30 ottobre

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» prompt: incanto
» rating: verde
» parole: 1033




Ftia, Tessaglia

I raggi accecanti del mattino battevano sui corpi oliati degli addetti ai lavori.

Stallieri, scalpellini, manovali e gli stessi soldati del re, nonostante fossero fuori servizio, contribuivano all'allestimento dell'area ludica. I cavalli sbuffavano impazienti e accaldati, stretti dietro ai solidi cancelletti di legno e metallo.

Peleo saltò giù dai gradini, agile come una cavalletta, e si mise a chiacchierare con qualche conoscente, come se il suo rango non esistesse e fosse una persona normale. Per contro, la regina Teti, sua sposa, se ne stava a braccia conserte con sguardo truce. Era una dea; non era fatta per vivere tra gli uomini, odiava Peleo e quella vita mortale che era condannata a frequentare. Ma lo faceva per suo figlio, solo per lui. La luce del sole non riusciva a indugiare sul corpo madreperlaceo di Teti, sembrava trapassarlo, o evitarlo direttamente. Lei che era stata creata per l'oscurità degli abissi.

«Dov'è mio figlio?» chiedeva alle schiave, impaziente.

«Negli spogliatoi, Altissima» rispondeva una, con estrema reverenza e timore. «La gara sta per iniziare.»

Quando Peleo si decise a scrollarsi la polvere via dalle suole, i suoi seppero che era l'inizio. Il re risalì gli spalti, fino a raggiungere la zona riservata e sedere accanto a Teti. Alzò una mano, e tutto tacque.

«Mirmidoni! Siete pronti ad ammirare, per la prima volta, la divinità di mio figlio? Avete idea di quale onore ho in serbo per i vostri occhi? Pensate di essere degni di posare lo sguardo su di lui?»

Un ruggito di acclamazione fece tremare la terra. I gradoni erano gremiti; uomini e donne che pendevano dalle labbra del "bimbo divino" ancora prima di averlo visto. Se lo immaginavano un po' simile alla madre: bianco come un cadavere, tutto pupille e zanne da squalo. Nulla di più lontano dalla verità.

Quando il figlio di Teti apparve nell'area, la folla perse il fiato.

Aveva solo nove anni, e splendeva come il Sole d'Agosto.

La sua pelle era liscia e lucida come miele d'Acacia, il corpicino aggraziato e flessuoso di puledro era coronato da una chioma di boccoli d'oro, colore rarissimo, per la sua etnia. Gli occhioni verdi spiccavano come gemme preziose su un viso angelico, a testa alta, che trasudava alterigia e nobiltà. Coraggio, soprattutto.

«Achille! Achille! Achille!». L'aria rombava.

Achille guardava tutto, senza guardare realmente nessuno. Le sue iridi erano oltre, libere nella foresta, nei ruscelli limpidi dove non vedeva l'ora di andare a giocare. In quell'occasione, però, avrebbe dovuto compiere il suo primo, vero dovere da principe semidio: dare prova della sua natura.

Tra i mirmidoni, c'erano molti a dubitare. Molti credevano, ragionevolmente, che la profezia fosse solo una farsa per accrescere la gloria di un re minore. Neanche la presenza di Teti aveva placato i più miscredenti, ma ora lì c'era Achille. Solo contro mille occhi affamati di lui, che sembravano scavare nel suo corpicino tenero, da infante benedetto da bellezza e salute.

Achille guardò verso sua madre, stabilendo con lei una connessione. Teti abbassò il capo, in cenno di assenso, senza staccare mai le sue sclere demoniache dal volto grazioso del figlio.

Il più veloce dei cavalli fu liberato nell'arena ormai blindata, avrebbe dovuto correre in tondo per due giri consecutivi. Tutti si aspettavano che Achille, nonostante la precoce età, sarebbe salito in sella e gareggiato con un altro fantino. Invece, la voce ultraterrena di Teti squarciò il velo della realtà.

«Mio figlio correrà più veloce di quella bestia.»

Gli spettatori rimasero a bocca aperta, perché così fu.

Achille corse a piedi nudi; da lontano, sembravano due minuscole schegge solari che fendevano le sabbie della pista. Il cavallo, suo sfidante, si impegnò al massimo per superarlo, ma non ci riuscì.

Tuttavia, a fine corsa, Achille lasciò un bacio sul costato affannato dello splendido stallone.

«Ha gareggiato molto bene» lo apprezzò il Pelide «voglio che sia il mio cavallo.»

I sudditi batterono i piedi, approvando. Anche Peleo gioì, fiero di suo figlio. Balzò giù dal suo podio e raggiunse Achille a grandi falcate, per poi chiedergli: «Allora hai diritto a dargli un nuovo nome. Come vuoi chiamarlo?»

Ancora una volta, Achille stupì le orecchie dei presenti. «Voglio che sia un altro a scegliere il nome.»

Peleo parve contrariato, ma poi strinse le spalle. «E chi?»

«Uno dei miei fratellastri. Quello» alzò la manina e indicò un bambino.

Un bambino insignificante, che se ne stava rannicchiato in un angolo altrettanto dimenticato da tutti.

Magro, bruciato dal sole, vestito di stracci. Era uno dei diseredati che Peleo prendeva con sé, solo per poterli usare, un giorno, nel suo esercito.

Achille alzò il mento per chiamarlo e il coetaneo, miseramente imbarazzato, si avvicinò al vincitore e al cavallo.

Peleo non ricordava neanche il nome del suo figliastro. «Chi sei, tu, giovanotto?»

Il bimbo guardò prima lui, poi Achille, con occhi da cerbiatto. «Patroclo.»

Sentiva le gambine molli, fremere e indebolirsi sotto lo sguardo fatale di Achille, che si impettì, col suo solito fare elegante. «Allora?» squillò. «Patroclo, decidi!»

Patroclo deglutì. Gracchiò qualcosa di incomprensibile, pregando gli dèi di non sottrargli il dono della voce proprio in quel momento. Ritentò.

«In-incanto.»

«Incanto?» aggrottò il re. Guardò Achille, ma non trovò la stessa interdizione. Il Pelide sembrava invece soddisfatto, la chioma dorata che fluttuava nella brezza appena levatasi di mezzogiorno. «Parola articolata, per un bambino piccolo!» continuò Peleo.

«Ho nove anni» precisò Patroclo. Ma ne dimostrava un paio in meno; tra il suo deperimento e lo splendore di Achille non c'era paragone.

«Mi piace, il nome!» trillò di nuovo Achille. Diede una pacca sul fianco del cavallo e si mise dalla parte del suo amichetto.

Più tardi, Achille e Patroclo sguazzavano le gambe nel ruscello di montagna, lì dove piaceva loro avventurarsi e stare un po' da soli.

«Hai dei bei piedi. E delle belle mani» considerò Patroclo, assorto e limpido come le acque in cui era immerso. «Sei proprio tutto bello.»

«Grazie. Lo dice anche mia mamma» confermò il biondino, regalandogli un sorriso mozzafiato. Poi si fece più pensoso e curioso. «Perché hai scelto proprio quel nome, per il mio cavallo? "Incanto"?»

Patroclo si bagnò le esili braccia, pestando il fondale ciottoloso. Dovette fermarsi per rispondere: «Perché è quello che penso...ogni volta che ti guardo.»

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