45. Mela

Mise in moto e partì sgommando, verso una meta sconosciuta.
Lui sapeva dove stavamo andando? Non ne avevo idea.
Aveva la mascella contratta, le nocche sbiancate al contatto troppo stretto col volante.
Era agitato, nervoso, si stava pentendo di quella situazione.
Quella mattina ero rimasta sorpresa quando era venuto a svegliarmi.
Non riuscivo a capire.
Non capivo questa danza che avevamo iniziato dove ogni passo che facevamo l'uno verso l'altra, implicava sette passi all'indietro. Non aveva senso, era un gioco distruttivo.
La mia testa diceva che dovevo lasciar perdere. Che dovevo svolgere il lavoro e dirgli addio.
Il mio corpo diceva che ogni volta che lo toccavo uscivo per un attimo dalla mia pelle e lui percepiva la stessa cosa, lo sapevo bene.
Allungai timidamente la mano e gli toccai la gamba.
Lo vidi trasalire.
"Mi mandi fuori strada."
Sussurrò in un lamento.
"Dove stai andando?"
Si voltò a guardarmi per un istante e poi curvò imboccando una strada secondaria.
Eravamo lontani dalla città.
La periferia di New York non era un posto che frequentavo molto e non avevo idea di dove ci stessimo dirigendo. Non riconoscevo quei luoghi.
Era buio, pieno di neve.
Provai ad allontanare la mano da lui ma l'afferrò posizionandola sul suo ginocchio.
"Siamo quasi arrivati."
Restai in silenzio per i minuti successi con i dubbi che martellavano la mia testa e il mio cuore.

Cosa stavo facendo? Come mi tiravo indietro da quella situazione?

Svoltò all'ennesima curva e bruciò un semaforo rosso facendomi sussultare.
Fece il giro di un grande stabile bianco e poi, entrò in un garage che si aprì automaticamente al suo passaggio.
Questo mi fece intuire che era un suo stabile ma non sapevo cosa ci fosse all'interno.
C'erano molte macchine, lui guidò fino in fondo e posteggiò il più lontano possibile dall'entrata.
"E ora?" Chiesi. "Dove siamo?"
Rimase in silenzio alcuni istanti finché non si spense la luce.
Trasalii quando accadde.
Mi voltai, per dirgli che stavamo sbagliando tutto, che non potevamo ma non so come mi ritrovai con la sua bocca sulla mia mentre mi divorava il labbro spaccato e nemmeno mi faceva male il livido.
Tirò indietro il sedile e in un attimo mi ritrovai su di lui, con le sue mani che andavano ovunque e le mie che esploravano i suoi contorni.
Ripresi fiato.
È una pessima idea. Fermiamoci! Non possiamo avere nulla l'uno dall'altra.
Non dissi una parola.
Mi tolsi la giacca e lui si sbottonò il cappotto e le nostre mani iniziarono ad andare ovunque, ad esplorare pezzi di anima e di corpo. Luoghi caldi, luoghi maltrattati, luoghi amati troppo o troppo poco.
Non riuscii a trattenere un gemito e per la prima volta in vita mia non mi sentii una stupida, non mi sentii fuori luogo.
Ero libera, libera in tutti i sensi.
La sua mano mi alzò il pullover e toccò il livido. Si fermò un istante per osservarlo e vidi l'esitazione formarsi nel suo sguardo.
Si sentiva in colpa, aveva il peso del mondo sulle spalle così come ce lo avevo io e in qualche modo ci assomigliavamo più di quanto potevamo credere e forse era da lì che arrivava tutta quella energia che in quel momento stava facendo girare il mio pianeta al contrario.
"Non è nulla." Sussurrai calandomi sulla sua bocca prima che cambiasse idea.
Perché ne avevo bisogno. Ero spaccata in due, non potevo smettere anche se dovevo, non potevo ragionare, non potevo farne a meno.
E nemmeno lui poteva.
Me lo confermò quando si staccò per tossire ma mi tenne ben salda, ancorata al suo corpo per paura che potessi svanire nel nulla.
Presi a baciargli il collo, le mani, la testa consapevole che lo avrei ucciso se fossi andata avanti a togliergli l'aria dall'unico polmone buono che gli era rimasto.
Gli alzai i bordi del maglione e mi feci spazio per baciarlo dove non ero mai arrivata.
La nostra era una danza, i baci erano incandescenti, così sbagliati ma così giusti.
Mi afferrò le natiche e mi fece scivolare su di lui, dove lui voleva, dovevo volevo anche io per andare avanti secondi, ore o giorni, non lo sapevo.
Per andare avanti fino a quando quasi persi i sensi per rompermi in mille pezzi e lasciare andare tutta l'energia che accumulavo da una vita.
Con i cuori che battevano a mille, così vicini, condividemmo quel momento di pura follia che ci portò in paradiso senza nemmeno toglierci i vestiti ma togliendoci il fiato, la paura, la vita stessa e ogni fondamento per qualche istante.
Così vicini ma improvvisamente così lontani.
Nemmeno il tempo di riprendere il fiato, che le sue mani si staccarono da me per allontanarsi. Persino il suo sguardo si fece lontano, perso nel buio.
Provai a toccargli il viso ma lui si divincolò dalla mia presa.
"Mi dispiace tanto."
Disse soltanto lasciandomi interdetta perché a me non dispiaceva per nulla.
L'avrei rifatto altre mille volte ancora.
Mi scostai da lui sentendomi improvvisamente spaventata, come se gli avessi fatto del male perché sul suo viso c'era solo tristezza in quel momento.
"A me no. A me non dispiace per nulla."
Provai a confortarlo facendogli capire che lo volevo e non mi aveva costretta a fare nulla ma lui rimase in silenzio, così tanto da farmi credere che fossi stata io quella a fargli del male.
"Non avremmo dovuto."
Proseguì dicendo il vero ma anche il falso. Eravamo adulti e lo volevamo da tempo.
Non avevamo fatto nulla che altre mille persone non avessero fatto prima di noi, anzi, non ci eravamo spinti così in là.
Non era servito.
I nostri corpi si cercavano così tanto da arrivare al massimo del piacere senza nemmeno entrare in contatto.
Come poteva essere sbagliato questo?
"Non voglio che tu ti faccia strane idee."
Trasalii a quelle parole.
Nemmeno Buch era mai stato così meschino.
"Non sono una ragazzina."
Fece un cenno con la testa.
"Stai bene?" Gli domandai senza ottenere risposta.
L'avrei preso a pugni in quel momento. L'avrei picchiato, gli avrei urlato contro.
Invece lo lasciai scendere dalla macchina e gli permisi di allontanarsi di alcuni passi.
Lo lasciai solo per permettergli di riprendersi e per permettere a me stessa di fare altrettanto.
Che casino. Che fottuto casino.
"Vieni?"
Mi chiese dopo un'eternità e io ricomposi la mia anima per fare finta di nulla, per l'ennesima volta nella mia vita.
Non fa niente. Passerà.

