai a ricordarti del mio nome,» iniziai.
«La mia mamma si chiamava Selena,» rispose. «Quello me lo ricordo».
«Perché non torni dalla tua mamma, Jane? Immagino sarà preoccupa-»
Jane, però, scoppiò a piangere ancora più forte di prima, e mi maledissi mentalmente per la mia incapacità cronica di confortare la gente.
«Impressionante, Sel,» sbuffò Harry, alle mie spalle. «Ecco perché i marmocchi mi stanno tanto sul cazzo».
«Shh,» sussurrai a Jane, lasciando perdere Harry e le sue parole. «Ho detto qualcosa che non va? Stai male? Perché piangi?»
Non mi ripose, ma le lacrime non smisero di scavare le sue guance e ripulire la sua pelle al loro passaggio, portando via lo sporco, che finiva tutto sul suo mento.
«Mio Dio,» Harry sbuffò ancora. «Spostati, Sel».
«Ma-»
Il ragazzo mi spintonò da una parte, chinandosi per avere Jane ad altezza occhi, e dalla borsa della spesa estrasse una barretta di cioccolato. La scartò, la spezzò a metà, ne lasciò una nella mano destra e una nella mano sinistra della bambina, un tantino brusco, e «il cioccolato è una specie di droga. Mangia pure,» le disse.
Jane smise immediatamente di piangere. Sbatté le palpebre, spostò gli occhi da Harry, al cioccolato, prima di addentarlo senza esitazione, come se non avesse mai mangiato in vita sua.
«Che c'è?» fece spallucce lui, alzandosi in piedi, notando il modo in cui Liam ed io lo stavamo guardando. «Tutti i mocciosi amano i dolci».
«Cosa facciamo con lei?» domandai. «Insomma, non possiamo lasciarla qua da sola, la sua famiglia sarà in pensiero-»
«Selena,» mormorò Liam. «Non credo ce l'abbia, una famiglia».
«Invece sì,» Jane smise di mangiare. «C'è papà, a casa,» il suo viso si rabbuiò subito. «Ma non voglio tornarci perché si arrabbia se non gli porto da mangiare».
«Okay, uhm,» mi guardai attorno. «Potrebbe venire da noi, solo per un po'. Così da farle un bagno e darle un pasto decente e magari un po' di cibo per suo padre».
«Assolutamente no,» Harry scosse la testa. «Non voglio bambini in bagno, né in cucina, né in salotto. Poi sporcano in giro ovunque».
«Ha! Proprio tu parli di sporcare? Ma che faccia tosta!» quasi risi. «Sono io quella che deve pulire il bagno, la cucina, il salotto, le camere e lavare i tuoi vestiti, Harry. Quindi non parlarmi di sporcare, grazie».
«Credo si possa fare,» annuì Liam.
«Tu le starai alla larga,» lo fulminai. Feci per chinarmi, così da prendere Jane in braccio, quando lei si scansò, alzandosi solo per avvicinarsi a Harry.
«Woah, frena,» lui balzò indietro. «Non ti tengo la mano, te lo scordi. Vai da Sel».
La bambina scosse la testa e tirò su col naso, allungandogli la metà della barretta di cioccolato che non aveva ancora toccato. «Ho sete,» piagnucolò. «Sono stanca».
«Andiamo a casa, Harry,» si intromise Liam. «Così vediamo cosa fare».
Il riccio sbuffò, scontento, e con una mossa fulminea, raccolse letteralmente Jane da terra. «Beh, muoviamoci,» scattò. «Cazzo».
«Cazzo,» ripeté Jane, scuotendo la testa. «Il mio papà lo dice sempre».
«Ah sì?» Harry alzò un sopracciglio, proprio quando ripresi la borsa della spesa che aveva fatto cadere. «Il tuo papà dovrebbe moderare il linguaggio».
Liam soffocò una risata con un colpo di tosse, e pure io faticai a non commentare quello che il ragazzo aveva detto: Harry e l'educazione non andavano proprio d'accordo. Si vedeva anche che aveva voglia di sbrigarsi, perché mi superò di molto, camminando con quei suoi passi svelti e furiosi, come ci si sarebbe aspettati da uno stitico che aveva finalmente preso un lassativo, con la sola differenza che era di una bambina che doveva liberarsi. Ai suoi occhi, comunque, quei due fardelli non dovevano essere molto diversi.
«Senti, Selena,» mormorò Liam, affiancandomi. «Mi dispiace per Jane».
