[11] L'Amore D'Un Fratello


La stanza profumava di legno e di fiori nonostante quella non fosse la stagione adatta.

Vicino al letto erano state accese due candele profumate, la padrona si era accertata che fossero di suo gradimento, e la porta-finestra che affiancava il suo giaciglio era stata coperta da una spessa tenda marrone.

Raven si era assicurata di averla chiusa, una, due e tre volte, arrivando a posizionarci una sedia davanti, incastrandola sotto al pomello per bloccarla.

Dalla borsa aveva estratto il cambio d'abiti che si era portata dietro, arrossendo nel ricordare di aver chiesto alla padrona dell'hotel il favore di prestarle un pigiama.

Quella sera non avrebbe mangiato, aveva lo stomaco troppo sottosopra per permettere a sé stessa di ingoiare anche solo una mollica di pane.

Passandosi una mano sul viso si era lasciata andare a un profondo sospiro, pensando al da farsi. Avrebbe chiamato il suo capo, l'indomani, e gli avrebbe chiesto di assegnarle un nuovo alloggio.

Poteva farlo, era certa che le avrebbe detto di sì.

Sarebbe bastato disdire il contratto e crearne uno nuovo, nulla di troppo difficile per l'amministratore di uno dei più importanti giornali francesi.

Inoltre Raven sapeva di essere una risorsa importante per il quotidiano, e l'articolo che avrebbe consegnato sarebbe stato rilevante.

Adesso che la polizia stava setacciando il suo computer, però, non aveva modo di terminare il suo lavoro.

Se non altro aveva ancora la registrazione della sua conversazione con Grethe.

Aveva afferrato il suo telefono, un nuovo modello sottile e grande più o meno quanto il palmo della sua mano, passando a rassegna i messaggi che aveva ricevuto.

Sua madre le aveva chiesto come stesse, domandandole se sarebbe tornata a casa per capodanno.

La ragazza aveva assottigliato gli occhi, rispondendo con un veloce e diretto "sto bene, ma non credo di riuscire a rientrare per festeggiare con voi."

Sapeva quanto contassero le apparenze per i suoi genitori, ma non aveva mai accettato di far parte di quell'insulsa recita della famiglia modello.

Era la figlia perfetta: lavoratrice incallita, diplomata con il massimo deivoti e con una propria indipendenza economica.

Certo, aveva ridacchiato Raven, questo se escludevano il fatto che era profondamente danneggiata a livello mentale, che per anni era stata imbottita di psicofarmaci e che, alla fine dei conti, era un'assassina.

Non era riuscita a fermare le risa mentre ci pensava, scuotendo la testa per scacciare quei pensieri.

Erik le aveva sempre detto che l'incidente, la morte di suo fratello, non era stata colpa sua ma oh, quanto si sbagliava.

Lei si sentiva colpevole e niente e nessuno le avrebbero fatto credere il contrario.

Il pensiero era volato al suo terapista, all'uomo con cui aveva condiviso la sua storia di vita e una notte di unione fisica.

Forse non avrebbe mai dovuto andarci a letto, era stato poco professionale per lui e non terapeutico per lei. Si era accasciata sul letto, scorrendo le foto che i social le proponevano.

Sembravano tutti incredibilmente felici, sorridenti e con il sole a illuminargli il viso.

Li invidiava.

Sulla barra delle notifiche era spuntato un nuovo messaggio di Erik: gliene aveva mandati tre.

Aveva letto senza entrare nella chat, grugnendo nel leggere le scuse di un uomo che, alla fine, non aveva nessun motivo di scusarsi.

Raven aveva attaccato il caricabatterie alla presa, mettendo sotto carica il telefono, quindi aveva sbarrato le finestre, lasciando la luce del bagno accesa.

In quel modo avrebbe potuto usufruire di un'illuminazione soffusa, sufficiente a rassicurarla. Era presto, ma sarebbe andata a dormire ugualmente.

Mancavano solo due giorni alla cerimonia di cui Aleksander le aveva parlato; non importava quanto scossa fosse, doveva finire l'articolo e andarsene da lì il prima possibile.

Aveva lanciato uno sguardo alla scatola di sonniferi che spuntava dalla sua borsa, negandoseli.

Non voleva perdere nuovamente coscienza, doveva rimanere all'erta in caso di pericolo.

