4 ottobre

» Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» prompt: filo
» rating: giallo
» parole: 1216


Sabaudia, Italia


L'atmosfera sul mare sembrava irreale.

Il Sole appariva il doppio della sua normale circonferenza, gonfio e opaco dietro a un vasto velo di nubi, un foulard teso sotto la volta del cielo.

Ludo e Vince scorrazzavano come cagnetti randagi. Si infarinavano in mezzo alle dune della spiaggia, per poi rituffarsi fra le onde schiumate. I loro corpi leggeri, sottili e fondenti di abbronzatura, riemersero annaspando in quel tratto d'insenatura costiera. Fradici, guardarono in direzione del sovrastante piccolo promontorio di Torre Paola.

«Ci arrampichiamo? Così esploriamo le casette abbandonate. Pensavo di fare il gioco del telefono» propose Ludo, e Vince lo guardò, certo che avesse detto la cosa più geniale della giornata.

Schizzarono sulla battigia, recuperando i ragnetti di silicone inzaccherati di sabbia. Li sistemarono ai piedi, presero gli zainetti e iniziarono a camminare in direzione della Torre, una bassissima costruzione antica e ristrutturata talmente tanto e male da sembrare ancora più monca e fatiscente. Nessuno li avrebbe seguiti. I loro genitori erano troppo impegnati a fare salotto in un bar del posto, diverse centinaia di metri da loro, sul lungomare.

«Occhio ai cactus» disse Vince, tendendo la manina all'amico appresso a lui. Ludo la rifiutò, per una questione di puerile senso virile.

Si inerpicarono per un breve tratto vegetato. Torre Paola guardava l'orizzonte, in cima a quella bassa collina prominente sul mare. Dietro di essa, in mezzo alla fitta vegetazione del promontorio, sorgevano le villette abusive del dopoguerra. Negli anni '50, Torre Paola era stata un teatro di famiglie ricche, da copertina, che avevano costruito e villeggiato in quel verde a due passi dalla spiaggia.

Tutto abusivo.

Neanche dieci anni dopo, i rispettivi proprietari avevano dovuto smontare baracca e burattini, smantellare tutto, lasciare solo gli scheletri di quelle case mancate.

Per Ludo e Vince era triste, sì, ma anche eccitante. Sentivano d'avere il diritto di visitare quelle costruzioni sventrate, muoversi tra calcinacci e pericolosi resti di tossici e sciacalli. Avevano solo nove anni, nessun senso del rischio e dell'igiene.

A nove anni venivano spesso abbandonati a loro stessi, a volte per intere giornate. In vacanza, le famiglie di Ludo e Vince non si curavano minimamente dei loro bambini. Erano liberi, troppo liberi, costantemente nudi di fronte ai mali del mondo.

«Quelle due in fondo, le vedi? Sono costruite vicine. Lì è perfetto per giocare» Ludo indicava due casette quadrate immerse nei rovi.

Vince non ci pensò due volte e iniziò a istruire l'altro, dicendo: «Io mi metto a quella di destra, tu a quella di sinistra. Okay?»

«Okay.»

Cicale assordanti e grida di gabbiani lontani accompagnavano la loro sortita. Quel cielo onirico avvolgeva gli intenti, senza risparmiare loro l'afa di luglio.

Prima di superare le rispettive soglie invase da edere e cemento scrostato, franato e profanato, i due iniziarono a tirare fuori il materiale necessario.

«Avevi solo questi, di barattoli? Sono piccoli.»

«Vanno bene. Ci sono già i buchi,» ribatté Vince «mettiamo il filo e abbiamo fatto.»

I due cilindri di alluminio furono connessi alle estremità, e l'attrezzo fu portato dentro. Ludo si mise alla finestra che s'affacciava proprio di fronte alla gemella dell'altra casetta e passò l'altra estremità a Vince, che, da fuori, la trasportò e si posizionò allo stesso modo.

Avevano visto quel gioco su un vecchissimo libro di Fai-da-te per l'infanzia. Si aspettavano di riuscire a comunicare tra loro parlando e ascoltando nel barattolo, anche se erano distanti una decina di metri e quel filo, anziché essere di metallo conduttore, era di grezza lana.

Avevano perso il contatto visivo. Le finestre erano malmesse e parzialmente sprangate da assi e pericolosi vetri affumicati. Vince fu il primo a tentare, infilando la bocca nel barattolino, parlò piano: «Lu, mi senti?»

