[08] Due Pozze Senza Stelle

A Sin erano bastati cinque minuti in compagnia di Raven per capire che non avrebbe mai più voluto aver a che fare con lei.

Quell'umana era la personificazione del fastidio e dell'insistenza e lui, nonostante la longeva età, non sopportava quei tratti caratteriali.

Icarus gli aveva spesso consigliato di mischiarsi a quegli esseri fatti di carne e ossa, di assorbire le loro caratteristiche e farle proprie.

In quel modo, gli diceva saggiamente l'amico, avrebbe saputo capirli.

Ma Sin se ne era sempre lavato le mani, rimanendo della sua idea: in quanto Dio e Re di tutti gli essere umani, non aveva nessun bisogno di comprenderli.

Loro gli appartenevano, erano sue creature e non il contrario.

Si era stabilito in Norvegia perché gli umani, lì, lo veneravano ancora e perché, forse era da considerare il motivo principale, amava la congiunzione del verde e dell'argento.

Con gli anni, però, Sin aveva iniziato a esser stanco di esistere. Conduceva una vita che non poteva esser considerata tale, costantemente ibernato in un sonno lungo mesi e mesi, senza poter realmente interagire con qualcuno.

Icarus e i membri della sua servitù erano gli unici contatti che aveva e che avrebbe mai avuto.

Da quando aveva perso il dono della parola, poi, vivere gli pareva ancor più inutile.

Raven si era passata una mano tra i lunghi capelli scuri, così simili alla mantella che la madre di Sin indossava e al tempo stesso troppo luminosi per esser associati all'oscurità di cui la dea era sovrana.

Lo aveva guardato, quindi, e non si era vergognata nel fargli capire che lo stava fissando.

Sin era, agli occhi della giovane, un uomo di dubbia bellezza ma di sicura furbizia. Chissà quanti uomini e quante donne aveva ingannato, fingendosi un dio, e chissà come mai aveva quella tremenda cicatrice sul volto.

Ovviamente non glielo avrebbe chiesto, conosceva i limiti da non superare nonostante spesso se ne infischiasse.

In quel momento, però, non si era trattenuta per bontà d'animo ma piuttosto per timore.

Si trovava in un ambiente che non conosceva, con la sola compagnia di un uomo muto e decisamente più grosso di lei.

Aveva sempre avuto un po' di remore nei confronti del sesso opposto, ma nella società moderna in cui viveva era facile reperire oggetti di auto-difesa.

Non che questi fossero sempre vincenti, sia chiaro.

"Grazie di starmi accompagnando."

Raven voleva parlare e stare in silenzio, miscelare quelle due sensazioni e far di esse un qualcosa di unito.

Era sempre stata una ragazza spigliata e conversare non le era mai risultato complicato, ma con Sin era decisamente diverso.

Non poteva, o forse non voleva, risponderle e quindi lei avrebbe dovuto portare il peso del silenzio e della parola assieme.

Lui aveva fatto un cenno lieve col capo, annuendo. Non gli importava della sua gratitudine, non se gliela esponeva a parole.

Quest'ultime non contavano nulla e quindi come tali le avrebbe trattate.

Altri cinque minuti e sarebbero arrivati. A quel punto si sarebbe fermato all'ingresso della radura e si sarebbe voltato dall'altra parte, senza salutarla.

Un dio non aveva il compito di salutare, ma nemmeno quello di accompagnare un'umana fino a casa.

Dalla gola di Sin era uscito un verso rauco di stizza mentre rimuginava su come l'avessero incastrato in quella situazione.

"Beh, nemmeno te mi stai troppo simpatico." Aveva rimbeccato Raven, roteando gli occhi.

Sapeva di non esser la benvenuta, ma addirittura schernirla le pareva tropo.

Comunque sia, si era sentita divertita nell'osservare l'espressione confusa dell'altro.

Quindi aveva rallentato il passo, speranzosa di poter rimanere un altro po' in compagnia dello strano uomo.

Chissà, magari avrebbe tratto qualcosa di positivo da quella situazione. Lo sguardo di Raven era corso sul gelido fiumiciattolo che bagnava l'erba e si allungava verso la piccola collina sopra di lui.

Con un temporale, sicuramente il suo livello si sarebbe alzato, superando il piccolo rialzo della terra.

Odiava l'acqua in qualsiasi forma si presentasse: mare, fiume, stagno, lago e così via.

