Capitolo 1. Lunga vita alle vacanze
Luglio 2020, Londra
Sinceramente non ho mai capito il sistema di istruzione dell'Inghilterra. Finire l'anno scolastico a metà luglio. Con che scopo? Per far morire gli studenti di caldo? Spendere soldi completamente a caso per i condizionatori, che poi non funzionano?
Ecco, io non lo avevo mai capito il governo, praticamente come a stento capivo la mia stessa madre. Bella roba.
Scuola privata. Che schifo.
E perché? Solo per espormi come una specie di trofeo di fronte alle sue amiche noiose quanto il ronzio delle zanzare d'estate, e far vedere che anche la sua amabile figliola non era come i soliti adolescenti del ventunesimo secolo che fumavano chissà cosa dietro i muretti dei parchi.
Fanculo. Fanculo. Fanculo.
Se ci fosse stato accanto a me il signor Nelson, il maggiordomo della mia famiglia, mi avrebbe sicuramente rimproverato dicendomi che le ragazze di un certo livello non dovevano utilizzare le parole scurrili.
Oh, al diavolo.
Comunque, parlando d'altro, Londra in pieno luglio era una vera e propria seccatura.
Lo diceva anche John, e se John si lamenta per qualcosa, allora è qualcosa di serio.
-Ne sei sicura, zuccherino?-, mi domandò il mio amico, tenendo stretto il manico del suo ombrello. Roteai gli occhi, bloccandolo di fronte al semaforo rosso.
-Certo che ne sono sicura, Jo-, sbottai scrollando le spalle. Un gruppo di turisti ci affiancò, tra schiamazzi ed esclamazioni in quello che mi sembrò giapponese. O era cinese?
Che odio i turisti.
-È la volta buona che tua madre ti diseredita-
-Naaa...papà sarà dalla mia parte. Ne sono certa-
Scattó il verde e noi ci affrettammo ad attraversare la strada, per arrivare dall'altra parte. I miei vestiti erano completamente e irrimediabilmente fradici dalla pioggia, mentre sentivo i pantaloncini corti di jeans diventare tutt'uno con la mia pelle. I capelli di John, invece, gli si erano attaccati alla fronte, fino a coprirgli gli occhi, ma fece finta di niente, continuando a inciampare.
Diedi una leggera gomitata al mio amico appena vidi l'entrata del negozio. Il ragazzo affrettò il passo, mentre le nostre scarpe sguazzavano nelle pozzanghere.
Premetti i palmi sul vetro, spingendo la porta. Una campanella suonó. John chiuse l'ombrello, appoggiando contro a un muro.
L'odore di shampoo e tinta per capelli mi investirono subito, e non riuscii a fare a meno di sorridere furba.
Mi guardai intorno. La carta da parati nera era in netto contrasto con le decorazioni dorate e rosse del locale. Il mio sguardo cadde sul teschio scarlatto appoggiato sul tavolo di vetro della cassa. John rabbrividì.
-Sicura che il posto è questo?-, domandò con fare sospetto. Posso giurare di averlo visto fare un passo indietro.
-Senti, Jo. Questo parrucchiere ce l'ha consigliato quella mezza calzetta del tuo ragazzo, quindi taci-, sbottai.
John sgranò gli occhi, rifilandomi un'occhiata truce: -Ehi! Paul non è una...-, ma si interruppe quando una donna comparve dal retrobottega. Aveva piercing ovunque.
Forzammo un sorriso da siamo dei bravi ragazzi, ma lei inarcò un sopracciglio scettica quasi come ci stesse giudicando. Forse lo stava facendo sul serio.
Portai le spalle all'indietro, come avevo visto fare alla mia genitrice piú volte quando voleva dimostrarmi qualcosa, e arrancai verso la cassa.
- Desidera?-, fece lei con fare scocciato.
-Salve. Vorrei fare qualcosa di radicale-, esordii con tutta la sicurezza che poteva avere una quattordicenne americana a Londra.
John Watson a quel punto invocò tutti i santi. Forse non solo loro.
***
-Devo dire che sei proprio una gran figa, zuccherino-, riuscì ad esclamare il mio amico appena uscito dal negozio. La pioggia aveva smesso di scendere, e al suo posto un'afa insopportabile aveva deciso di rompermi le scatole.
Vivevo a Londra da tre anni, e devo dire che la cara vecchia Parigi mi mancava, con la sua raffinatezza e il tempo atmosferico decente. In fondo ci avevo trascorso la maggior parte della mia infanzia, ma avevo cominciato a conoscere la capitale del Regno Unito, e nonostante tutto potevo dire che fosse fantastica.
Mi passai una mano tra i capelli per me insolitamente corti, che ora a malapena arrivavano alle spalle e ridacchai. -Grazie. Vedi che alla fine non era una cattiva idea!-
A quelle parole storse il naso. -Questo dillo ai tuoi-
Tirai fuori il cellulare, solo per sgranare gli occhi e impallidire. In quell'esatto istante si levarono nell'aria gli inconfondibili rintocchi della Torre dell'Orologio, facendomi rabbrividire.
-Oh, oh-, fece John, prima di fare un lungo fischio teatrale.
-Cazzo.-
-Esattamente. Come sempre in ritardo, signorina Irene-, mi canzonó imitando la voce del signor Nelson.
