Io sono colei che fa temere

Questa qui non è una one-shot. O forse sì, ma non è nata per esserlo e quindi per me non lo è. E' un racconto che ho scritto in seguito ad un corso di scrittura creativa che ho frequentato al primo anno di università. L'ho presentato come lavoro finale, ad essere sincera. Ci tengo a precisare una cosa: scrivo SENZA narrare in realtà la storia di nessuno. Ciò che descrivo è visto da un punto di vista ipotetico e spesso usuale dell'emozione chiamata in causa. Per questa ragione siete assolutamente liberi di condividere i vostri pareri pro e contro, di dire la vostra a patto che sia educata e rispettosa nei confronti miei come autrice e degli altri come lettori. Spero ovviamente che vi piaccia :)

Buona lettura!

*****

Vedo un uomo passeggiare in lontananza. Il berretto è fin troppo calato sulle palpebre, rendendo giusto la possibilità di osservare ai propri piedi, la montatura degli occhiali ha incorporata un vetro fin troppo spesso, come se ci volessero mille anni prima di raggiungere il suo sguardo. La barba è folta, incolta e i capelli sono lunghi e gonfi nonostante si nascondano sotto al berretto. Indossa una di quelle felpe poco conosciute che si acquistano ai mercati, di colore nero, sulle gamba cade lento il tessuto grigiastro, elastico e fin troppo largo, di una tuta sgualcita così come sgualcite sono anche le sue scarpe. L'uomo passeggia, o meglio brucia metro dopo metro con passi lenti e molleggianti, e mentre solleva il capo per osservare la linea dell'orizzonte che unisce le due immensità della natura, aldilà della strada che sta percorrendo sul mar Ionio, mentre brividi lungo la schiena gli fanno credere che forse avrebbe dovuto indossare capi più pesanti, non sa che ciò di cui è vestito in realtà sono io. Le luci del tramonto attraversano la sua vista proiettandosi con fili lucenti oltre le sue lenti e gli fanno improvvisamente ricordare tutte le volte in cui aveva già visto una luce simile. L'aveva vista nel suo cuore quando si era accorto di essersi innamorato per la prima volta nella sua vita. Lei era stata la donna dei suoi sogni sin dai tempi in cui si conservavano il posto alle scuole elementari; ricordava ancora quanto il cuore gli diventasse pesante ogni volta che lei si dispiaceva o, peggio, piangeva perché dei piccoli furfanti della stessa classe le dicevano che i capelli color rame e le lentiggini sulle guancie pallide la rendevano diversa da tutti gli altri bambini al punto da farla sembrare malata. Elisabetta era il suo nome e lui amava segretamente il colore del sole al tramonto dei suoi capelli. Elisabetta era cresciuta e col passare degli anni era diventata una donna meravigliosa, infinitamente dolce e sensibile. Aveva mantenuto il temperamento calmo e umile della sua infanzia e non si lasciava tramortire più dalla malizia dei ragazzi o da qualche battuta poco carina. Aveva imparato a crescere, ad essere sicura di sé, a controllare la paura. Lui si era accorto subito del suo cambiamento, un pomeriggio d'inverno quando l'aveva rivista dopo sei anni mentre se ne stava in fila alla cassa nella caffetteria dove lui soleva andare. Si era offerto di pagarle qualunque cosa avesse preso e gli era bastato guardarla nell'oceano dei suoi occhi per rendersi conto che la sua Elisabetta era ancora lì, con la stessa fragilità di sempre ora ben celata. Si rivide in lei, esattamente come quando era un bambino, e si promise che l'avrebbe salvata dall'incertezza una volta per tutte. Si promise che lui sarebbe stato il motivo per il quale lei avrebbe camminato a testa alta per le strade, il motivo per cui avrebbe sorriso di più e pianto di meno, il motivo per cui avrebbe visto, dopo una vita intera, la sua pelle lattea e i suoi capelli rossi come un dono di Dio e non come un errore della natura da nascondere. Si promise che le avrebbe straripato la paura dal cuore e tentò, tentò con tutte le sue forze di farcela.

Ma non ci riuscì.