Non ne sopportava la vista né l'odore e, in più, la sola idea di entrare in uno di questi la spaventava a morte.

Raven non capiva come fosse stato possibile che il suo attacco isterico l'avesse trascinata dentro all'acqua.

Doveva assolutamente parlarne con il proprio terapeuta e, se necessario, rincarare la dose di medicinali che già prendeva.

Nell'ultimo mese aveva cessato di assumerle, convinta che avrebbero intaccato il suo lavoro.

Era già successo, un anno prima, durante la produzione di un articolo sui quartieri abbandonati di Nizza.

Raven, durante l'intervista a un uomo della zona, si era sentita completamente sfiancata e priva di energie.

Le parole le entravano da un orecchio solo per uscirle dall'altro mentre lei non poteva far altro che fissare gli occhi piccoli dell'uomo.

Il suo collega aveva dovuto trascrivere tutto e interrogare la persona da solo, guadagnandosi aumento della paga.

Questo fino a quando le medicine non avevano iniziato ad annebbiarle la testa e a provocarle sonnolenza.

Aveva semplicemente smesso di prenderle, quindi, quando le avevano offerto il lavoro a Flåm.

Era una giornalista con i fiocchi, ma l'articolo sui quartieri abbandonati di Nizza l'aveva danneggiata.

Quella era quindi la chance di tornare in vetta e recuperare ciò che aveva perso.

"È meraviglioso," aveva mormorato lei, distogliendo gli occhi dal fiume per spostarli sui rami ricurvi degli alberi.

Non ne aveva mai visti di così alti e poderosi, così come non aveva mai osservato fronde più cupe di quelle.

Il verde, in quel posto, era scuro e brillante solo grazie alle pioggie notturne.
Le gocce si attaccavano alle foglie come sanguisughe e, talvolta, mutavano in ghiaccio sottile.

Verde e argento, che fantastica combinazione.

Sin aveva annuito, osservando a sua volta il fitto del bosco. Quindi aveva aguzzato la vista, notando un movimento rapido tra dei cespugli, proprio sotto un faggio.

Si era fermato, afferrandola per il braccio.

"Che succede?"

Il dio si era portato un dito davanti alle labbra, intimandole di stare in silenzio mentre la trascinava verso quel punto.

Aveva alzato e abbassato una mano in aria, come a dirle 'fai piano'.

In qualche modo, a Raven era parso di udire la voce di Sin rimbombarle in testa nonostante non l'avesse mai sentita in vita sua.

Si erano avvicinati ai cespugli, inondati dall'odore di terra e foglie bagnate.
Lui le aveva quindi messo una mano sullo stomaco, fermandola dall'avanzare.

Aveva fatto sì che lo guardasse mentre si inginocchiava a terra, muovendo la testa per farle emulare i suoi movimenti.

Raven, nonostante la confusione, l'aveva seguito. Ora, con i pantaloni sporchi di terra e il freddo che si infiltrava nella stoffa, poteva osservare dei semplici cespugli verdi.

Aveva fatto per aprire la bocca quando Sin l'aveva fulminata con lo sguardo, aggrottando le sopracciglia nella sua direzione.

Sei stupida? Glielo avrebbe voluto chiedere mentre scuoteva la testa, tornando a guardare il fogliame.

Quindi aveva allungato il braccio in avanti, il palmo rivolto verso l'alto, per aspettare chissà cosa.

Raven era rimasta in silenzio, infreddolita ma curiosa, fino a quando dalle foglie non era uscito un muso arancione e dalla punta nera.

Aveva spalancato sia gli occhi che la labbra, pronta a far uscire un sospiro di stupore, quando Sin le aveva bloccato la bocca con una mano.

Il contatto era stato simile a una scossa fredda, un brivido che Raven aveva provato solo quando la pelle nuda si era scontrata contro un materiale gelido.

Aveva sentito l'odore di quecia sulle punte delle dita assieme a quello di tempesta-che poi, di cosa poteva mai sapere una tempesta?

Si era ritratta di poco, annuendo per confermargli il suo silenzio. Soddisfatto, Sin aveva toccato con la punta dell'indice il muso dell'animale.

Questo, spinto da chissà quale spirito, si era fatto avanti fino a far sporgere l'intera testa.

Una volpe, quella era una volpe. In vita sua, Raven le aveva viste solo sui libri di scuola.