Neanche due minuti dopo mi ritrovai a correre a rotta di collo verso la metro, incespicando nei miei stessi passi. Scendendo le scale come mai avevo fatto nella vita, pensai a come entrare in casa senza che nessuno mi notasse. Cosa scientificamente impossibile, dato che avevo dimenticato le chiavi nello zaino, che stava in camera mia.
Imprecai. Forse arrampicarmi per due piani, fino alla finestra...scartai l'idea. Sicuramente sarei finita con qualche arto rotto.
No, mi toccava suonare alla porta, e pregare che aprisse il nostro fidato maggiordomo di colore. Comunque sí, era il ventunesimo secolo e probabilmente eravamo gli unici ad avere ancora un diamine di maggiordomo di famiglia.
Quando imboccai la strada nella quale c'era la mia abitazione, tutt'altro che umile, mi persi un'attimo ad osservare il viale curato, e alberato lungo il marciapiede. La scelta di quella casa era stata stranamente approvata anche da mia madre, che di Londra non voleva neanche sentire parlare. Per dirla tutta, lei non voleva sentire di niente che non fosse galateo o del té delle cinque con le sue amiche.
Abbassai lo sguardo quando suonai al campanello. Aspettai. Sentii serratura scattare.
Trattenni il respiro.
La porta si aprì lentamente, quasi come se chiunque ci fosse stato dietro volesse aumentare la mia ansia di essere sgridata.
Per fortuna era il caro vecchio Orazio.
-Signorina Irene, le sembra il cas...- si bloccò di colpo, portandosi una mano al cuore. -Che mi venga un colpo-
Dipinsi un sorrisetto malizioso:-Ciao anche a te, Orazio-
-Signorina Irene...oh Dio. Dio-, mi afferrò per una spalla, trascinandomi dentro casa, e prima di chiudere la porta alle mie spalle, lanciò un'occhiata urgente al corridoio.
Mi tolsi la felpa, mentre l'uomo accanto a me si portava una mano sulla faccia. -Mi chiedo, le è andato di vola il cervello, signorina Irene?!-
Dalla sua espressione sembrava che stesse per morire.
Mi sistemai una ciocca di capelli dietro l'orecchio. -Ti piacciono?-
Lui mi lanciò un'occhiata come se fossi impazzita.
-Devo risponderle sinceramente?-
-Oh, Orazio! Come sei noioso!-
-Ne avrà la conferma quando suo padre la vedrà...- guardò ancora la mia chioma radicalmente colorata -...in questo stato-
Come a confermare le sue parole, mio padre comparve sulle scale, completamente tirato a lucido con il suo completo elegante che usava a lavoro. Ci salutò con un sorriso, e quando mi passò davanti, mi diede un leggero buffetto sulla guancia.
-Io li avrei fatti più chiari, peró-, disse scomparendo nel salone. Il mio sorrisetto si allargò ancora di più e il signor Nelson alzò le braccia al cielo, disperato.
-Un covo di pazzi...-, mormoró prima di intimarmi di andare a cambiarmi prima di pranzo.
Io scoppiai a ridere, prima di salire le scale in tutta fretta e chiudermi nella mia stanza con un sorriso strano sulle labbra. Appoggiai l'orecchio contro la porta e aspettai.
Come previsto non ci volle molto, prima che delle grida isteriche cominciarono a farsi sentire da salottino.
-IRENE HA FATTO COSA?!-, strillò mia madre. Qualcosa cadde a terra e si frantumó. Probabilmente una tazzina di porcellana.
-Nulla di che tesoro, ha solamente seguito una moda. Come ogni normale adolescente di oggi- ribatté suo marito con tutta la calma del mondo. In quell'esatto istante gli volli battere cinque, ma pensai che forse non era il caso.
-GLI ADOLESCENTI DI OGGI SI DROGANO, LEOPOLDO. SI DROGANO!-
-Suvvia, Genivieve. Non è successo nulla. Si è tagliata i capelli e poi tinti di viola-, aggiunse. Mia madre tacque.
Non so dire con precisione cosa accadde dopo in salone, ma Orazio mi raccontò che la signora Adler probabilmente ebbe qualcosa di molto vicino ad un'infarto.
Sapevo benissimo che esagerava.
Misi il cellulare in carica, e mi avvicinai all'armadio di fronte al mio letto. Quando feci per aprire le ante, mi bloccai, lanciando un'occhiata ai piedi del comodino.
Una valigia laccata rossa chiusa ermeticamente, giaceva accanto al muro. Inarcai un sopracciglio.
-Orazio!-
Il maggiordomo apparve sull'uscio della stanza neanche un millesimo di secondo dopo, quasi come se fosse stato dietro alla porta tutto il tempo.
-Sí, signorina Irene?-
-Quella valigia...-
-Suo padre ha deciso che è tempo di andare in vacanza-, disse con fare cospiratorio. Spalancai gli occhi, mentre sentivo ogni centimetro della mia pelle essere invaso da una sensazione di euforia incontrollabile.
-Vacanza?!-, esclamai lanciando un piccolo urletto di eccitazione.
-Caraibi, signorina Irene. Ben tre settimane-
E fu allora che cominciai a ridere e abbracciai l'omone con trasporto.
Non sapevo ancora peró, che quelle vacanze mi avrebbero cambiato la vita.
Hola a tuttiii!
Come vi sembra come inizio di una cosa disagiante? A me piuttosto bene.
Comunque sí...John Watson quattordicenne del 2020 sta con Paul. Sí. Quel Paul.
Non so come mi sia venuta quest'idea ahaha.
E il vero divertimento deve solo cominciare.
OPS.
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