«Lo so,» risposi. «Ma l'hai fatto comunque».
«Cosa?» si bloccò nel bel mezzo della strada. «Ti sbagli. Non l'ho neppure sfiorata -non l'avrei mai fatto! Volevo solo spaventarla, per dissuaderla dal rubare ancora... se ci fosse stata un'altra guardia diversa da me, l'avrebbe ammazzata».
«Rubare,» sbuffai. «Come se avesse tanto altro da mangiare».
«Non le ho fatte io, le leggi, Selena,» replicò, riprendendo a camminare. «Rubare è un reato».
«Però Smoke può rubare quante vite vuole».
«Per lui è diverso».
«Anche per voi che siete suoi scagnozzi, dunque».
Una risata amara e piena di risentimento uscì dalle sue labbra, scosse la testa e «no,» sussurrò. «È come una madre che chiede al figlio se vuole lavarsi prima o dopo cena: una scelta, sì, ma il punto è che il figlio si dovrà bagnare comunque. Quello che la maggior parte delle guardie di Smoke crede, è che lui le favorisca, quando in realtà siamo tutti quanti sottomessi a lui. Persino Daniel,» disse, piano. «Non c'è via di scampo».
«Questa non è una giustificazione per perdere la vostra umanità, Liam,» protestai. «Ho passato Dio solo sa quanto tempo da sola, e non sono cambiata di una virgola. Non ho smesso di leggere, di imparare, di amare, e non dovreste neanche voi».
«A volte,» sospirò. «A volte ci penso anche io. Ma sai, ci vuole più forza a restare umani che a diventare qualcun altro, e in questa città ci sono poche persone abbastanza tenaci da riuscirci,» aggiunse. «Niall è una di quelle».
«Niall,» sorrisi, fra me e me. «Servirebbe più gente come lui».
«Già,» sospirò. «Sua cugina Elle è uguale. Sempre allegra, sempre sorridente... non ho idea di come facciano».
«Vi muovete?» da lontano, la voce di Harry ci giunse alle orecchie, e ci affrettammo a raggiungerlo con una corsa lenta. L'albergo non doveva essere molto distante, perché alcune stradine mi parevano familiari: dopo un paio di isolati, infatti, ecco apparire la modesta dimora di Joe e Dalia.
Con Jane, le cose andarono bene; tutto filò liscio come l'olio. Una volta rientrati, le feci una doccia calda per lavare via tutto quello sporco che aveva addosso, inaugurando il mio shampoo alla lavanda e la spazzola per capelli, mentre Liam, in cucina, preparava qualcosa da mettere sotto ai denti. Buttai in lavatrice i suoi vestiti per un risciacquo veloce di un quarto d'ora, e poi li appesi vicino alla stufa per farli asciugare finché lei mangiava, avvolta da una coperta. Tutta pulita e profumata, sorridente e serena, sembrava un'altra persona. Harry se ne rimase in disparte, per nulla interessato a noi: doveva averne avuto abbastanza di bambini, per un giorno solo.
«Posso chiederti quanti anni hai, Jane?» domandai.
«Papà dice quattro, ma non è vero. Li conto ogni anno e sono sette,» rispose, con una punta di fierezza nella voce, mostrandomi il numero della sua età con le dita.
Le sorrisi, rassicurandola. «Sei davvero grande, allora».
«Dov'è che abitate, tu e il tuo papà?» si intromise Liam.
«Non te lo dico,» il suo sorriso divenne una smorfia. «Sei una persona cattiva».
«No, Jane,» scossi la testa. «Liam non è cattivo. Guarda, ti ha pure cucinato la pasta. Non è buona?»
«Scommetto che manca sale,» dal divano dov'era buttato, il commentino di Harry si udì lo stesso.
«Non ci manca sale,» ribatté Liam, assottigliando gli occhi. «Ci manca sale, Jane?»
«No,» rispose lei.
«Visto?» gongolò Liam, tornando poi a fissare la bambina. «Se vuoi, appena si asciugano i vestiti, ti riporto a casa».
Jane lo guardò, impassibile, sbattendo le palpebre un paio di volte, e poi si rimise a mangiare, ignorandolo completamente.
«Possiamo portare qualcosa anche al tuo papà,» aggiunse Liam. «Se mi perdoni».
«Se smetti di fare il cattivo,» replicó lei, dura.
«Se non ti cacci più nei guai».
Jane alzò gli occhi di di lui. «Se io faccio la brava, tu non farai più il cattivo?»