Allo stesso tempo, però, bramava un sonno senza sogni, profondo e ristoratore. Raven aveva sospirato, abbandonando l'idea di dormire pacificamente.

Aveva chiuso gli occhi, aspettando l'arrivo di Morfeo.


Icarus aveva pizzicato il braccio di Sin, intimandogli di essere il più silenzioso possibile. Era riuscito a convincerlo a seguirlo per indagare sulla strana umana senza velo, ma il dio non ne era affatto felice.

Avrebbe preferito rimanere nella sua villa, il suo rifugio silenzioso, ma alla fine aveva vinto la curiosità.

Non l'avrebbe mai detto a Icarus, ma anche lui voleva sapere cosa vi fosse di sbagliato in Raven.

Non provava affetto verso di lei, la conosceva da troppo poco tempo, ma voleva verificare che non costituisse un pericolo per lui.

La ragazza aveva sbarrato sia la porta che le finestre della stanza in cui aveva deciso di stabilirsi, sorprendendo entrambi. Trovarla non era stato difficile, gli era bastato seguire la scia che aveva lasciato.

Sin era un bravo cacciatore, Icarus non si era quindi sorpreso quando l'aveva condotto da Raven.

Entrambi si erano chiesti il perché si fosse chiusa in stanza e perché, soprattutto, emanasse un forte odore di paura.

I due avevano sorpassato i muri sottili esterni, trapassandoli come fossero fumo. Silenziosamente si erano quindi stabiliti ai piedi del letto, osservando la ragazza addormentata.

La luce del bagno era rimasta accesa, permettendo a entrambi di vedere perfettamente ciò che li circondava.

Anche al buio, però, sarebbero stati in grado di avere piena visuale del posto.

"Non fiatare." Aveva mormorato l'Incubo, lanciando una veloce occhiata all'amico che, con espressione esasperata, aveva inarcato le sopracciglia.

Non avrebbe potuto farlo nemmeno se l'avesse voluto; alle volte pensava che Icarus dicesse certe frasi con il solo scopo di infastidirlo.

Lo aveva liquidato con un gesto della mano, poggiandosi con la schiena contro il termosifone per sentirne il calore.

La sua pelle era spessa, impenetrabile, e quindi le temperature, elevate o basse che fossero, non lo infastidivano.

Sin ricercava il calore come un'animale in ipotermia: lo trovava di conforto, quasi calmante.

Aveva puntato lo sguardo sulle mani tremanti di Icarus, chiedendosi se fosse dovuto all'eccitazione o al timore di svegliare la ragazza.

Quest'ultima irradiava una forte energia consapevole, tipica di chi è nel dormiveglia, e quindi manifestava la leggerezza del sonno.

Non stava dormendo profondamente, era un miracolo che non si fosse già svegliata.

L'Incubo l'aveva indicata con il dito, facendo segno al dio di aiutarlo.

Doveva metterla a dormire, farle perdere completamente i sensi, era questo ciò che gli stava chiedendo di fare.

Roteando gli occhi si era piegato sulle ginocchia, arrivando alla stessa altezza della ragazza.

Quindi aveva premuto due dita sulla fronte pallida e liscia di Raven, sentendo una minima dose di energia irradiarsi dal petto e scendere verso l'arto teso.

La magia si era allungata fino alle punte delle falangi, scintillando di blu mentre entrava in contatto con la pelle dell'umana.

L'aveva vista spalancare gli occhi velati di nero, le ciglia ad offuscarle la vista e l'effetto calmante dell'energia del dio che le stritolava il cervello.

Lo stava guardando ma, al tempo stesso, non riusciva a registrare l'immagine.

Quindi aveva chiuso gli occhi, sprofondando in un sonno profondo e buio.

Ora non avevano più il problema che potesse svegliarsi.

Icarus aveva alzato in aria il pollice, ringraziandolo con un largo sorriso. Sin, però, non era affatto contento.

Interferire con le vite umane era contro i suoi principi, ma si era giustificato con la presenza del compagno: lo stava solo aiutando, lui non c'entrava nulla.

Con la coscienza pulita e leggera si era fatto indietro, osservando il lavoro dell'Incubo.

Questo si era issato sul letto, sedendosi sopra il corpo di Raven con incredibile grazia.

Non appena aveva toccato il ventre della femmina, aveva iniziato il processo di mutamento.

Le catene che gli adornavano il collo si erano spezzate, rimpiazzate da spesse vene nere.

