[09] Uno Sconosciuto A Casa
Raven aveva spalancato la porta del suo appartamento, studiandolo velocemente con gli occhi prima di entrarvici dentro. Tutto sembrava essere esattamente al suo posto, proprio come lo aveva lasciato.
Alcune bozze di articoli erano state abbandonate a terra, completamenti dimenticate e ora inutili, mentre grandi e scure macchie di caffè adornavano il tavolo da cucina.
Lo aveva rovesciato la mattina prima e si era completamente dimenticata di rimediare al danno, lasciando l'appartamento in balia di sé stesso.
Aveva storto il naso, arrabbiata con il suo disordine.
Il letto sul quale aveva dormito, stipato tra la parete e un piccolo divano, era sfatto e su di esso vi era poggiata la sua biancheria intima. Quel dettaglio l'aveva momentaneamente scombussolata.
Non ricordava, con tutta sincerità, di averla lasciata lì. Era sempre stata molto attenta ai suoi indumenti ed era quindi sua abitudine piegarli, stirarli e riporli immediatamente.
Raven aveva scosso la testa, sospirando. Forse stava semplicemente tornando a esser paranoica, proprio come qualche anno prima, e dopotutto aveva avuto un attacco isterico quindi forse, e solo forse, si era dimenticata di mettere tutto al proprio posto.
Si era avvicinata al cassetto contente le stoviglie, tirando fuori una scodella ramata.
Quindi aveva afferrato un pentolino, riempendolo d'acqua per bollirla.
Da quant'era che non mangiava decentemente?
Magari avrebbe potuto chiamare qualche negozio d'asporto, ma non era nemmeno sicura che esistessero in quel posto.
Il suo sguardo era caduto quindi sul telefono nero poggiato sul tavolo. Lo schermo si era illuminato di bianco, segnando l'arrivo di una notifica.
Con molta probabilità era solo qualche collega in cerca di qualche nuova informazione o di qualche utile consiglio per il proprio articolo.
Non le importava, doveva ancora chiamare il suo terapista.
Aveva poggiato il pollice sul tasto centrale, aspettando che l'aggeggio elettronico scansionasse e riconoscesse la sua impronta.
Quindi era entrata sulla rubrica, ignorando volutamente le due chiamate perse di sua madre.
Non aveva voglia di sentirla, di ricordarsi di lei e di rammentarle che esisteva, che era ancora viva. Forse i suoi genitori avrebbero sperato di sentire il contrario.
Aveva messo la chiamata in vivavoce, afferrando da un ripiano basso una busta di riso già preparato.
Avrebbe semplicemente dovuto svuotarne il contenuto nella pentola e mescolare, per circa dieci minuti, fino a quando non le fosse sembrato mangiabile.
"Raven?" La voce morbida era stata indurita dal telefono, trasformata dai fili dell'alta tensione che trasportavano le parole.
Aveva mandato giù il groppo che le stringeva la gola, afferrando un mestolo di legno per mescolare il riso e la polverina per insaporirlo.
"Ciao, Erik."
Per qualche secondo erano rimasti in silenzio, ognuno pronto a far la prima mossa.
Erik era stato il suo psichiatra per tre anni, lui ne aveva ventinove, e la conosceva come le sue tasche. O almeno così pensava.
"Credo di aver avuto un attacco, qualche ora fa." Si era affrettata a dirlo per non sembrare casuale; non voleva fargli credere di averlo chiamato giusto per sentirlo, per mancanza.
Erano andati a letto insieme solo una volta eppure non aveva mai cambiato terapista, troppo spaventata al pensiero di dover ricominciare da capo.
Era stato poco etico e professionale da parte di entrambi, ma era stato solo sesso.
Nient'altro che pelle che si tocca, si sfiora e si congiunge. Solo carne e niente spirito, era questo che rassicurava Raven, il non affezionarsi.
Erik, però, ci aveva tenuto di più.
Lo aveva sentito sospirare dietro la cornetta, come fosse esausto e scontento.
