[14] Mi Sei Mancata

Fern si era dovuto portare entrambe le mani alla gola per fermare l'emorragia.

La foto di sua moglie con in braccio la figlia lo aveva, per miracolo, avvertito del pericolo imminente.

Aveva visto la lama del coltello scintillare contro l'immagine del viso arrossato della sua dolce metà e, con uno scatto degno di un poliziotto, si era girato appena in tempo.

L'aggressore aveva puntato alla carotide, ma l'improvviso movimento di Fern l'aveva costretto a virare verso le clavicole.

L'uomo si era trovato a maledire la sua scelta di rimanere lì dentro, nonostante l'assenza dei colleghi.

Quanto ci avrebbero impiegato per raggiungerlo? Aveva puntato gli occhi contro il viso cereo del suo aguzzino, mugugnando parole sconnesse e pregne di terrore.

Avvertiva il cuore battere ferocemente per compensare la perdita di sangue, la gola chiudersi per la paura e gli occhi sbarrarsi.

Le sclere avevano iniziato a perdere di umidità, costringendolo a sbattere furiosamente le palpebre.

Temeva che, se avesse chiuso gli occhi, l'uomo davanti a lui si sarebbe dissolto.

Il pensiero era volato a sua moglie, la bellissima donna di cui si era innamorato quindici anni prima.

Da ormai due anni, i due erano divenuti una famiglia vera e propria. Al pensiero di non vederla più, di saperla affacciata sopra alla sua tomba, lo stomaco gli si era aggrovigliato.

Con la mano si era disperatamente tenuto al muro, poggiando tutto il peso su una gamba sola mentre si inclinava verso sinistra.

Come una nave che imbarca acqua, come un aereo che precipita.

Fern aveva preso una boccata d'aria, sentendo il vento freddo pungergli la ferita e insediarsi tra la cute rotta e le cellule sofferenti.

"Tu..." aveva gemuto l'uomo, sentendo le corde vocali dolergli. Non aveva abbassato lo sguardo, ma sapeva che a terra, a solo un metro di distanza, si trovava il suo telefono.

Possibile che Raven stesse ancora ascoltando? Aveva stretto le labbra in una linea dura, sottile, mentre la fronte gli si imperlava di sudore.

Se si stava dirigendo lì, voleva dire che era in pericolo.

L'individualismo non lo aveva attaccato, appostandosi in un angolo per osservarlo. Cosa avrebbe fatto Fern? Avrebbe potuto accasciarsi al suolo e aspettare l'arrivo dei soccorsi, oppure avrebbe potuto tentare di attaccare il suo aggressore per mettere in guardia la ragazza.

Lo aveva visto aprirsi in un sorriso sghembo e inclinare la testa di lato, osservandolo più profondamente.

Gli stava scavando nell'anima con il solo uso delle iridi, e la cosa lo terrorizzava.

Aveva appena provato a tagliargli la gola, eppure pareva pervaso da un senso di placida tranquillità.

Aveva infilato la mano nella tasca posteriore dei jeans, afferrando un paio di guanti neri e in lattice.

Con eleganza se li era infilati, dirigendosi verso il computer dell'agente. Lo aveva visto infilare una chiavetta e premere furiosamente contro i tasti logori.

Poi aveva allargato gli occhi, sorridendo maniacalmente.

"La curiosità uccise il gatto, agente. Lo sapeva?" Aveva cantilenato lui, tamburellando un dito lungo e fine contro il mento.

Quindi aveva strattonato la chiavetta fuori dall'entrata USB, infilandosela nel taschino dell'elegante camicia nera.

Fern non aveva la minima idea di cosa fosse successo, tanto meno a cosa servisse tutto quel teatrino.

Voleva ucciderlo?

L'aggressore, comunque sia, pareva non avere nessuna fretta. Si muoveva a suo agio per la stanza, toccando le foto di famiglia che l'agente aveva sulla scrivania.

"Provo pena per tua moglie," aveva mormorato lui, senza preoccuparsi di nascondere né il viso né la voce, "so come ci si sente a perdere qualcuno che ami."

Poi aveva inclinato la testa di lato, mostrando un sorriso a pieni denti. Fern si era dato dello stupido per non aver pensato a lui; se l'avesse fatto, adesso non avrebbe avuto un potenziale assassino davanti a sé.

Voleva ucciderlo? La domanda gli risultò quasi retorica. Certamente non l'avrebbe lasciato andare, non ora che sapeva della sua identità.

Fern aveva deciso di trattenere un po' di fiato, speranzoso che la ferita non fosse mortale.

E non lo era, certo che no, ma poteva dire lo stesso di quelle future? La consapevolezza di poter morire gli aveva momentaneamente annebbiato la vista. Era entrato in polizia con il pensiero che mai nulla gli sarebbe successo, non durante il lavoro, perlomeno.