Non la baciò quando avrebbe dovuto, non la accarezzò quando avrebbe dovuto, non le disse di amarla quanto sentì che era il momento giusto di farlo, non le strinse la mano quando la sua pendeva sul fianco semi aperta e fredda. La cosa peggiore che fece, poi, fu di nascondere ogni briciola di sentimento per lei alla perfezione. All'inizio temette che lei non potesse mai interessarsi a uno come lui, poi, col passare del tempo insieme, lesse nei suoi occhi la speranza di essere corrisposta e tuttavia non si mosse per rassicurarla. Io fui con lui per tutto il tempo, in disparte e contemporaneamente esposta quanto bastava per dirigere il corso delle cose. Intervenni solo alla fine, quando lui si accorse che Elisabetta aveva la speranza spenta negli occhi e il cuore in attesa di aprirsi per qualcun altro. Quando questo accadde, fu mia premura badare bene che lui restasse immobile ad osservare e incassare il colpo.

Perse Elisabetta, ma la cosa peggiore fu che perse la speranza e spense con le sue stesse mani quella luce iniziale.

Il ricordo si spense e si rese conto di aver arrestato i suoi passi. Lanciò un'occhiata al mare e realizzò che il tramonto era cessato e il cielo si apprestava a tingersi dello stesso colore di cui era ormai ricolmo interamente se stesso, nessun organo escluso. Soffiò una brezza leggera e trasportò con sé le note di una melodia che colpì i suoi timpani come un fulmine a ciel sereno. Guardò in direzione del suono e si ritrovò ad osservare un uomo dai capelli bianchi che, con passo tremolante, si accingeva a suonare un'altra melodia premendo le dita storte sui tasti bianchi. Se ne stava seduto su una seggiola di legno, in disparte sulla strada, e di fronte a sé teneva una seconda seggiola con sopra una tastiera vecchia e carica di esperienze, ma tuttavia ancora perfettamente in grado di produrre note meravigliose. Non volle continuare il suo cammino. Piuttosto si mise ad osservare l'anziano mentre suonava e rimase lì, con le braccia incrociate al petto, il berretto sempre più basso sugli occhi e la vita che gli scorreva davanti.

Si ricordò di quando aveva soli vent'anni, un futuro incerto tra le mani e un'immensa passione per la musica e in particolar modo per il pianoforte. I suoi genitori si diedero da fare con le unghie e con i denti per iscriverlo in un conservatorio prestigioso e dargli ogni possibilità di eccellere nel campo. Studiò come se non riuscisse a fare altro nella vita, si limitò nei divertimenti, si adoperò con coscienza per aiutare i poveri genitori a gestire la fattoria di famiglia quando aveva il tempo per farlo e imparò a suonare il pianoforte come se la conoscenza del linguaggio l'avesse trasmessa tutta tra le dita. I suoi amici dicevano sempre che per fidarsi delle sue parole era necessario sentirlo suonare. Solo così sarebbe venuta a galla la realtà della sua anima e la conferma o no delle sue parole. Quando compì venticinque anni, arrivò il momento in cui la semplice passione avrebbe potuto tramutarsi nel mestiere di una vita. Gli offrirono la prestigiosa possibilità di esibirsi di fronte alla schiera dei giudici più famosi a livello mondiale, di sottoporsi al loro giudizio e all'eventualità di ricevere un'ingente borsa di studio, partire per l'estero e inoltrarsi nel mondo della musica vera con l'ampia occasione di diventare qualcuno e lasciare un segno nella storia della musica.

Si guardò le mani un attimo prima di entrare in scena. Con il cuore scalpitante e le gambe molleggianti si disse che quelle dita lunghe e affusolate non l'avrebbero di certo tradito in quel momento, che la sua anima e il modo di rapportarsi con la musica non avrebbero spezzato il legame proprio in quella esibizione. Si disse che aveva già perso Elisabetta e che era bastato, che era un uomo con un'enorme fortuna e che poteva farcela. Si disse che la vita sembra lunga, eppure diventa così irrimediabilmente breve quando in pochi minuti bisogna giocarsi tutto che non è possibile dubitare neanche di uno di questi preziosi istanti. Come ultima cosa, si disse che avrebbe salito quelle scale e suonato su quel palco. E sarebbe andata davvero così se solo io non avessi deciso di intervenire. Stavo per essere sconfitta e mai l'avrei permesso. Resi la stanza troppo grande, le luci troppo accecanti. Resi ogni passo un balzo al cuore, le mani tremolanti come mai avevo fatto. Resi l'anima spenta, il cuore in subbuglio, il respiro corto. Resi il pianoforte un mostro nero dai denti bianchi che lo avrebbero morso al primo tocco, le facce dei giudici tanti lampeggianti con su scritto "Non hai speranza". Resi ogni pensiero doloroso e oscuro, la sua stima invisibile e la sua iniziale sicurezza una nullità. Resi la sua mente il posto perfetto per costruirne un'altra a modo mio. Quando i suoi passi retrocedettero e la sua grande occasione si frantumò nell'aria come polvere, considerai il mio intervento finito e la mia missione riuscita.