Liam si portò una mano al cuore e «lo giuro,» disse.
Alla fine, Jane accettò di farsi riaccompagnare a casa da lui, e una volta rimessi i vestiti asciutti e preso il pasto per suo padre, i due si avviarono di nuovo fuori, lei sulle spalle di lui, entrambi ridendo.
«Era ora,» sospirò Harry, alzandosi dal divano. «Qua ci vuole una tazza di tè per festeggiare».
«Sei davvero crudele, comunque,» gli feci notare.
«Ti va di fare un gioco?» mi chiese Harry, mentre armeggiava col bollitore del tè, cambiando completamente argomento: sapeva d'essere crudele, e non lo voleva ammettere. Tipico.
«Dipende da che gioco è».
«Vedo vedo col mio piccolo occhio?»
Scossi la testa. «È una discriminazione verso i ciechi e non mi piace».
«E preferiresti?» propose lui, di nuovo, appoggiandosi al bancone della cucina mentre aspettava che l'acqua del tè bollisse.
«Nah, banale. Io e Zayn ci abbiamo giocato l'altra sera prima di dormire».
«Obbligo o verità?»
Scossi nuovamente la testa. «È cliché».
Alzò gli occhi al cielo. «Tu ne hai qualche da proporre?»
«Secondo me. È un gioco che si fa per conoscersi, tipo,» risposi, annuendo. «Ma non credo ti piacerebbe».
«Spiegamelo».
«Io azzardo un'ipotesi su di te, poi tu su di me, e vince chi ne indovina di più. Ovviamente bisogna essere sinceri, e se l'ipotesi è sbagliata, l'altro deve correggerla».
Harry aggrottò le sopracciglia. «Inizia tu».
«Secondo me il tuo colore preferito è il nero,» dissi.
«Ti odio,» bofonchiò.
«Lo prendo per un sì». Uno a zero per me.
«Secondo me,» fece. «Compi gli anni in estate».
Scossi la testa. «Il sedici maggio, mio caro».
Lo vidi sbuffare, incrociò le braccia al petto come un bambino, e prima che potesse protestare, «secondo me sei alto più di un metro e ottantacinque,» dissi.
«Ha!» esclamò. «Sbagliato! Uno e ottantatré. Alla faccia tua!»
«Siamo comunque pari».
«Non per molto,» ghignò. «Secondo me sei una donna».
«Non vale così, Harry!» esclamai. «Le supposizioni non devono essere ovvie. Altrimenti anche io potrei dire che secondo me tu sei Harry Styles».
«In realtà avresti sbagliato,» si accigliò. «Il mio nome non è proprio quello».
«Come no?»
«No,» scosse la testa. «All'anagrafe sono Harry Edward Smoke. Mio padre era il fratello di James». Sembrava quasi triste, nostalgico, come se fosse stato qui solo con il corpo, ma che con la mente era da tutt'altra parte.
«Oh».
«Ho solo cambiato il cognome con quello di mia madre, sai. Per non dover essere chiamato in quel modo». Si girò a controllare il bollitore, che però ancora non stava fischiando.
«Capisco,» mormorai.
«Comunque,» tossì. «Seriamente, secondo me...» Aspettai la sua ipotesi, osservandolo attentamente quando pensava. Aveva delle piccole rughe d'espressione tra le sopracciglia, i suoi occhi verdi si spostavano da me al pavimento. Con una mano si rigirava uno dei tanti anelli che aveva alle dita, togliendolo occasionalmente per poi rimetterlo subito dopo. «Secondo me preferisci il caldo al freddo».
«Vero,» annuii. «Secondo me, oltre ai Pink Floyd, ascolti anche i Rolling Stones».
«Vero,» ammise. «Siamo due a due,» e si appoggiò al piano cottura, mentre aspettava che l'acqua fosse pronta. «Secondo me, Sel, non hai mai avuto un ragazzo,» sghignazzò.
«Falso, Harry,» ammiccai. «Ho avuto un ragazzo, invece. A Chicago, se proprio vuoi saperlo».
«Cosa?» sgranò gli occhi, esagerando con la teatralità, tanto per cambiare. «No, impossibile. Tu hai avuto un ragazzo? Cazzo, secondo me stai mentendo per non farmi vincere».
«No, sul serio,» ridacchiai anche io. «Una cosa stupida, comunque. Avevo quindici, sedici anni, non di più. Il suo nome era Mike Miles, e tutti lo chiamavano M&M's, come i confetti al cioccolato, perché la sua pelle rispecchiava in maniera impressionante il suo stato d'animo».