Nel suo mondo, nella formidabile e all'avanguardia Nizza, gli animali erano visti come fastidiosi e quindi rilegati in riserve inaccessibile agli uomini.

Bisognava prenotare una visita per avvicinarsi alle staccionate elettrificate che delineavano le riserve, e non sempre si riusciva a vedere la fauna.

Inoltre non era sicura che in Francia avrebbe mai potuto vedere una volpe, tanto meno una così mansueta da avvicinarsi.

"Posso toccarla?" Aveva sussurrato lei, toccando la gamba di Sin per reclamare la sua attenzione.

Lui aveva guardato prima la volpe, ora totalmente fuori dal cespuglio, e poi lei.

Perché mai voleva fare una cosa del genere? Non era sufficiente guardare? Il ruolo di spettatore, secondo lui, era infinitamente più comodo di quello di personaggio attivo.

Dopotutto aveva vissuto gli ultimi anni in questo modo, da spettatore.

L'uomo aveva fissato gli occhi in quelli luminosi dell'animale. Le pupille verticali, sfumate con l'iridi aranciate, si erano espanse nell'affondare in quelle placide di Sin.

La volpe aveva osservato il caos e la morte agitarsi silenziosa nelle sfere cristalline del Dio e, impaurita, aveva abbassato la testa per schiacciare il muso contro il terreno.

Sin non era il suo Re, il suo creatore, ma era figlio dell'oscurità e come tale lo temeva nonostante non gli ubbidisse.

La paura, il dio ne era certo, poteva piegare chiunque.

Era tornato a guardare Raven, annuendo.

Lei aveva sorriso, rilassando le spalle tese, e quindi aveva allungato il busto verso l'animale.

Totalmente puegata alla sua altezza, aveva poggiato il mento contro il terreno, strizzando gli occhi nel sentirlo bagnato e quasi fangoso.

Non importava, c'era solo lei e quello strano animale e tutto ciò che contava era scoprire, sapere, indagare.

La volpe aveva alzato di poco lo sguardo, affondando nuovamente nel buio. Gli occhi di Raven erano scuri, senza fondo, ma calmi e rassicuranti.

Come pece inglibavano e trattenevano l'altro, ma mai per sfiancarlo o soffocarlo. La volpe aveva alzato il muso, sicuro, facendo oscillare i baffi lucidi contro la luce soffusa.

Aveva sporto la lingua, muovendosi con leggerezza verso il naso della ragazza. Quindi lo aveva fatto scontrare con il suo, leccandoglielo.

"Ciao," era uscito come un sospiro, una sottospecie di sussurro che fungeva da calmante: non voleva spaventare la volpe.

Sin le avrebbe voluto chiedere il perché diamine stesse parlando a un animale che non percepiva e capiva le parole, ma solo i toni di voce.

Quell'umana senza velo non solo era incredibilmente fastidiosa, ma anche inspiegabilmente strana.

Il dio aveva volto lo sguardo al cielo, contando mentalmente le ore mancanti alla festività dedicata a lui.

Non aveva nessuna voglia di ricevere un'ulteriore pelliccia.

Raven, intanto, aveva preso a grattare l'animale dietro alle orecchie, osservandolo spingersi verso la mano per poi allontanarsi.

Un piccolo sguardo, quindi, e il naso della volpe si era arricciato, captando qualcosa. Non c'era voluto molto prima di vederlo fuggir via, all'inseguimento di chissà quale povero animale.

La mano di Sin era tornata a stringerle il polso, intimandole di alzarsi e seguirlo. Era stanco e, nonostante quella pausa fosse interamente colpa sua, non vedeva l'ora di sbarazzarsi dell'umana.

Velocemente aveva ripreso a camminare mentre lei si guardava la mano e si toccava il naso.

Al dio era parso strano ma per lei, quel piccolo scambio con la volpe, era stato il primo contatto diretto che aveva mai avuto con un animale.

Quelli robotici che si regalavano ai bambini non erano belli nemmeno la metà.

"In Francia non ho mai visto un animale simile," aveva fiatato lei, dandogli una spallata, "è una figata!"

Sin aveva inarcato un sopracciglio nel sentire l'ultima parola, guardandola come se fosse pazza.

Forse aveva semplicemente sbagliato parola, si era detto lui, magari l'inglese non era il suo forte.

Quindi aveva alzato le spalle, tornando a ignorarla.