Avevano lavorato molto assieme, sesso escluso, per arrivare a portare Raven verso una parvenza di calma e sanità.
Dopo l'incidente con suo fratello tutto era divenuto più difficile, o forse lo era sempre stato. Anche da vivo, le diceva Erik, la presenza del ragazzino le aveva procurato danni.
"Raccontami cosa è successo."
Raven aveva annuito, rassegnata, e così aveva strattonato una sedia verso di lei, sedendosi al contrario per continuare a mescolare.
"Ho avuto un'allucinazione, in realtà più di una. Credevo che gli alberi si stessero piegando su sé stessi e ho visto il Nærøyfjord tingersi di rosso.
Ma non era pittura o colorante, era sangue. Sapevo fosse sangue, ne sentivo l'odore, e sono uscita di casa senza nemmeno rendermene conto.
C'era mio fratello, Elias, e mi chiedeva di aiutarlo. Stava annegando e io non riuscivo ad afferrarlo, ero consapevole di starlo uccidendo eppure per quanto ci provassi non ero in grado di afferrarlo e riportarlo a galla."
Erik era ammutolito mentre si mordicchiava le labbra sottili, strappandosi qualche pellicina dalle dita. Aveva osservato la sua scrivania in mogano, osservando le venature del legno.
Con le falangi ne aveva tracciato il percorso, assorto nei suoi pensieri.
Non si era preparato a un'eventuale chiamata di Raven, in realtà pensava che non l'avrebbe più contatto.
Poi il suo display si era illuminato e il nome della ragazza, accompagnato da una foto di un corvo, aveva attirato la sua attenzione.
"Ven, tu non hai ucciso Elias. È stato un incidente, un terribile incidente, ma non è stata colpa tua. Per quanto riguardo le tue allucinazioni, invece..." era rimasto un attimo in silenzio, rimuginando.
Quindi era corso ad aprire il cassetto sotto la scrivania, ben chiuso e bisognoso di una chiave, per estrarre la cartella di lei.
"Potresti aver avuto una psicosi, un anno fa non ti erano nuovi questi episodi. Negli ultimi mesi non ne hai più avuti, giusto?"
In risposta aveva mugugnato, portandosi una mano al viso. Si, non aveva più avuto attacchi psicotici e pensava di esserseli finalmente lasciata alle spalle.
A quanto pare, o secondo l'opinione di Erik, non era così.
"Hai ancora problemi a dormire? Prendevi lo zolpidem come sonnifero."
Aveva ridacchiato, Raven, coprendosi la bocca con la mano. Per molti anni aveva fatto uso di medicinali per addormentarsi ma, col tempo, il loro effetto aveva iniziato a dissiparsi.
Le dosi avevano iniziato a farsi sempre più considerevoli fino a quando non aveva iniziato a risentire degli effetti collaterali.
Mal di testa e sonnambulismo erano divenuti da perfetti sconosciuti a noti accompagnatori e così aveva smesso di prendere lo zolpidem, senza dire nulla a Erik.
"Ho ancora problemi, riesco ad addormentarmi ma mi sveglio nel bel mezzo della notte, a quel punto smetto di dormire. E pre quanto riguardava il farmaco, beh, ho smesso di prenderlo."
Lo psichiatra si era dovuto mordere la lingua per non imprecare. Da un lato era felice che Raven avesse smesso ma, dall'altro, sapeva che le servivano i farmaci prescritti.
Un cocktail di sostanze che, in un modo o nell'altro, l'aveva penalizzata nella sfera privata e in quella lavorativa.
"Dovrei prescriverti della clorpromazina per l'attacco psicotico, anche se preferirei sottoporti a una terapia cognitiva-comportamentale, senza farmaci."
Lei ci aveva sperato, aveva sperato nell'assenza dei farmaci ma il tono di Erik non prometteva nulla di buono. Lo conosceva da due anni e, nonostante fosse lei la paziente, si era impegnata a studiarlo come meglio poteva.
Certo, era finita con l'andarci a letto quindi non poteva esattamente definirsi vittoriosa.