«Mi sorprendi,» annuì. «Tocca a te».
«Secondo me non ti sei mai innamorato».
I lineamenti prima rilassati del suo viso, si contrassero tutti in una volta. Come quella volta con l'elastico di plastica che avevo tirato, allungato, attorcigliato, allacciato finché non s'era rotto, in un battito di ciglia, facendomi pure male alla punta delle dita, colpevoli d'averlo torturato così. Harry aveva appena fatto la fine dell'elastico: si era spezzato, in un secondo. Ad aggiustarlo, a rimediare al mio errore, adesso, non sapevo quando ci avrei messo.
«Vero,» mormorò. Peccato che sbatté le palpebre molte più velocemente del solito, quando lo disse, e il tic della vena sul suo collo tornò a perseguitarlo, fantasmi delle parole di James Smoke: sii più naturale e disinvolto, la prossima volta che vorrai mentirmi.
A salvarlo -o salvare me- fu il fischio del bollitore che era posizionato sul gas, così Harry lo sollevò e spense il fuoco. Versò l'acqua bollente in due tazze, porgendomene una senza proferire parola. Mi allungai verso il centro del tavolo e presi il contenitore dello zucchero, nello stesso istante in cui lui fece lo stesso, e per un attimo la nostra pelle si sfiorò: rabbrividii involontariamente a quel lieve contatto, quasi impercettibile, ma che lui non si fece sfuggire. Spinse il vasetto verso di me e ritirò la sua mano immediatamente, manco avessi avuto una qualche malattia contagiosa.
Ignorai la strana sensazione di rifiuto che sentivo nel petto e aggiunsi due cucchiaini e mezzo di zucchero alla mia tazza di tè. Notai Harry osservarmi attentamente mentre mescolavo la bevanda calda, per poi sospirare piano e versarsi un po' di latte nella sua.
Storsi il naso. «Il latte nel tè? Non fa schifo?»
«Non deve piacere a te,» rispose. Il tono duro della sua voce mi sorprese non poco. «E devi smettere di criticare tutte le fottute cose che faccio,» aggiunse poi, stringendo così forte la sua tazza che ebbi paura potesse romperla.
«Stai bene, Harry?» gli chiesi, cercando d'essere più dolce possibile, ma prima che potesse rispondere, che fosse stato con un sto perfettamente bene, o un no, non sto bene affatto, forse più sincero, lo squillo del suo telefono gli impedì di dire qualsiasi cosa.
Anziché rispondere, lo posò al centro del tavolo, vicino allo zucchero, e solo quando lessi James Smoke sul display, capii perché non l'aveva fatto. «Non rispondi?» domandai comunque.
«Non ho intenzione di parlargli».
«Beh, dovresti. Forse è importante».
Scosse la testa. «Non è importante. E se anche lo fosse, non me ne potrebbe fregare di me-»
Non gli lasciai finire la frase, perché presi il telefono al posto suo, accettando la chiamata. «Pronto?»
La voce perplessa e alquanto divertita di James mi risuonò dritta nell'orecchio, facendomi rabbrividire senza neanche volerlo. «Harry?»
«No, sono Selena,» mi affrettai a correggerlo.
«Ah, mi sembrava strano, infatti,» ridacchiò lui. «Come stai, Selena?»
«Bene, grazie... se stai cercando Harry, al momento si sta facendo la doccia, ma appena ha finito posso dirgli di richiamare,» mentii spudoratamente, e lo feci in modo piuttosto credibile considerando che «sarebbe davvero gentile da parte tua,» rispose Smoke.
«Nessun problema, davvero,» mormorai, mordendomi l'interno della guancia.
«A presto, mia cara,» e chiuse la chiamata. Poggiai il telefono al suo posto, trovando Harry sul limite dell'incazzato nero che mi fissava, fumante di stizza, e «perché non ti fai mai i cazzi tuoi?» sbuffò.
«Stavo solo-» provai a giustificarmi, ma la porta d'entrata si aprì improvvisamente, tagliando di netto le mie parole.
Era passato poco più di un mese da quando avevo incontrato Liam, Zayn, Niall e Louis, e in tutto quel tempo ero rimasta sempre con loro, o con Joe e Dalia, quindi vedere una ragazza della mia età, varcare la soglia di casa con la sua copia delle chiavi, mi sorprese assai.