Raven, caparbia, aveva fatto un passo per fronteggiarlo, camminando all'indietro per mantenere il contatto visivo con lui.

"Dico davvero, sai? Siete una terra retrograda, eppure sembrate voi quelli a possedere di più."

A livello naturalistico, la Norvegia avrebbe battuto chiunque altro.

Avevano dovuto abbandonare la natura per evolversi, migliorare, e forse solo ora se ne sentiva dispiaciuta.

Sin l'aveva vista abbassare lo sguardo mentre pensava a chissà quale sciocchezza umana, tornando a guardarlo solo qualche secondo dopo.

Due minuti e sarebbero arrivati alla fine del percorso.

Aveva mosso le labbra, lui, mimando la parola retrogada senza che dalle sue labbra uscisse un singolo suono.

Quindi aveva scosso la testa, sentendosi in disaccordo con lei.

La Norvegia era indietro solo da un punto di vista tecnico, ma per il resto primeggiavano.

Ne era sicuro non perché fosse particolarmente attaccato a quel popolo, ma proprio perché poteva osservare gli umani di tutto il mondo.

A livello spirituale, i norvegesi erano decisamente più puliti e candidi degli altri.

L'anima stessa di Raven era macchiata di nero, qua e la.

Sin poteva vedere i chakra di chiunque e, a seconda della loro apertura o chiusura, li giudicava.

La ragazza, ad esempio, aveva il quarto chakra, quello del cuore che veniva chiamato Anahata, tremendamente chiuso.

La sigillazione di questo punto precludeva l'amore verso sé stessi e gli altri, causando diffidenza e apatia nella persona.

Sin aveva quindi guardato i restanti chakra della ragazza, trovandoli pressoché normali e ben funzionanti.

Questo escludendo il sesto, quello del terzo occhio situato tra le sopracciglia scure di lei, che pareva bloccato proprio come quello del cuore.

Il dio non se ne era sentito troppo sorpreso, quello simboleggiava solo la chiusura dell'umana.

Quasi tutti, in realtà, possedevano il penultimo chakra chiuso. Come era un umano con l'Anja, il denominativo del preziosissimo chakra, chiuso?

Ebbene diveniva diffidende, cinico, calcolatore e freddo. Non sapeva quanto quella realtà potesse stare a pennello con la figura di Raven, ma non gli importava.

Qualche altro passo, dunque, e Sin si era fermato, facendole segno col mento di avanzare; lui non avrebbe proseguito oltre.

"Beh, incontrati non è stato esattamente un piacere," aveva iniziato lei, sorridendo, "ma l'ho trovato decisamente...diverso, ecco."

Il dio si era chiesto per quanto ancora avesse in mente di sorridergli, mostrandogli quei suoi candidi denti che, millenni prima, le sarebbe stati utili solo per dilaniare l'altrui pelle.

Se l'era immaginata affondare i canini nel collo di un umano, strappandogli le carni e dipingendosi le guance di un adorabile rosa.

L'aveva trovata bellissima.

Si era leccato le labbra, voltandosi nuovamente verso il fitto del bosco. Non importava, se tutto fisse andato per il verso giusto, non l'avrebbe più rivista.

Oh, quanto si sbagliava.

Era stato scelto.

Lui avrebbe portato un dono a Sin, al dio senza lingua che tutti pregavano e adoravano.

Lui, lui e nessun altro.

Si era sfregato le mani formicolanti, pensando al da fare. Doveva scegliere un regalo degno di un dio, qualcosa che avrebbe fatto tremare la Terra e il Cielo tutto in una volta.

Ma non esisteva nulla di simile, nel regno umano. Nulla di stupefacente e all'altezza di Sin che, a parer suo, meritava molto più di un'insulsa pelliccia o di un capretto sgozzato.

Di interessante, in quest'ultimo, vi era solo il sangue: rosso e denso, in contrasto con la costante patina di neve.

Contrasto, a lui serviva un contrasto. Qualcosa che in Norvegia nessuno avrebbe mai possedutoo trovato.

Un oggetto al quale nessuno avrebbe mai pensato ma che tutti avrebbero voluto una volta visto.

Esisteva qualcosa del genere? Non ne era sicuro, ma doveva comunque sia cercare e farlo suo.

Si era massaggiato il mento, pensieroso. Che senso aveva esser scelto, se poi Sin non avrebbe rammentato né lui né il suo regalo?