E invece non passava. Non passava mentre salivamo in ascensore, mentre entravamo in quello stabile e capivo che era un orfanotrofio.
Il suo orfanotrofio.
Era questo il suo regalo, voleva mostrarmi tutto il bello che c'era in lui come se volesse farmi capire che non era solo un delinquente, ma poi mi chiedeva di stargli alla larga, di non sbagliare più.
L'orfanotrofio era grande, c'erano 68 bambini dai due hai 16 anni.
Gli educatori e le educatrici che ci lavoravano all'interno svolgevano il lavoro con amore. Tutti andavano a scuola, tutti erano formati per dare il massimo a quei bambini.
Era la mia idea, quello che avrei voluto fare un domani.
Era il modo più giusto per cambiare il mondo, o per lo meno, quello che mi sembrava più giusto in quel momento.
Skin lo sapeva, lo avevo detto io stessa la sera precedente e subito aveva pensato di portarmi qui, in un luogo così suo
Ma io dovevo stargli lontano, lo stava facendo capire chiaramente trattandomi con indifferenza e evitando accuratamente di avere qualsiasi contatto con me, come se non avessimo condiviso il mondo un attimo prima
Come se non fosse accaduto nulla tra di noi.
Mi aveva regalato uno dei momenti più selvaggi e semplici del mondo per poi ricordarmi quanto fosse tutto complesso, nero, oscuro.
Era Skin. Skin con i suoi demoni e la sua anima che non mostrava a nessuno.
Nemmeno lì, mentre giocava con i bimbi più piccoli voleva essere guardato da me e mi dava le spalle parlando a bassa voce.
Sia mai che riuscissi a scorgere un pezzo di lui vietato a tutti quanti. Così spaventato di mostrare al mondo qualcosa di bello, qualcosa che valeva la pena guardare.
Sentivo le lacrime pungermi gli occhi.
Sapevo chi era, sapevo quanto fosse complicato ma lo avevamo voluto entrambi e ora lo faceva sembrare un mio errore.
Provai ad attirare la sua attenzione per un po' ma inutilmente quindi mi rassegnai al fatto che Skin era fatto così, si chiudeva in sè stesso ed era inutile provare a comunicare con lui.
Giocai con i bambini, parlai con le educatrici, condivisi i miei piani futuri facendo finta di stare bene mentre mi sentivo estraniata dal mio corpo.
Il mio pensiero continuava a tornare alla macchina, a come i nostri corpi avevano risposto l'uno all'altro e come questo ci avesse spaventato.
Forse era questo il problema. Skin aveva paura.
Paura dei contrattempi, di ciò che non faceva parte dei piani, dell'incertezza, di essere tradito, di vivere.
Skin rimproverava me di non aver mai vissuto ma non ne era capace nemmeno lui. Forse per questo lo avevo incuriosito. Non perché stavo indagando su di lui ma perché se avessi trovato io la chiave per stare meglio, avrebbe potuto usufruirne anche lui per guarire le sue stesse ferite.
Sorrisi all'ennesimo bambino sentendo tutto il peso di quel mese schiacciarmi come un masso.
Come ero arrivata a condividere tanto con lui? Come avevo fatto a perdermi così?

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