Anche in quel caso, constatò mentre l'anziano signore concludeva la sua sinfonia sulla tastiera, aveva visto una luce e l'aveva spenta con le sue mani. Anche in quel caso, constatò, aveva spento la speranza.

Il vento portò via la musica così come l'aveva accompagnata e lo invitò a riprendere il cammino. Camminò fino alla vecchia chiesa del paese e si ritrovò ad osservare una graziosa bambina mentre mangiava un gelato. Qualcuno le prese all'improvviso la piccola manina e la vece volteggiare così forte da farle sporcare la gonna rosa. Sul suo piccolo viso si dipinse una smorfia triste, ma quando l'uomo che presuppose fosse il padre si chinò alla sua altezza e la rassicurò con un sorriso paterno, lei gli gettò le braccia al collo e tornò ad immergersi nell'allegria.

Arrestò di nuovo i suoi passi e chiuse gli occhi, lasciando scivolar via una lacrima che non mi preoccupai di fermare. Dopotutto, è il prezzo da pagare quando si è incapaci di gestirmi.

Mentre osservava quel meraviglioso abbraccio di fronte a sé, la sua mente volò al proprio padre in punto di morte. Aveva passato la vita a mantenerlo, lavorando sodo. Aveva cercato in ogni modo possibile di convincerlo a credere in lui, a suonare per lui, ad amarsi, ma aveva fallito miseramente. E non perché non fosse riuscito ad entrare con le sue parole nel cuore del figlio, ma solo perchè questo è sempre stato il posto in cui io risiedo e nessuno l'ha mai saputo. Si rivide nel momento in cui si avvicinò al suo capezzale e gli prese una mano con l'iniziale tentativo di dirgli che gli voleva un bene incommensurabile. Non avrebbe dovuto parlare molto, si disse. Avrebbe solo dovuto pronunciare le famose tre parole che a volte non basta neanche un'intera vita per farle uscire. Guardò il padre morente, che tuttavia gli sorrideva, schiuse le labbra e inspirò l'ossigeno necessario per far funzionare le sue corde vocali un attimo prima che intervenissi io. Resi immediatamente le parole troppo lunghe e troppo intense, così forti da risultare quasi vergognose e vinsi. Ancora.

Richiuse le labbra e scelse di abbracciarlo semplicemente, sperando di compiere un atto che eguagliasse la sua primaria intenzione. Ma non fu così e lo seppe subito, tuttavia non poté mai più tornare indietro. Da quel momento fino a ora, ora che osservava il padre e sua figlia, si chiese come si sarebbe sentito se avesse detto al proprio padre di amarlo invece di tenere quella stramaledetta bocca chiusa e limitarsi a un abbraccio.

Come spinto da un impulso improvviso, si avvicinò ai protagonisti della scena che le stava smuovendo i ricordi.

«Diglielo», mormorò. La giovane piccola sciolse l'abbraccio e guardò l'uomo, avendo l'impressione che fosse un barbone cattivo.

«Che cosa?», gli chiese con la sua voce dolce. Il padre si parò di fronte la piccola e guardò torvo l'uomo.

«Se ne vada e la smetta di spaventare mia figlia». Dagli spessi occhiali lui lo guardò e non scaturì offesa da quelle parole. Probabilmente veniva paragonato a un barbone dai passanti, ma poco gli importava. Che cosa gli era rimasto da vivere in quella vita? Per chi, soprattutto, viveva?

«"Ti voglio bene, papà"», sussurrò. Sia l'uomo che la piccola rimasero in silenzio. Poi lei uscì da dietro il padre e andò incontro a lui per afferrargli la mano.

«Il mio papà lo sa e anche il tuo. Io non ho paura». Non seppe che cosa replicare. Guardò il padre trascinare via la figlia mentre lei continuava ad osservarlo e a sorridergli con occhi carichi di compassione.

Io non ho paura.

Io non ho paura.

Io non ho paura.