"Ma non sei in Francia, quindi non posso sottoporti alla terapia psicologica. Dovrò mandarti la prescrizione via fax, così che tu possa passare in qualche farmacia."
Farmacia, quelle era sicura che fossero anche lì. Sperava di non trovare la clorpromazina, pregava che l'avessero finita o che non le accordassero il permesso.
Ma aveva bisogno che queste allucinazioni si fermassero o che, in quel caso, non avanzassero e peggiorassero.
Era rimasta in silenzio, completamente sconfitta e abbattuta. Si sentiva come un dannatissimo ratto da laboratorio al quale veniva somministrato qualsiasi tipo di medicinale.
Non era sicura che avrebbe preso ciò che Erik le stava prescrivendo.
"Raven, dove sei?"
Il tono dell'uomo era crollato, comunicandole quando stanco fosse.
Aveva sempre lavorato molto, un workaholic, ma ora le pareva di avvertire una sfumatura di tristezza nella sua voce.
"In Norvegia."
Era a chilometri di distanza da casa sua, da Nizza e da Erik e glielo stava dicendo solo ora. Lo aveva sentito trattenere un grugnito seguito dal rumore di qualcosa che sbatteva.
Lo psichiatra aveva appena tirato un pugno alla scrivania e lei non ne aveva la minima idea.
Conosceva il posto perché aveva vissuto lì, da bambino, assieme ai genitori.
Quest'ultimi si trovavano ancora sul territorio e gestivano un'enoteca.
Lui, però, aveva deciso di trasferirsi e di vivere nella moderna Francia, lasciandosi la Norvegia alle spalle.
"Perché non mi hai avvisato?" Aveva giocato con una ciocca rossiccia di capelli, abbassando lo sguardo.
Per molto tempo aveva pensato di tingerli di nero, di cambiare quella parte di sé che sostanzialmente non gli era mai piaciuta, ma poi Raven era entrata nel suo studio e l'aveva chiamato Flamme, fiamma.
A lei piaceva il colore, le piacevano i suoi capelli, e di riflesso era piaciuto anche a lui.
"Perché mi avresti fermata."
Erik le avrebbe detto di non andare, di continuare con la terapia solo per averla vicina ma lei aveva bisogno di partire, di cambiare aria e di risollevare la sua posizione lavorativa.
Le aveva dato mentalmente ragione senza osare ammetterlo ad alta voce. Perdere lo aveva sempre infastidito.
"Sei ancora a Parigi?"
Erik aveva osservato il cielo oltre la finestra, trovandolo pieno di stelle.
Era un peccato che nessuno si fermasse più a guardarle, come se fossero qualcosa di noiosamente semplice e scontato, come se non fossero più grandi, veloci e letali degli umani.
Preferiva le costellazioni agli uomini, le stelle cadenti alle donne.
Il contatto umano gli era sempre sembrato banale, forse a causa del luogo in cui era cresciuto, ma la mente e i ragionamenti lo avevano sempre interessato.
Quindi era diventato uno psichiatra.
"No, ma conto di tornare presto."
Era partito per assistere un collega, uno pseudo-amico che gli era utile e conveniente, ed era quindi via.
Raven aveva sentito il riso attaccarsi al fondo del pentolino e velocemente si era alzata, afferrando il telefono.
"Devo andare, Erik. Grazie di aver risposto, comunque."
Non gli aveva dato tempo di replicare, consapevole che avrebbe cercato di trattenerla a telefono, e quindi aveva riattaccato.
Dio, che stupida.
Quindi aveva lanciato un'occhiata ai tre flaconi di medicine che si era portata dietro, osservando la più scura, quella dei sonniferi.
Era tentata di inghiottirne uno e andarsene a dormire ma s'era trattenuta, speranzosa di passare una notte serena.
Ah, che bella speranza!
✞
Raven si era svegliata senza fiato.
Aveva avuto un incubo, l'ennesimo, e il pigiama le si era attaccato alla pelle sudata.
La sua stanza da letto, che in realtà era una porzione del salotto, era avvolta da un pesante mantello scuro.