Queste avevano preso ad allungarsi su tutto il corpo di Icarus, arrivando a intaccargli il collo per sprofondare nel suo cavo orale.

Gli occhi, prima completamente verdi, si erano tinti di un rosso luminoso, scintillante contro la luce della Luna.

Si era piegato a metà, soffrendo fisicamente per la mutazione mentre la spina dorsale gli si allungava, dilaniandogli la pelle della schiena.

Si era spezzata completamente, permettendo a due grandi ali di perforare la cute, lasciando due profondi solchi nella pelle.

Le ali, nere e larghe, si erano contratte per distendersi completamente, muovendosi con leggerezza.

Sin aveva puntato lo sguardo sulla schiena lacerata di Icarus, sorridendo alla vista del luminoso sangue che gli imbrattava la pelle.

"Niente male, non è vero?" Aveva gemuto l'Incubo, dolorante. Erano un paio di giorni che non mutava nella sua forma originale, e ora ne pagava il prezzo.

Quella sua nuova sembianza non era comoda, l'avrebbe definita ingombrante.

Andare in giro con un paio di ali nere, dopotutto, non era la cosa più semplice che avesse fatto.

Erano pesanti e difficili da controllare, per non parlare del tempo di guarigione che la sua pelle impiegava per rimarginare i solchi d'uscita delle ali.

Il dio aveva roteato gli occhi, sbarrando le palpebre per tentare una comunicazione mentale con l'altro.

Non lo faceva spesso, aveva rinunciato a comunicare con gli altri molto tempo prima, ma di tanto in tanto sfruttava quella sua abilità.

Sembri un pollo spennato, era ciò che aveva borbottato nella mente masochista di Icarus.

Quest'ultimo non aveva risposto, limitandosi a sorridere, divertito.

"Vuoi assistere?" Aveva posizionato le mani sotto il seno di Raven, cercando di toccarla il meno intimamente possibile. Si sentiva quasi in colpa, in realtà.

Non voleva passare per un molestatore, ma aveva bisogno di toccarla per entrarle in testa.

Sin aveva pensato di rifiutare e aspettare pazientemente la fine del processo, poi aveva cambiato idea.

Era andato lì per indagare, quindi che senso avrebbe avuto rimanere in disparte?

Si era avvicinato a Icarus, aspettando che facesse ciò che doveva fare per coinvolgerlo.

"Dovete scambiarvi del sangue, voi due," E aveva fatto ondeggiare il dito tra Sin e Raven, "cosicché i suoi incubi scorrano anche nel tuo sistema. Se ne prendi solo un po', l'effetto sparirà entro due ore."

A quel punto il dio aveva pensato che ritirarsi non sarebbe stata una pessima idea. Scambiare il proprio sangue con quello di un'umana, che razza di sciocchezza blasfema.

Non aveva intenzione di sporcarsi con i liquidi della ragazza, tanto meno aveva voglia di benedirla con il dono del suo sangue. Questo, se appartenente a un dio, aveva poteri curativi.

Se ne assumevi troppo, però, perdevi il senno della ragione, impazzendo.

"Sin, se non vuoi farlo temo che dovrai arretrare: ho bisogno di spazio per completare l'operazione."

Sentendosi sconfitto, il dio aveva grugnito per poi afferrare il polso della ragazza. Era sottile e fragile, se avesse stretto la presa, le avrebbe rotto l'osso.

Gli umani erano fisicamente e mentalmente deboli, quindi indegni del favore di un dio tanto forte.

"E io che pensavo avresti scelto il collo."

Aveva mugugnato Icarus, ridendosela di gusto mentre Sin lo fulminava con lo sguardo.

Aveva quindi portato le labbra contro la pelle di lei, trovandola morbida ma screpolata in alcuni punti.

Colpa delle temperature dure e basse del posto, probabilmente.

Si era leccato i canini, impaziente di sentire dopo tanto tempo il sapore del sangue contro il palato.

Senza perdere tempo le aveva perforato la cute, sentendo il rumore di rottura e lacerazione che la pelle di Raven aveva prodotto.

Soave, sia il sapore che il rumore lo avevano soavemente scosso, partendo dalle piante dei piedi per irradiarsi fino alle punte dei capelli.

Aveva ritirato i denti per sostituirli con la lingua, raccogliendo le rimanenti gocce scarlatte per farle roteare contro le gengive e sul palato.