La frase rimbombò nella sua mente come il battere continuo dei tamburi. Continuò a camminare senza smettere un secondo di pensare a ciò che aveva avuto il coraggio di fare quell'innocente creatura e si chiese per quale ragione si era sentito come se quelle parole gli avessero trafitto il cuore per poi riportarglielo in vita. Oltrepassò la chiesa e camminò fino a raggiungere le scale che lo avrebbero condotto in prossimità della costa ionica. A ogni passo gli sembrò di risentire il proprio sangue circolare nelle vene. Ad un tratto, mentre scendeva i gradini diretto verso una meta che non conosceva, si accorse che il mare aveva un suono, che il cielo aveva un colore, che il vento aveva una consistenza e che l'aria aveva un profumo. Raggiunse la riva del mare e si tolse le scarpe, scoprendo che i piedi potevano sentire l'acqua e che la sua eccessiva freddezza poteva farlo rabbrividire.

Io non ho paura.

Scoprì improvvisamente che aveva voglia di tuffarsi nel blu, che sentiva il bisogno di sentire. Si spogliò dei suoi abiti, si spogliò di me e glielo lasciai fare. Sarebbe stato temporaneo, lo sapevamo entrambi, ma dopotutto io ci sono sempre. E' solo una questione di prospettiva.

Mentre i passi spingevano il suo corpo sempre più giù nel mare, si scoprì capace di piangere e ridere nello stesso momento. Si senti capace di vivere, dopo un'intera vita trascorsa nella morte.

Io non ho paura.

Si immerse completamente nell'acqua, trattenne il respiro e chiuse gli occhi. Capì che se fino a quel momento aveva lasciato che la vita gli scorresse davanti e che restasse incastrato negli errori del passato, d'ora in poi tutto ciò avrebbe cessato di esistere. Realizzò che la vita non finisce fin quando il cuore batte ancora e che tutto il resto dipende solo e soltanto da noi. Realizzò che avrebbe amato ancora, che avrebbe sperato ancora, che avrebbe visto la luce ancora per altre infinite volte e non l'avrebbe mai più spenta. Realizzò e si promise che d'ora in avanti avrebbe rischiato di fallire senza sentirsi un fallito a priori, che avrebbe sfidato la paura sempre e che mai mi avrebbe più permesso di vincere senza prima aver terminato il suo round.

Disse mentalmente a suo padre, in qualunque posto egli fosse, che lo aveva sempre amato e che avrebbe continuato a farlo senza mai smettere. Si promise di non privarsi mai più di ridere quando ne avrebbe avuto bisogno, di parlare quando ne avrebbe avuto bisogno, di esprimere i propri sentimenti ad alta voce quando ne avrebbe avuto bisogno.

Si promise che quando sarebbe uscito dal mare, sarebbe stato un uomo nuovo.

Io non ho paura, si ripeté un'ultima volta prima di tornare e si promise di lottare. Sempre.

Volete sapere per quale ragione ho lasciato che parlasse con quella bambina? Perché io non sono invincibile, anzi. Vi dirò che posso essere battuta con così tanta facilità da farvi sentire degli stupidi per non averlo ancora fatto. Il segreto è uno solo e sta nel lottare.

La lotta non è solo quella che abbiamo appreso dai libri di storia o quella competitiva degli sport. La lotta è intrinseca nella nostra esistenza, nel nostro essere umani. Dal momento in cui ci tirano fuori dal grembo materno iniziamo a lottare, proprio come riuscire a piangere per la prima volta nella nostra vita. La tristezza si appropria della nostra mente quando smettiamo di lottare per essere felici, la rabbia si appropria della nostra mente e del nostro corpo quando smettiamo di lottare per restare calmi, il dolore si appropria della nostra anima quando smettiamo di lottare per trovare quel minuscolo e insensato ma fortunatamente esistente appiglio di serenità.

Non dirò il nome dell'uomo al quale ho reso la vita difficile solo perché, in una maniera ben più semplice di quella che possa sembrare, lui è per me sinonimo di ogni essere umano presente sulla faccia della Terra, sebbene molti riescano a gestirmi, fortunatamente, in maniera molto meno patologica.

Chiamatemi come volete, ora. Paura, fobia, terrore, incertezza, insicurezza... Datemi tutti gli appellativi che ritenete migliori e tuttavia sappiate che io rimango comunque colei che fa temere.

Non posso scomparire, poiché una persona che non conosce la paura non riuscirebbe a sopravvivere, ma posso smettere di essere la regina delle vostre menti se solo riusciste a lottare contro di me proprio come un neonato lotta contro il mondo intero per compiere il suo primo respiro.

Lui, alla fine, ci riesce.

aJ,3

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