Erano, con molta probabilità, le tre di notte. Dormire non era mai stato facile per lei ma, da quando soggiornava in Norvegia, la sua condizione pareva esser peggiorata.
Avrebbe scartato l'idea di tornare in quel posto, quindi, e una volta tornata in Francia si sarebbe presa una terapeutica pausa. Niente articoli, niente uffici o computer, solo lei e il suo processo di guarigione.
Si era alzata, ormai priva di sonno, per andare verso il lavandino e riempirsi un bicchiere d'acqua.
Con il liquido ancora in bocca aveva adocchiato i suoi preziosissimi sonniferi e aveva quindi deciso di prenderne uno, uno solo, per poter tornare a dormire.
Aveva bisogno di riposo se voleva funzionare bene e una pasticca ogni tanto se la poteva concedere. E pensare che solo qualche ora prima aveva detto a Erik di aver smesso con quella roba.
Ne aveva inghiottita una sola, sperando in un effetto immediato.
Il freddo dell'acqua l'aveva ridestata ulteriormente, scuotendola. Il suo computer era stato lasciato aperto, ancora con il documento di word ben visibile.
Aveva buttato giù una bozza dell'articolo, utilizzando la registrazione che aveva ricavato da Grethe, l'auto-dichiarata strega.
Sembrava star uscendo bene, non poteva lamentarsi, ma avrebbe dovuto riguardarlo con attenzione.
Ormai totalmente sveglia e in attesa che il sonnifero facesse effetto, si era avviata verso il bagno.
Aveva riempito la vasca di acqua calda, accendendo due candele profumate. Una emanava odore di arancia mentre l'altra di lavanda.
Quest'ultima gliela aveva consigliata Erik, dicendole che come piantava pareva aiutare con l'ansia.
L'uomo aveva sempre avuto una certa sensibilità agli odori, lo ricordava bene, così come rammentava di aver comperato una candela alla vaniglia, il giorno stesso in cui l'aveva invitato a casa sua, accendendola prima che la situazione degenerasse.
Aveva scosso la testa mentre si spogliava, riponendo un cambio d'abiti sul bordo del lavandino.
Quindi aveva afferrato l'intimo che qualche ora aveva trovato sul letto, dimenticandosi quanto strano le fosse sembrato.
Con il piede aveva scosso la superficie dell'acqua, osservandola muoversi placidamente, per poi immergersi completamente. Aveva tirato la tenda, coprendosi.
Era un'abitudine che aveva sempre avuto, quella, così come lo era chiudersi a chiave in bagno.
Aveva iniziato a farlo quando aveva dodici anni, per sicurezza, e se ne era liberata solo anni e anni dopo.
La tenda, le aveva detto Erik, la vedeva come un pannello protettivo tra lei e la sua paura.
Aveva chiuso gli occhi, rilassandosi e ispirando a pieni polmoni.
Tutto il suo corpo era stato avvolto dall'acqua bollente, calda abbastanza per arrossarle la pelle, mentre si massaggiava le braccia con una crema idratante.
Quello era uno dei pochi momenti di relax che si ritagliava e non ci avrebbe mai rinunciato. Dopo quello che era successo, poi, credeva di averne un gran bisogno.
Ad occhi aperti si era immersa completamente, osservando il modo in cui l'acqua le offuscava la vista.
Tutto sembrava essere lontano, più lucido e sfuggente. Immergersi con il volto, assieme al resto del corpo, era uno dei numerosi esercizi che Erik le aveva dato per superare il trauma.
Suo fratello era morto annegato nel lago quando lei aveva quindici anni e da allora si era sempre rifiutata di andare in piscina, al mare o di entrare in vasca.
Lo psichiatra le aveva consigliato di iniziare con una quantità d'acqua minima, usando il soffione per lavarsi.
Dopo due mesi, Raven era riuscita finalmente a farsi un bagno senza l'ombra di attacco di panico. Il passo successivo, quindi, era stato immergersi.
