Capitolo 1.
«È molto taaardi per prendere la metro, ragazza.»
Il cielo era scuro, illuminato solo da qualche stella. La stazione era molto silenziosa, eccetto per qualche barbone ubriaco che ogni tanto tossiva. O che mi parlava. E io ero sola.
«Ragazza, mi seeenti?» si avvicinò un po' troppo a me. Feci un passo indietro. Non risposi.
Ci mancava solo questa.
«Dove vai di beeello, eh?»
Okay, un paio di minuti e sarebbe arrivata la metro. Dovevo solo rimanere tranquilla. Presi le cuffie ma non feci partire la musica. Volevo solo far capire che ero impegnata a fare altro.
Mentre ero indaffarata con il filo, quell'uomo sporco e viscido mi prese il polso e mi strattonò.
«Lasciami stare!» urlai. «Non toccarmi o...o chiamo la polizia!»
«Ah si?» l'uomo stringeva sempre più forte il mio polso, di cui avevo quasi perso sensibilità.
Urlai aiuto, ma ero sola in quella stazione. Del resto erano le due di notte di un martedì sera.
Cosa ci facevo in una stazione dimenticata dal mondo, alle due di notte di un giorno infrasettimanale?
Avevo appena smontato da lavoro.
Che lavoro facevo?
La donna delle pulizie in un triste bar di periferia, non di quelli popolari che straripano di ragazzi. No, quei bar dove vanno solo i nonnini la mattina a bere il caffè e qualche depresso la sera a bere qualche bicchiere di troppo.
Ma nonostante nessuno andasse in quel bar, il mio capo si ostinava a farmi stare lì fino all'1:30 di notte. «Qualcuno passerà, ne sono sicuro.»
E quindi mi toccava stare li, tre sere a settimana, a pulire i bagni che nessuno usava e ad asciugare il vomito di quei poveretti che alzavano troppo il gomito.
Ovviamente non sono mai stata capace di ribellarmi al mio capo. La mia testa pensava in grande, si immaginava tutte le scene, ma la mia bocca non rispondeva ai comandi.
«Essere timidi non è poi così male, Haley.» mi diceva sempre mia nonna. Ma lei non sapeva davvero cosa volesse dire essere timidi. Cosa volesse dire avere paura della propria ombra, della propria voce.
E così ogni volta mi ritrovavo ad annuire svogliata, senza realmente ascoltare tutti quelli che lei considerava consigli per affrontare al meglio questa adolescenza che, giorno dopo giorno, sembrava escludermi sempre di più dalla sua cerchia di eletti. O semplicemente da tutti gli altri ragazzi normali della mia età.
Normali.
Che parola strana. Chi ha deciso quale fosse il suo significato?
Chi ha stabilito a che limiti si spinge l'essere normale?
Perché di certo io in quei limiti non rientravo, ma non mi spiegavo nemmeno cosa avessi fatto di male per non rientrarci.
Del resto, frequentavo la scuola, avevo ottimi voti, una famiglia che mi voleva bene e un lavoro. Certo, non dei migliori, ma almeno mi guadagnavo da vivere.
Ma Haley Lancaster aveva sempre fatto fatica ad ambientarsi nelle classi nuove, ad entrare a far parte di un gruppo diverso da Ronnie, la sua amica, l'unica, che conosceva da quando era alta poco più di un metro.
Ronnie era la classica ragazza popolare. Sempre alla moda, ricercata da tutti, odiata da molti. Ma a lei cosa importava? Nulla. Lei si faceva sempre scivolare addosso tutto quello che le capitava, come fosse impermeabile.
Io le sono sempre stata dietro come un cagnolino, una servetta, se vogliamo girare il dito nella piaga.
Ero accecata dalla sua capacità di volgere sempre tutto a suo favore, di cavarsela sempre. Ma soprattutto dalla sua capacità di essere se stessa.
Io non ne ero mai stata capace, venivo assorbita dalla sua luce, e non riuscivo mai a brillare da sola. Infatti nessuno si è mai accorto di me.
Questa era Haley Lancaster.
«Metro in arrivo al binario uno, prego, allontanarsi dalla linea gialla.»
Grazie a Dio.
Mi divincolai dalla stretta ossuta della mano di quell'uomo disperato, ubriaco e corsi verso la linea gialla.
La pestai con la punta del piede, come avessi paura di rovinarla.
Chissà cosa si prova a finire di sotto.
Poi arrivò la metro e vi entrai.
Fortunatamente, non ci pensai mai più.
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