24 ottobre
» Questa storia partecipa al Writober di Fanwriter.it
» prompt: legno
» rating: rosso
» parole: 582
Curon Venosta, Italia
Devo la mia vita a un pugno di cosine insignificanti: trucioli.
In questo paese maledetto sapevo che, prima o poi, mi sarebbe accaduto qualcosa di osceno. Sentivo l'energia negativa tremolarmi nelle ossa e comprimermi il cuore. Tutti dicevano che se venivi e restavi a Curon, presto o tardi, avresti fatto qualche "incontro del terzo tipo".
Non ricordo come mi ritrovai a casa di quello squilibrato. Avevo bevuto, fumato, o mi avevano fatto bere, o fumare, non lo so. Ero al falò del plenilunio, sulla sponda del lago di Resia e, un vuoto dopo, ero sola con quel mostro.
Casa sua era un letamaio, letteralmente. Una sorta di baracca retta per miracolo da travi affumicate. Un fornello, un materasso spuntato, un armadio e altre cose di prima necessità: tutto era maleodorante a livelli allucinanti. Tutto era ricoperto di sangue e scarti. Scarti di umani, di animali, scarti di cibo che quel verme ingurgitava a ogni ora del giorno e della notte.
Restai due giorni incatenata su un sudicio cartone, come un cane rabbioso. Non sentivo fame, né sete. Ero come anestetizzata, ma cosciente dell'orrore che mi si affastellava intorno.
Non avrei saputo dare un'età al mostro. Era grosso, puzzolente e storto. Un libro che si giudicava dalla copertina. La sua faccia era totalmente nascosta dalla zazzera unta – di qualcosa che non osavo neanche immaginare – e una barba sfatta, di mesi e mesi senza toeletta. Era l'incarnazione dell'aggettivo "disgustoso".
Ero diventata il fottuto pezzo di selvaggina di un cannibale.
Mangiava cadaveri, il bastardo. Gente di Venosta, figli di nessuno, gente dispersa nel bosco o rapita da qualche contesto caotico. La prossima sarei stata io, stava già preparando il bollitore: un enorme catino borbottante, che mi fece pensare a una di quelle vasche piene di soda caustica, che tanto piacciono ai mafiosi.
L'odore del posto mi faceva vomitare di continuo, finché non mi ritrovai con niente nello stomaco. Nel bel mezzo di quel girone infernale, però, c'era in lui uno sprazzo di umanità: il mostro aveva un gatto.
Un gatto che amava perdutamente, più di un figlio. Era la sua creaturina preziosa: un misero gattino spelacchiato che aveva sempre le zampette sporche di sangue e lo sguardo rincretinito. Il mostro nutriva quella bestia regolarmente, tre volte al dì. Avevo appreso che il micio era abbastanza delicato di stomaco, bastava un croccantino in più o un cambio di cibo a farlo stare male – e per il padrone sarebbe stata una tragedia immane.
Poche ore prima di essere cotta, mi misi a raschiare la parete di legno che avevo alle spalle, spezzandomi le unghie. Sangue e trucioli... li mischiai alla dannata pappina nella ciotola del gatto, che avevo proprio a fianco.
Quando quell'antipatica creaturina si mise a lappare il suo cibo, era il momento cruciale, per il cannibale: quello in cui mi toglieva le catene per darmi una botta in testa e sistemarmi a dormire nel catino. Proprio in quell'istante – Dio, è proprio vero il detto "aiutati, che Dio t'aiuta" – il fottuto gatto si sentì male: ebbe un rigurgito e cominciò a sdiarreare in giro, spargendo un puzzo tremendo.
Il mostro si mise le mani in testa e fece per piagnucolare appresso al gatto. Credeva che fossi priva di forze, perché avevo finto di svenire dalla paura.
Mentre era voltato verso la sua bestiola, gli ficcai un lungo chiodo alla base del cranio. Una botta secca col palmo della mano: pam!
E ora sono qui, a raccontarvi questa storia. Lontana anni luce da Curon.
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