La prima volta aveva rischiato di annegare, con la schiena verso l'altro, perché aveva spalancato di riflesso le labbra. Per qualche secondo non si era ricordata come alzarsi.
L'acqua le aveva invaso le narici e la gola mentre tentava di annaspare.
Era riuscita a porre fine all'attacco d'ansia solo un minuto dopo, quando ormai aveva ingoiato una quantità d'acqua considerevole.
Grazie a Dio non aveva usato bagnoschiuma, pensando di usarlo dopo. Ora, quasi sette mesi dopo, era in grado di immergersi.
Raven aveva chiuso gli occhi, sentendo la pelle d'oca infestarle le gambe. Era ancora spaventata.
Si era ritrovata ad aggrottare le sopracciglia, come se avesse appena captato qualcosa di strano e inusuale.
Quindi aveva sollevato le palpebre, ancora cullata interamente dall'acqua calda, spalancando le labbra in un urlo muto.
Dietro la tenda della doccia vi era un'ombra scura, piegata, e da sotto la stoffa semi-trasparente erano sbucate le estremità di dieci dita.
Cazzo, cazzo, cazzo!
Era stata la prima cosa che aveva pensato. Si era tappata le labbra nel ritornare a galla, afferrando il soffione della doccia per usarlo come potenziale arma.
Aveva preso un respiro profondo, pronta a vedere la tenda sparire, ma questo non era accaduto.
L'ombra si era alzata e le mani dello sconosciuto erano sparite dalla sua visuale, lasciando un alone sul bordo della vasca.
Con il respiro affannato si era alzata anche lei, brandendo il soffione e stringendolo con abbastanza forza da farsi sbiancare le nocche. Qualcuno era entrato nel suo appartamento, dannazione.
Possibile che volessero rapinarla?
Lacrime di panico le avevano riempito gli occhi mentre si concentrava sull'ombra.
Aveva battuto le palpebre due volte e, alla terza, la figura era completamente sparita.
Non aveva udito nessun rumore, nessuno spostamento, e persino l'alone sulla vasca era sparito.
Si era immaginata tutto? No, era certa di aver sentito un sospiro e di aver visto delle dita fasciate di nero.
Era uscita velocemente dalla vasca, afferrando la chiave del bagno con le mani percorse da terribili tremori. Si era chiusa a chiave, rifiutandosi di uscire e andare a controllare.
Singhiozzando aveva preso i vestiti, coprendosi il prima possibile.
Aveva preso respiri profondi, troppo agitata per respirare correttamente, e si era seduta sulla tazza, lontana dalla porta.
Se lo sconosciuto avesse avuto una pistola, le avrebbe potuto sparare attraverso il legno.
Tanto valeva rannicchiarsi in un angolo e sperare che non fosse armato.
La porta era stata presa a pugni dall'esterno, producendo un rumore cupo e sordo. Quindi si era diffuso il sibilo di un sussurro e il canto lento di una ninna nanna. Non riusciva a capire le parole e il significato della canzoncina.
Si era tappata la bocca, soffocando un singhiozzo convulso mentre la voce maschile si faceva sempre più forte e metallica.
Non era una voce umana, quella, ma piuttosto una modificata a computer.
Possibile che fosse una registrazione?
Raven non era riuscita ad aprir bocca, impaurita al solo pensiero che lo sconosciuto potesse buttare giù la porta.
Quindi si era alzata, instabile sulle gambe, e aveva trascinato la cesta dei panni sporchi contro la porta.
A quest'ultima aveva affiancato il mobile con le rotelle che conteneva gli asciugamani, tentando di bloccare come meglio poteva la superficie in legno.
Si era tenuta in piedi grazie al sostegno del lavandino mentre avvertiva le palpebre farsi pesanti.
Cristo, aveva pensato lei, il sonnifero iniziava a fare il suo lavoro.
Aveva scelto la serata meno adatta per farne uso e la cosa aveva iniziato a innervosirla ancora di più. Con i nervi a fior di collo si era presa la testa tra le mani, sentendo le tempie pulsare mentre si sforzava di restare vigile.
