I - I Am Nothing

"Ignorali, che ti importa di loro", mi dicevano. Mi dicevano che dovevo lasciarli stare, che non ne valeva la pena. Però c'erano cose che io sapevo, e loro non sapevano. Nessuno mi comprendeva, nessuno aveva empatia. E io mi chiedevo perché: ero talmente stupido che non avevo altre domande da fare. Perché il mondo non accetta le persone più profonde d'animo? Perché non accetta il loro realismo, la loro visione di quanto concerne questa cupa sfera nella quale sono coinvolti a nostra insaputa? E non era il mondo: era la sua struttura, prettamente razzista, piena di nepotismi, di immancabili colpi bassi che mi uccidevano, e lo fanno ancora in questo preciso momento. In precedenza avevo già pensato al suicidio, ma non lo rendevo degno di me a tal punto da scacciarlo, e di passare il resto dei miei anni a cercare alternative accettabili. No, questo non doveva essere un proposito, bensì un obbligo. Non mi hanno insegnato a vivere nel mondo, quando sono nato. Sarà per questo che nessuno mi capisce: perché non vivo nel modo giusto. Perché ormai sono sfiancato da quello che mi succede, dall'irriverenza e dalla diversità degli altri. Sì, lo so, la diversità è la mia, non degli altri. Sono io il pazzo, il solo, l'unico, lo scemo, quello che studia, la pezza da piedi degli altri, una persona "usa e getta". Soltanto che si gettava più volte. Ero anche io a lanciarmi come una bambola di pezza verso il pianto, a cercare il profondo, a cercare quella persona in grado di comprendere quella che veniva definita come instabilità mentale.
Passavo l'ennesima lametta sul mio braccio, rabbrividendo all'estasiante tocco del freddo del metallo sulla mia cute. Mi venne la pelle d'oca, e mi viene ancora oggi se ci penso. La passai, imprimendovi una forza necessaria a solcare la mia pelle, a far spuntare una striscia di sangue, un rivolo, che poi prese a scorrere, rigandomi l'arto, come una lacrima. E con la stessa leggerezza le sue molecole s'infransero contro il pavimento, seguita da tante altre gocce. Le mie braccia erano nivee, lese dall'acciaio, amico e nemico dell'uomo. Io, dentro me stesso, amavo il dolore. Lo vedevo come la forma d'arte più aleatoria e profonda che può esistere. La mia era un'avversità verso me stesso. Vedevo in me il mio stesso assassino, e il mio stesso assassino vedeva in me una disgrazia, una negatività che andava stroncata il prima possibile. Tutti vedevano questa parte di me. E la vedono ancora.
Il vento passava dai pori della mia pelle. Ero infervorato da tutto, non vi era scusa che teneva. Poco prima la mia testa era finita in un gabinetto. Una cosa a dir poco schifosa. Finiva sempre così, pagavo io per le incertezze degli altri. Non sono mai uscito con amici, prima d'ora. Non ne ho mai avuti, a dire il vero. Odiavo la ricreazione, a scuola. Non aveva senso, così come le risate convulse dei miei compagni nel vedermi sognare ad occhi aperti, perso nel mondo che vorrei e poi perso nel mondo che odio. Vi era un molo, davanti a me. Una passerella, assi in legno smangiate dall'umidità, intonse del nulla che le circondava, sfiorate da scosse di aria salmastra. Il mio zaino pesava, quel giorno. Erano le 14.07 , lo ricordo ancora, in quanto avevo scorto l'ora sul mio cellulare. Sarei dovuto tornare a casa, rimanere zitto e tenermi quel groppo in gola fino a quando non sarebbe stata ora di dormire. Avrei dovuto trattenere le lacrime agli occhi, bloccare la voglia di scoppiare con i miei genitori. Ma come si fa neutralizzare qualcosa del genere? Come si blocca il dolore? E l'angoscia? Come le si impedisce di dilagare fino ad irrorare ogni parte della mia mente? Il mio rifugio preferito era me stesso, ma non mi sentivo più al sicuro nemmeno lì. Fu un grande impatto, quello che ebbi allungando un passo verso il molo. La prima asse cominciò a scricchiolare, seguita a turno dalle altre. Lentamente, mi godevo quei passi. Assaporavo la dolcezza dell'aria frizzantina d'ottobre, che mi arrivava in volto. Guardavo le onde infrangersi dove gli capitava. Invidiavo la loro libertà, nonostante non ce ne fosse nemmeno una uguale all'altra. Ammiravo la loro capacità di spazzare via tratti di sabbia, pietre. La legge del più forte, dicevano. Però no: io non dicevo così. Tolsi lo zaino, spalla dopo spalla, reggendolo da una mano. Non provavo ansia. Era il mio momento: l'uomo è come le onde, trova il suo momento come loro trovano la costa, prima o poi. Riposi il mio zaino sul molo, espondendone il logo verso l'alto. Almeno avrebbero avuto quello, gli altri, di me. L'unica cosa degna di tutto ciò che mi circondava. Sorrisi all'acqua cristallina. Ero compiaciuto. Tirai su le mie maniche lunghe, rivolgendo uno sguardo profondo e accurato verso le mie cicatrici. Piccoli frammenti di vita, che si allargavano in ricordi ingialliti di esperienze stigmatizzate in disegni crudi sulla mia pelle. Le vedevo, dalla prima all'ultima. Con le maniche tirate, feci un passo verso il vuoto, affacciandomi verso ciò che vedevo come puro fascino, fantasia di anni di sofferenze e disagi. Con un sorriso mi bagnai, per la seconda volta, quel giorno. E anche il sole, da uno squarcio nel cielo, mi sorrise. E udii, a pelle, di aver fatto la cosa giusta. Di aver dato l'ultima pennellata ad un quadro degno di Munch.

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