Una volta soddisfatto si era distaccato, mordendosi il polso per far sgusciar fuori qualche goccia di sangue.

Il suo, a differenza di quello di Raven, non era di un rosso scuro ma bensì di un grigio scuro.

Quindi aveva portato il polso ferito alle labbra della ragazza, forzandola ad aprire la bocca.

Si era fermato solo quando l'aveva vista muovere involontariamente le labbra contro il taglio aperto di lui, deglutendo.

L'espressione di Raven si era incupita, trasformandosi in una di disgusto.

Sin aveva scosso la testa, dandole silenziosamente dell'ingrata.

Non aveva avuto tempo di fare altro che Icarus aveva gettato la testa all'indietro, trafiggendo il polso ferito del dio con le unghie.

Ora che aveva connesso i due individui con lui, poteva finalmente iniziare.

L'Incubo aveva sentito l'aroma del sangue strisciare languidamente per la stanza, appestandone i muri e i soprammobili.

Quella era la parte che preferiva: il cupo, lento e malinconico bacio della paura.
Quest'ultima si attaccava alle vene degli umani, strisciando in tutto l'organismo.

Più essa veniva diluita dalla felicità e più si affievoliva, ma le cellule rosse di Raven erano talmente impregnate di miseria che nemmeno cento gocce di gioia sarebbero riuscite a diluire quello scuro sentimento.

Era fantastico, assurdamente paradisiaco quanto quella ragazza potesse contenere tutta quel dolore passivo. Per lui, e solo per lui, sarebbe stato un lavoro molto piacevole.

Le ali di Icarus avevano avuto un tremito di piacere mentre si immergeva nella mente della femmina, obbligandola a rivivere i suoi peggiori incubi sotto forma di sogno.

La prima cosa che l'Incubo e il dio avevano visto era stata una casa in campagna, circondata da una vasta porzione di terra coltivata.

Una donna e un uomo, entrambi sulla soglia dei quarant'anni, erano seduti in veranda con un bicchiere di limonata tra le mani.

Sembravano stanchi, quasi preoccupati mentre osservavano i figli rincorrersi.

Icarus e Sin si erano voltati verso i bambini, osservandoli da lontano.

Uno dei due, il più grande, dimostrava tredici anni mentre l'altra sembrava averne uno o due di meno.

Era lui a rincorrere lei, mai il contrario.

L'avevano visto allungare una mano in avanti per strattonare la minore dalla maglia, facendola ruzzolare a terra con un grugnito.

La caduta aveva spinto entrambi al lato della casa, dove le mura colorate di giallo li coprivano dalla vista dei genitori.

Sin aveva fatto qualche passo in avanti, decidendo di voler osservare la scena da più vicino.

L'Incubo aveva impiegato qualche secondo in più per farlo, distratto dalla nebbia nera che pian piano iniziava a farsi strada verso i due pseudo-adolescenti.

Quello era segno di un ricordo traumatico, uno di quelli che la mente tentava disperatamente di sotterrare perché troppo nocivo alla persona.

Aveva sorriso tra sé e sé, raggiungendo Sin e i due ragazzini.

La bambina stesa con la schiena contro il terreno era la Raven di un decennio prima.

Dimenava le gambe e tentava di sferrare pugni al petto del fratello, cercando di toglierselo da dosso.

L'espressione del ragazzino era cupa e divertita; la osservava con la testa piegata verso il basso e i suoi occhi, coperti parzialmente dalle ciglia scure, brillavano di castano contro la luce forte del Sole.

Non stavano giocando, aveva pensato Sin. La bambina aveva davvero tentato di scappare da lui, aveva desiderato davvero colpirlo e spingerlo lontano dal suo corpo.

Ma il ragazzino, più grande e forte, si era limitato a sedersi meglio sullo stomaco di lei, guadagnandosi un grugnito di dolore da parte della quasi ragazzina.

"La mamma ha detto che devi lasciarmi stare!" Aveva gracchiato Raven, gli occhi deliranti appannati da un sottile strato di lacrime mentre immaginava il succedere degli eventi.

Era sempre la stessa storia con Elias: lui la inseguiva, le faceva male e la mamma lo sgridava, senza dirgli altro.

Ricordava quando, un anno e mezzo prima, aveva trafitto il ventre della sua gatta con il coltello che il papà usava per tagliare il pane.

Quindi aveva trascinato la carcassa in camera sua, gettandola sul letto per macchiarle le lenzuola del sangue putrido del gatto.