Raven si era accasciata a terra, tenuta sveglia sola dalla melodia cupa e intensa che qualcuno le stava cantando.
Avrebbe ucciso chiunque fosse entrato, poteva farlo, doveva solo...cosa doveva fare?
Si lei doveva, ecco, doveva...
La testa di Raven era crollata indietro, poggiandosi contro il bordo della vasca mentre il medicinale le offuscava sia la vista che i pensieri. Non riusciva ad afferrare niente, come fosse paralizzata, e i suoi stessi pensieri le stavano sfuggendo.
Senza riuscire più a resistere, si era addormentata.
✞
Morfeo l'aveva lasciata sei ore dopo, quando il Sole era alto e freddo sulla Norvegia.
La prima cosa che aveva provato era stata confusione pura. Si sentiva pesante, forse ancora intontita, ma lo soettacolo che aveva davanti l'aveva subito ridestata.
La porta era ancora bloccata dalla mobilia e, controllando, l'aveva trovata chiusa a chiave.
I ricordi di qualhe ora prima le avevano invaso la mente, facendola ricadere in un profondo stato d'ansia.
Si era presa cinque minuti per decidere se uscire o rimanere chiusa in bagno e, alla fine, aveva scelto la prima opzione.
Non aveva con sé il telefono e di certo non poteva rimaner bloccata tutto il giorno. Se lo sconosciuto fosse stato ancora lì dentro, con molta probabilità l'avrebbe aggredita.
Con gli occhi aveva freneticamente cercato una possibile arma, senza però trovare nulla.
Se la sarebbe dovuta fabbricare.
Aveva afferrato un asciugamano, avvolgendoselo strettamente attorno al pugno chiuso.
Quindi si era posizionata di fianco allo specchio, aveva chiuso e gli occhi e oscillando il braccio aveva sferrato un poderoso pugno alla superficie lucida.
Il vetro si era staccato, infrangendosi rovinosamente a terra. Con lo sguardo aveva cercato il pezzo più grande, afferrandolo non appena l'aveva trovato.
Aveva continuato a stringerlo nella mano fasciata per non tagliarsi mentre con l'altra apriva la porta.
Per qualche secondo era rimasta in attesa di un rumore, d'un segno che le rendesse palese la presenza di qualcun altro.
Nulla.
La porta aveva cigolato leggermente mentre usciva, spostando il cesto dei panni sporchi e il piccolo mobile in legno.
Il corridoio era sgombro e dalla cucina non provenivano rumori. Era la stanza più vicina all'uscita e comprendeva sia il soggiorno che il proprio giaciglio.
Sarebbe dovuta andare li.
Strisciando contro il muro era avanzata, assotigliando gli occhi. Non aveva osato fiatare, troppo spaventata che lo sconosciuto potesse sentirla.
Quindi era balzata oltre l'angolo, alzando il braccio per prepararsi a colpire.
Non aveva visto nulla se non il proprio disordine.
Il suo letto era ancora sfatto e le stoviglie della sera prima erano ancora da lavare.
Tutto era rimasto nella stessa posizione in cui lei loaveva lasciato.
Si era portata la mano libera alla fronte, massaggiandosela. Quindi aveva controllato tutti i cassetti e poi il portafoglio, senza trovare nulla di anormale.
Non capiva, possibile che se lo fosse davvero immaginata?
Aveva scosso la testa, di nuovo sull'orlo delle lacrime. Stava impazzendo? Forse era stata tutta colpa della sua immersione, forse la sua psiche non aveva retto e aveva prodotto un'allucinazione.
Raven aveva pianto, ancora, senza riuscire a capire cosa diamine le prendesse. Quando aveva alzato lo sguardo, però, aveva realizzato di non esser pazza.
La pagina word del suo computer era stata resettata, il suo file completamente cancellato, e al suo posto vi era una scritta enorme, di colore rosso.
A presto, Raven.
P.s. il rosso ti fa più giustizia
Sulla tastiera del PC, piegate perfettamente, vi era un paio di mutandine rosse.
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