Nessuna risposta. Vince riprovò, ma poi dovette chiamarlo a gran voce. L'amico gli rispose urlando allo stesso modo.

«Niente, non funziona! Lo sapevo, quel libro è una cavolata!»

«Uffa, riproviamo!» strillò Vince di rimando, per poi tastarsi un attimo la vescica. «Ops, devo fare la pipì» annunciò.

Nel frattempo, Ludo era in piedi alla postazione. Aumentò la tensione del filo, cercò uno spiraglio di luce per sistemare il nodo dentro al barattolo, essendo immerso nel buio della struttura in rovina. Fece un nuovo tentativo.

«Vince? Mi senti?»

«Ludo?»

«Sì, daje! Funziona!» Ludo gioì in romanesco. Aveva sentito chiaramente la voce nell'orecchio, una volta infilato per bene dentro al barattolo. Dovette ricredersi sul libro della nonna. «Allora, che gioco facciamo? Ci inventiamo storie sulle case?» propose, contento. Sapeva che l'altro sarebbe stato d'accordo, come sempre.

«Ti posso dire che io, una volta, vivevo qua. Questa casa l'ha costruita il mio papà con le sue mani, sai. Era bravo. Sapeva costruire anche gli aereoplanini di legno.»

Ludo annuì sorridendo, complice del nuovo personaggio in cui si era calato Vince. «E che facevi di bello? Avevi tanti giocattoli?»

«Tanti, sì. Eravamo ricchi, sai. Venivo qua in vacanza con mamma e papà. Venivano anche alcuni amici di papà a trovarci. Uno di loro aveva un bar, ed era cattivo, sai? Mi dava fastidio, e io volevo... volevo essere forte come un robot gigante, per sparargli addosso raggi laser e ammazzarlo. Ma non potevo. Potevo immaginarmi di tutto, ma, sai, alla fine ero solo un bambino. I miei genitori non mi credevano, mi lasciavano sempre solo con lui. Poi, una sera, è successo.»

«Successo cosa?» Ludo rimase in attesa. Quella storia lo interessava, era fiero dell'immaginazione narrativa dell'altro. Si fissò le unghie sporche della manina sinistra, finché non sollecitò l'amico. «Vince? Allora?»

«Ludo, l'uomo del bar. Quello che ti regala i gelati. È lui, l'uomo cattivo che mi dava fastidio.»

«Oh, davvero, Vince?»

«Mi chiamo Tobia.»

«Tobia, okay! Scusa» ridacchiò Ludo, «che dicevi?»

«È un uomo cattivo. Tocca i bambini.»

Ludo batté le palpebre, facendo perdere gli occhi blu nel vuoto. «Che significa? Ma che cavolo di storia è?» chiese, con un filo di voce.

«Fa male. L'uomo del bar vuole toccare anche te. Stai attento, Ludo. Non ci andare più. Scappa. Stai attento.»

Il filo rosso smise di vibrare.

«Va bene, toppa! Toppa.» Ludo urlò all'amico la parola d'ordine per l'interruzione del gioco. Mezzo infastidito e deluso dalla strana narrazione di Vince, buttò a terra il barattolo e uscì dalla villetta.

Trovò il suo amico in una posizione che non si aspettava.

Vince era con un piede sulla soglia, come se stesse per rientrare. Con le mani si aggiustava la mutanda del costumino e guardava Ludo, interrogativo.

«Vince, la cosa dell'uomo del bar... Te la sei inventata o è vero?»

«Eh? L'uomo del bar? Cos'è?»

Ludo lo fissò, spazientito. Andò a recuperare il filo rosso e lo agitò in faccia all'amico. «La storia che mi hai raccontato un attimo fa, Vin. Ho i brividi!»

Vince si alterò. «Ma di che parli, Lu? Io ti ho detto che dovevo fare pipì, sono tornato adesso! Che stavi facendo?»

«Vince, dimmi la verità, sono serio.»

«Io, io... Ludo, stai scherzando, vero? Dimmi che scherzi. Il filo... il filo non funzionava e me ne sono andato a pisciare!» urlò e balbettò, impallidito. «Io non ti ho detto proprio niente, ero in quel cespuglio laggiù! Che t'inventi?»

Ludo ammutolì, perché Vince aveva iniziato a piangere di paura. Ludo capì che Vince era sincero. Capirono che anche Tobia, il bambino aldilà del filo, era stato sincero.

I due corsero via, in preda all'orrore.

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