Le aveva detto che era stata tutta colpa sua, che l'aveva costretto a uccidere la bella gatta dal manto chiaro e gli occhi verdi.

Se avesse dato più attenzione a lui, se avesse smesso di sottrargli tempo per giocare con quel fastidioso animale, ora sarebbe ancora in vita.

Glielo aveva detto con i pugni chiusi e gli occhi spalancati mentre le urlava di starlo trascurando.

Il tempo di Raven era suo da usare e nessun altro aveva il diritto di metterlo in secondo piano.

Sin era riuscito a vedere quel ricordo come fosse un flash, qualcosa a cui la bambina schiacciata a terra aveva pensato mentre le veniva tappata la bocca.

"Alla mamma non importa nulla di quello che faccio," il ragazzino aveva inclinato la testa di lato, sorridendole, "sei l'unica a cui importa di me, per questo ti amo."

Si era chinato per baciarle le labbra, sentendo il petto di lei venir scosso da qualche singhiozzo. Elias aveva ragione: non importava quanto si lamentasse con sua madre, lei non faceva mai nulla per intervenire, per proteggerla.

Elias era nato prematuro e negli anni era divenuto un bel bambino dai capelli castani e gli occhi dello stesso colore. Sua madre, però, non era mai riuscita ad amarlo.

C'era qualcosa di sbagliato in quel bambino, qualcosa che le impediva di vederlo come tale e, di conseguenza, di provare affetto verso di lui.

Un anno dopo era nata Raven.

I due bambini erano stati lasciati soli a loro stessi, entrambi rifiutati dalla madre e ignorati dal padre, e con il tempo erano divenuti l'uno per l'altra l'unica compagnia possibile.

Elias si era morbosamente affezionato alla sorella minore, seguendola ovunque.

Non voleva che avesse qualcuno all'infuori di lui, quindi aveva fatto di tutto per tenerla sua, come fosse un qualcosa da tenere segreto al mondo.

Raven non poteva fare o dire nulla se al suo fianco non c'era Elias.

Con il tempo, però, quello del maggiore era divenuto un affetto che di fraterno non aveva nulla.

Aveva iniziato a chiederle di dormire assieme, abbracciandola fino a mozzarle il respiro, mentre le baciava le tempie.

Raven aveva quindi smesso di dormire, restando in uno stato di dormiveglia per assicurarsi che non succedesse nulla, fino a quando quel qualcosa era successo.

Elias le accarezzava il petto e le gambe, le pizzicava le cosce e le si spingeva contro ogni qual volta dormivano assieme.

Sua madre, però, non gli aveva detto nulla.

Era un bambino problematico, le diceva lei.

Se non voleva finire come la gatta, le urlava lui, avrebbe fatto bene a star zitta.

Sin aveva mandato giù un boccone amaro mentre circolava nei ricordi di Raven, venendo pervaso da un forte e potente senso di ribrezzo e rabbia.

Quel ragazzino non era un bambino, era qualcosa di più cupo e cattivo.

Qualcuno che aveva tinto l'infanzia di Raven con un profondo color nero, macchiandole l'esistenza.

Il dio ricordava di aver visto la ragazza vagare nell'acqua, alla ricerca del fratello annegato.

Come poteva cercarlo con così tanta pena quando, a quanto pareva, l'aveva molestata e traumatizzata?

Icarus gli aveva dato una spallata, quasi come avesse capito la direzione dei pensieri di Sin.

L'Incubo era abituato a vedere orrori e soprusi nelle menti umane, forse per questo i ricordi di Raven non l'avevano irritato ma solo impietosito.

Era difficile per lui e per qualsiasi altro essere demoniaco provare pena o empatia, eppure si era ritrovato a farlo.

Aveva puntato gli occhi in avanti, il ricordo di Raven momentaneamente bloccato dalla sua magia, mentre indicava a Sin la direzione verso la quale guardare.

A circa cinquanta metri di distanza vi erano uno stagno di media grandezza, pieno di acqua sporca e melmosa.

Gli occhi della bambina erano puntati verso l'acqua nera e a tratti verdastra, intrisi di una pericolosa emozione: vendetta.

A T T E N Z I O N E

Ero indecisa, inizialmente, se inserire o meno questa parte. La trovo molto forte e cupa da digerire, ma ho deciso di includerla. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, un bacio!

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