La città era sempre stata tranquilla e la gente si voleva bene, non esisteva privacy perché, in un modo o nell'altro, tutti si conoscevano tra di loro. Questo falso senso di fiducia nel proprio vicino si era radicato talmente tanto dentro ogni cittadino da offuscare la realtà.

La verità era che Fern aveva sottovalutato la ferocia del male, così come aveva sempre deciso di pensare che tutti fossero buoni, lì.

Ogni angolo di mondo, però, nascondeva un tremendo segreto e il poliziotto era stato abbastanza sfortunato da incappare in uno di questi posti bui. Forse quest'ultimi non erano nemmeno nascosti, forse l'orrido umano si palesava tranquillamente alla luce del sole e forse, solo forse, erano loro a scegliere di ignorarlo.

"Quando sarò un dio," aveva iniziato l'aggressore, abbassando la testa verso l'uomo ferito, "ti concederò un posto nel mio paradiso; vedila come una ricompensa per l'aiuto datomi."

L'ombra delle serrande gli aveva incupito il viso rilassato, dando un'aria eterea all'umano che niente era se non un agglomerato di isteria ed estremismo.

Perché? Fern avrebbe voluto fissare gli occhi in quelli dell'altro e domandargli il motivo di tutto ciò. Cosa aveva afferrato la mano dell'uomo, spingendolo ad accoltellarlo? E chi aveva posseduto le sue corde vocali quando, introducendosi in casa di Raven, aveva preso a cantare una ninna nanna del luogo?

Lo aveva osservato gettare uno sguardo verso il computer e sorridere compiaciuto, esaltato mentre prendeva un profondo respiro di gratitudine.

"Sai cosa avete guadagnato voi scarafaggi dal rifiutare la modernizzazione?" Gli aveva tirato un calcio secco allo stinco, guardandolo contorcersi a terra in preda al dolore. Quindi aveva portato la mano rivestita dal guanto nero verso lo scalpo del poliziotto, sollevandolo.

La ferità di Fern si era allargata, costretta e tirata dalla presa ferrea dell'uomo, lasciando che sempre più sangue macchiasse le mattonelle lattee dell'ufficio.

L'unico DNA che avrebbero trovato, aveva riflettuto il povero ferito, sarebbe stato il suo.

Qualcuno avrebbe rinvenuto il suo cadavere proprio lì, steso tra il muro e la scrivania, e nessuno avrebbe mai saputo chi si celava dietro l'assassinio.

Fern si sarebbe portato quel segreto nella tomba.

"Non vuoi rispondermi?" Il labbro dell'uomo si era sporto verso l'esterno, lasciando che un'espressione imbronciata e fanciullesca illuminasse i tratti incupiti. "Beh, caro e vecchio Fern, mi considero una persona magnanima, quindi te lo dirò lo stesso."

Aveva affondato due dita nella ferita, beandosi delle urla di dolore dell'altro.

"Avete guadagnato un sistema fallimentare, in grado di rintracciare qualcuno ma non di trattenere i dati nella memoria del computer. Capisci cosa sto dicendo? Ho appena cancellato tutto ciò che sia mai stato negli archivi di questa stazione, mi sono reso innocente e tu, in un certo senso, mi hai aiutato a farlo."

Il poliziotto aveva chiuso gli occhi, sentendo l'amaro stringergli la gola. Non aveva più nessuna voglia di guardare il ghigno eccitato dell'altro, così come si rifiutava di degnarlo di un ulteriore pensiero.

Se davvero stava per morire, tanto valeva concentrarsi sul pensiero della sua famiglia. Chissà se esisteva la vita dopo la morte, chissà se quella sarebbe stata l'ultima volta in cui Fern si sarebbe giudicato in grado di immaginare chiaramente il volto tenero di sua moglie.

Sperava che, una volta appresa la notizia del suo decesso, la donna non avrebbe chiesto di vederne il cadavere. La comunità, sperava lui, l'avrebbe aiutata a crescere la bambina che tanto amavano.

Le lacrime avevano preso il sopravvento, soffocandolo, mentre la testa iniziava a farsi leggera e il corpo s'accasciava contro il muro. Stava fluttuando sul mare dell'incoscienza, verso il fiume che separava il sonno dalla veglia.

Poi, un boato.

Fern aveva tentato di concentrare lo sguardo verso il punto in cui il suono era partito, ma questi avevano divagato, finalmente padroni di loro stessi, in direzioni differenti. Aveva però avvertito le mani dell'aggressore perdere la presa che fino a poco prima avevano esercitato su di lui, così come aveva notato l'ombra dell'uomo allontanarsi.

Il delirio di suoni lo aveva scosso, risvegliandolo e stordendolo al tempo stesso.

La voce dell'altro non era più l'unica fonte di rumore perché qualcosa l'aveva surclassata.