Doveva lasciare il segno, distinguersi, e per farlo doveva ingegnarsi.

Avrebbe potuto scuoiare viva una bestia, una qualunque, e consegnarne la pelle-niente pelo, solo pelle- al dio.

Aveva immaginato lo sdridere della lama e poi il rumore soffice dei denti di quest'ultima contro la pelle soffice di una lepre.

Per dilaniarla ci sarebbe voluto poco, ma l'idea lo aveva subito annoiato. Doveva dare atto di forza e uccidere un qualcosa di tanto piccolo avrebbe dimostrato il contrario.

Un orso, magari, avrebbe fatto al caso suo.

Però avrebbe rischiato di rimetterci la pelle e, a quel punto, il ruolo di prediletto sarebbe toccato a un altro.

Non avrebbe mai permesso una cosa simile.

Più rimuginava sul da farsi e più i suoi piani gli parevano stupidi, deboli, umani.
Lui poteva essere un dio, forse lo era già, doveva solo dimostrarlo a Sin.

Magari lo avrebbe preso sotto la sua ala, acconsentendo a farsi servire.

L'uomo, dopotutto, non poteva desiderare compito migliore.

Aveva sempre provato un interesse patologico, ossessivo, verso la divinità che regnava incontrastata su quel luogo.

Da bambino, quella era stata la sua favola preferita: Sin, il dio maledetto e non voluto, senza lingua e senza umanità.

Si, lui era proprio come Sin: non voluto e inumano.

Aveva sentito il vociare dei concittadini e se ne era sentito infastidito. Li odiava, li odiava tutti, e nessuno di loro sarebbe mai stato in grado di capire quanto geniale fosse.

Lo sottovalutavano troppo, dandolo per scontato e pensando a lui come a un inutile inetto, traditore della patria.

Ma lui era molto di più, o meglio: lui sarebbe diventato molto di più. Un dio senza misericordia, ecco a cosa puntava.

Poi aveva alzato lo sguardo e improvvisamente aveva capito. Il dono per Sin gli si era parato proprio davanti, mostrandosi a lui volontariamente.

Era un segno del destino, quello, e se non lo era allora avrebbe finto che fosse così.

Due pozze scure, catrame e caos in due luoghi distinti ma uguali. Ombre scure a coprire le due sfere e lo scintillio del Sole a illuminarli.

Non importava quanta luce vi fosse, però, perché quelle due pozze rimanevano ostinatamente nere e opache, piene ma vuote.

Erano gocce di veleno e boccette di ambrosia, miele immerso nell'inchiostro e alghe cupe, pericolose.

Due occhi, quelli erano due sfere senza colore, solo ombra e buio, che per lui rappresentavano molto altro.

Aveva trovato un dono, il dono, perfetto.

Li aveva già visti quegli occhi, quella ragazza, ma mai aveva pensato di usarli.

Lei ne sarebbe stata felice, no? Avrebbe avuto la possibilità di far parte del suo piano, della sua ascesa verso gli dei, e gli sarebbe stata riconoscente.

Oh, magari l'avrebbe persino amato, baciandogli le tempie e ringraziandolo d'averla presa con sé.

Peccato, però, che senz'occhi non sarebbe stata in grado di vederlo divenire un essere superiore, potente e inarrestabile.

Poco contava, comunque sia, perché lui non aveva bisogno di nessuno. Avrebbe preso quelle due pozze nere e le avrebbe riempite di lumini, pulendole da un sangue troppo umano per toccarli.

Raven aveva qualcosa che, in quanto piccola e misera, non avrebbe dovuto possedere e lui, misericordioso uomo pronto ad innalzarsi verso il mondo divino, si sarebbe premurato di strapparglielo via.

Le aveva sorriso, ricevendo un piccolo cenno della testa. Quindi l'aveva osservata muoversi per la città, ormai fuori dalla foresta, e dirigersi verso casa.

Guardandola aveva notato quanto in ansia sembrasse mentre freneticamente guardava da una parte all'altra, mordicchiandosi le labbra screpolate.

Lui aveva sorriso, quindi, scuotendo la testa.

Non aveva di che preoccuparsi, Raven, perché lui l'avrebbe seguita fino a casa e non avrebbe permesso a nessuno di sfiorarla.

L'onore di rovinarla sarebbe stato suo.

A T T E N Z I O N E

Secondo voi chi è l'uomo misterioso?

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