Era piuttosto alta e snella, di maniera che i jeans che indossava le stessero a pennello, e la giacchetta blu notte, abbinata al foulard che le legava i capelli, non poteva di certo averla presa al mercato nero. Sembrava una di quelle ragazze ingaggiate per provare i vestiti, fotografate e stampate sulle prime pagine delle riviste di moda, che poi la gente si ritrovava a leggere aspettando il proprio turno dal parrucchiere, o dal dottore, o dal dentista. Solo il viso la tradiva, perché un paio di cicatrici erano lì a rovinare l'omogeneità della sua pelle candida: del resto, non c'era persona che Smoke Town non avesse toccato.
«Harry,» lo salutò. «Ho ricevuto il tuo messaggio-»
«Perfetto,» il ragazzo si strofinò le mani, alzandosi di scatto. «Io esco, ci si vede».
Lasciando la sua tazza di tè col latte intoccata, sgusciò fuori dall'appartamento prima che potessi protestare, lasciandomi sola con quella ragazza da rivista di moda, a fissare un punto della porta che era stata chiusa.
«Dio, odio quando fa così,» sbuffò lei, avvicinandosi. «Tu devi essere Selena, quella nuova che legge le poesie,» mi porse una mano, e pure le sue unghie erano coperte di smalto blu, lucido e perfetto.
La strinsi. «Come fai a sa-»
«Me l'ha detto Niall. È mio cugino di secondo grado da parte di mamma,» spiegò. «Io sono Elle».
Elle. Giusto.
«Harry mi ha chiesto di farti compagnia,» mi mostrò il messaggio che il riccio le aveva mandato, estraendo suo cellulare piccolo e vecchiotto:
Ti sarei infinitamente grato se portassi il tuo culo qua e facessi vedere alla ragazza nuova (si chiama Selena) come si fa ad avere un'amica. Chissà, forse con il tuo profumo la farai morire asfissiata, e forse lei, con le sue chiacchiere, ti farà morire di noia. Due piccioni con una fava, no?
Sbrigati.
H.
«La sua cortesia mi sorprende sempre,» scossi la testa, ridendo piano. «Come si fa ad avere un'amica, ma sentilo!»
«Eddai, poverino. Ci tiene alla tua vita sociale. Insomma, star chiusa qui dentro giorno e notte non dev'essere semplice».
«No, infatti,» risposi. «È un po' noioso».
«Sai cosa?» Elle si sedette al posto di Harry, difronte a me. «Dovremmo davvero uscire, qualche volta. Ti potrei portare al salone di bellezza gestito dalla migliore amica del cugino del nipote della nonna di un mio conoscente di nome Nathan, anche se tutti lo chiamano Nate: creano di tutto, lì dentro. E siccome sono praticamente di famiglia, mi fanno anche un mucchio di sconti».
«Si vede, si vede,» risi. «Mi piacciono molto il tuo cardigan, e il foulard, e anche i tuoi capelli e le unghie. Hanno stile».
Elle mi sorrise, e «grazie mille, davvero,» disse. «La moda riflette i tempi in cui si vive, anche se, quando i tempi sono banali, preferiamo dimenticarlo,» sospirò. «Coco Chanel. Trovo che la moda di Smoke Town, oggi, sia un po' decaduta, e mi piace essere quella che si veste ancora bene, sai?»
«È una bella idea, secondo me,» le feci sapere, annuendo. «È molto elegante».
Le offrii una tazza di tè, continuando a parlare con lei di qualsiasi cosa le venisse in mente: era colorata, così colorata che, dopo più di un'ora, avevamo ancora molto di cui chiacchierare. Liam aveva avuto ragione quando m'aveva detto che Elle e Niall si assomigliavano, che erano i più forti perché i più felici. Io, a confronto, sembravo una ragazza in bianco e nero.
Anche dopo che Elle se ne andò, sostenendo di avere cose da sbrigare -di certo non la biasimavo!- ma promettendomi che sarebbe tornata l'indomani, l'eco delle sue parole mi rimase incastrato nella testa. La moda riflette i tempi in cui si vive: era per quello, dunque, che i vestiti di Jane erano così sporchi?
. . . . . . .
Aggiorno solo per chiedervi come si fa a sopportare le mancanze. Perché qualcuno, una volta, mi disse che una mancanza è il nulla, il vuoto, ma se è il nulla,
perché fa così male?
Vi voglio davvero, davvero, davvero bene. Spero le vostre vite siano okay, e vi do la buonanotte. Noi ci sentiamo presto.
Lottie x
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