Raven era stata abbastanza furba da avvicinarsi alla struttura in punta di piedi, trattenendo il fiato come quando l'agenzia le aveva affidato il compito di seguire un noto politico. La porta d'ingresso era stata da lei giudicata come troppo grande, decisamente possente e, di conseguenza, sicuramente rumorosa.

Le finestre che l'affiancavano, però, risultavano decisamente più silenziose.

Mentre calpestava l'erba sotto le suole delle scarpe e lanciava un mesto sguardo al cupo cielo grigio, Raven si era chiesta cosa diamine fosse successo. Non aveva dubbi: quelle che aveva sentito erano grida, seguite da rumori di oggetti caduti.

La prima scelta che aveva preso, quindi, era stata quella di non riattaccare e di avanzare, invece, verso la stazione di polizia. Contro l'orecchio aveva sentito i rantoli umidi di Fern e poi una voce.

Il suono di quest'ultima, però, era arrivato in maniera soffusa alle sue orecchie; era certa di possedere un ricordo di quel suono, ma dove? Sbattendo le palpebre Raven aveva visto l'ombra di suo fratello nascondersi nelle crepe dell'intonaco, sbeffeggiandola e deridendola con quel solito ghigno che era solito rivolgerle.

Con la lingua aveva ricreato il rumore dell'orologio, angosciandola.

"Oh Raven," aveva sussurrato il fratello, iniziando a dissolversi nuovamente nel muro, "com'è possibile che chiunque ti incontri, muoia?"

Aveva allungato le braccia verso di lei, costringendola a fermarsi sul posto. Con gli occhi sgranati e le mani percorse da interminabili fremiti, Raven aveva lanciato un'occhiata all'edificio per assicurarsi di non entrare nel campo visivo di qualcuno.

Quando però era tornata a fissare il muro, il volto di Elias era scomparso. Per un piccolo e confortevole attimo si era sentita sollevata, leggera, finalmente in grado di muoversi.

Si era sentita come Atlante: costretto a sostenere il peso del mondo in eterno, perché nemmeno la morte avrebbe potuto sollevarlo da tale incarico. E proprio come Atlante, nella stessa esatta maniera in cui lui si piegava su se stesso nel tentativo di sorreggere la magnificenza della Terra, si era ritrovata a crollare a terra sotto la potenza di due mani.

Elias non era sparito, si era semplicemente spostato dietro di lei.

Come fosse il Mondo le si era poggiato contro, avvolgendo le lunghe braccia pallide contro il torace della sorella. Il terrore le aveva annacquato i polmoni, soffocandola.

Era solo un'allucinazione, una stupidissima immagine che il suo cervello proiettava a causa del trauma. Erik, il suo terapista, spesso le aveva ricordato che la sua mente faceva tutto con l'unica intenzione di proteggerla.

Eppure a lei pareva che volesse distruggerla, che si stesse mangiando da solo per consumarsi e lasciarla senza niente. Spoglia della ragione e del senso della realtà, Raven sarebbe finita col fare compagnia al fratello in uno dei più spogli angoli d'inferno.

Con gli occhi ancora spalancati, la ragazza aveva visto il riflesso di Elias dalla pozzanghera che le stava davanti. Aveva corrucciato le sopracciglia, sobbalzando contro il suo petto quando non l'aveva riconosciuto.

Suo fratello era adulto, o almeno lo era nel riflesso.

I capelli castani gli ricadevano ora su parte del viso, ricci come quando da bambino si rifiutava di asciugarli, e gli occhi sembravano aver assunto lo stesso colore del legno bagnato. C'era foschia nelle sue iridi e paludi nelle pupille.

La mascella squadrata e la forma affilata degli occhi gli conferivano un aspetto austero, mentre il ghigno che gli incupiva il volto pareva trasmetterle fame, voracità.

"Non sei reale." Aveva mormorato lei, tenendosi la testa tra le mani mentre chiudeva ermeticamente gli occhi, rifiutandosi di guardarlo. Elias non era mai cresciuto, non era divenuto l'uomo che ora sostava alle sue spalle, e tutto a causa sua.

Era morto, un corpo ormai decomposto al quale solo vermi e creature della terra davano attenzioni. Aveva visto la tomba, la fossa dentro al quale quest'ultima era stata calata e il cadavere, bluastro e gonfio a causa dell'acqua.

"Nemmeno tu lo sei," la voce del fratello era suonata soffice contro le sue orecchie, quasi come non la biasimasse affatto.

"Senza di me, non sei assolutamente niente, Rav."

Le mani del fantasma avevano rinunciato alla presa sulle sue spalle, scomparendo chissà dove. Lei, però, non si era fidata e per altri due minuti aveva aspettato a terra, gli occhi chiusi e le ginocchia doloranti.

Solo quando aveva udito dei rumori umani aveva raddrizzato la schiena, allertata e agitata.

Fern.

Mandando giù il groppo che le aveva chiuso la gola, Raven si era alzata sulle gambe tremanti. Per un attimo aveva temuta che il suo corpo avrebbe ceduto, facendola tornare a terra.

Quando questo non era successo, comunque sia, aveva mosso due piccoli passi. La finestra più vicina era stata lasciata semi aperta, abbastanza da permetterle di sgusciare all'interno dell'edificio senza troppi problemi.

Il fatto che quella fosse l'unica accostata, però, l'aveva tenuta sull'attenti. Possibile che fosse una coincidenza? No, doveva passare a rassegna tutte le opzioni.

Quindi aveva stretto la presa sul cellulare, rifiutandosi di sporgersi oltre il vetro; senza mai riattaccare aveva aperto la fotocamera del dispositivo, acquattandosi e muovendosi a carponi per nascondersi dalle finestre più alte.

Una volta arrivata all'angolo aveva posizionato il telefono verso lo spazio aperto, facendo affacciare solo la telecamera. Aveva distolto lo sguardo da davanti a sé solo per puntarlo sul dispositivo elettronico che stringeva tra le mani, osservando ciò che la telecamera le stava mostrando.

Riusciva a vedere le gambe di Fern stese a terra, la sua mano destra sporca di sangue che come una piuma s'era adagiata a terra.

Più avanti, a circa mezzo metro di distanza, sostava la figura di un uomo troppo alto per entrare nel campo d'azione della fotocamera.

Tra le mani guantate stringeva un pugnale e nulla più.

Cosa avrebbe dovuto fare? In una situazione normale avrebbe chiamato la polizia, ma era Fern la polizia.

Aveva frugato nella borsa che traballante si appendeva sulla sua spalla, cercando il teaser che tanto amabilmente aveva sempre custodito. Una volta trovato, Raven aveva pigiato il pulsante che ne regolava la potenza, portandolo verso il massimo.

Non sapeva nemmeno se fosse legale usarlo, ma dubitava che Fern l'avrebbe rimproverata.

Si sentiva combattuta tra il bisogno di fuggire e la voglia di aiutare il povero uomo che, al contrario, era riuscito a dare risposte alle sue domande. Lui sapeva a chi apparteneva il DNA sul computer, lui e solo lui.

Egoisticamente, Raven aveva pensato che per nessuna ragione al mondo avrebbe permesso che il poliziotto morisse. Così si era mossa lentamente, sfilandosi le scarpe per evitare di produrre suoni improvvisi.

Prendendo un bel respiro aveva stretto la pistola elettrica tra le mani, arrivando a sostare davanti all'apertura della porta-finestra.

L'aguzzino di Fern indossava un cappello nero e i suoi vestiti parevano eleganti, in contrasto con l'orrore di ciò che aveva appena compiuto. Non riusciva a vederlo in volto, non con lui girato di spalle, ma di questo era stata grata.

Un attacco frontale sarebbe stato decisamente più complicato, mentre in quel momento poteva sfruttare l'effetto sorpresa. L'avrebbe colpito alle spalle e lui si sarebbe ritrovato a terra, fritto e possibilmente stecchito, e lei avrebbe quindi tentato di soccorrere il povero poliziotto.

Aveva poggiato il primo piede sulle mattonelle, e poi il secondo. Il profumo dell'intruso le aveva invaso le narici, disorientandola.

Lo conosceva.

Il cuore aveva preso a batterle ferocemente nel petto mentre sgranava gli occhi, sull'orlo di un attacco di panico.

Aveva alzato tempestivamente il braccio, decidendo di anticipare l'ansia prima che questa la cogliesse impreparata, attivando il taser per farlo scontrare contro la schiena dell'uomo.

Lo aveva visto voltarsi e fissarla, sbalordito, mentre la consapevolezza di averla davanti lavava via ogni altra emozione. Raven, però, non era stata in grado di processare il movimento fulmineo di lui mentre le si catapultava contro.

Com'era possibile che fosse ancora in piedi?

Aveva fatto due veloci passi indietro, schivando il primo colpo, mentre la sua mente si rifiutava di accettare quella visione.

Non era lui, non poteva essere lui.

"Non mi aspettavo che saresti venuta tu da me," aveva ghignato lui, inclinando la testa di lato. Aveva inspirato profondamente, assorbendo il profumo di lei e beandosi della sua espressione terrorizzata e sconvolta.

"Mi hai spezzato il cuore, sai? Ma non importa. Mi sei mancata, Raven."

Erik aveva quindi sorriso, allungandosi verso di lei.

ATTENZIONE
Quanto mi sono divertita a vedervi incolpare il povero Aleksander ahahaha. E invece no, il vostro rosso preferito è appena divenuto l'antagonista!

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