Capitolo 4: NOI
- Annie Pov
«Quindi lei e Sherlock Holmes siete solo amici?», mi domanda la donna in camice bianco, per la seconda volta solo dopo quindici minuti dalla prima.
Si tratta di Molly Hooper, la patologa alla quale il consulente investigatore che affianco come saltuaria assistente, si è rivolto per ispezionare un cadavere stato precedentemente vittima di un efferato omicidio.
«Trans», pronuncia Sherlock mentre è occupato con il suo operato come al solito accompagnato dall'inseparabile piccola lente d'ingrandimento tascabile.
«Come, scusa?», gli chiedo io avanzando automaticamente di qualche passo verso il tavolo rettangolare delle autopsie.
«Questo ragazzo aveva un certo gusto per il travestimento femminile, come puoi constatarlo tu stessa dalle sue unghie», espone l'uomo tenendo sollevata la mano destra della vittima e facendomi avviso con la testa di avvicinarmi a dargli un'occhiata.
Non è il primo cadavere che mi capita di vedere da quando calpesto il suolo inglese, ma ciò non significa che un paio di corpi freddi e rigidi siano ciò di cui una ragazza abbia bisogno di prediligere rispetto a una semplice e normale serata con amiche. Purtroppo per mancanza di quelle, e se posso permettermi di chiamare amici due essere umani come Sherlock Holmes e John Watson, pare io mi debba accontentare di fine settimane da trascorrere all'insegna di lugubri obitori da visitare.
Mi dirigo titubante verso di lui soffermandomi esclusivamente sul campo visivo in cui rientra quella mano immobile e cercando di evitare, quanto più mi è possibile, tutto il resto del macabro panorama.
«Guarda qui...». Mi incita Sherlock posizionando la sua mano destra guantata in lattice sulla mia schiena come per spronarmi ad inarcarla, e indicandomi contemporaneamente con la sinistra dei segni, o meglio, delle leggerissime sfumature rossastre sulla superficie delle unghie del deceduto.
«Sembrano a tutti gli effetti dei tentativi non perfettamente ben riusciti di rimozione di uno smalto colorato che a occhio e croce doveva essere rosso o fucsia».
«Visto? Cos'altro noti?», mi chiede allora sempre l'uomo.
«Le unghie sono anche ben curate a giudicare dalla loro lunghezza maniacalmente identica e... Forse era solito limarle. Ma credo che ciò valga un po' per tutta la mano, considerata la pelle liscia e levigata». A questo punto afferro di mia volontà l'arto esanime sforzandomi di capacitarmi del fatto di indossare i guanti appositi e che di conseguenza il contatto che ne seguirà non ne risulterà diretto. Tutte le volte in cui Sherlock mi ha consigliato di indossarli non ho mai immaginato di doverne usufruire per davvero.
Giro quindi in modo forse troppo illogicamente delicato quella mano verso il palmo, portando i miei occhi a pochi centimetri da essa. «Questi sono...»
«... Calli, dovuti all'atto molto frequente di impugnare un oggetto di forma cilindrica. Dipendente dal porno su internet-».
«Ehi! Ma devi essere sempre così specifico?», gli faccio presente con una smorfia di disgusto.
Il giovane intanto cambia la sua espressione con una tutta accigliata e perplessa, facile indizio che mi fa capire di trovarsi in un momento di confusione.
«Okay, va avanti». Gli vado in soccorso sorvolando sulla questione.
Così, vedo Sherlock rientrare in possesso del filo del suo discorso e continuare: «L'uomo frequentava una palestra. Ecco il perché dei calli».
Non riesco a trattenermi che subito mi scappa un'accesa risata a causa del mio piccolo equivoco derivato dalla sua deduzione.
«E ora che c'è?», mi chiede lui con una certa sorpresa.
«I... calli... e il... porno...», pronuncio a tratti, ridendo come una perfetta idiota, «... Ehm, scusa... Dicevi, da cosa deduci che fosse dipendente dal porno?».
A questa domanda Sherlock pare un po' imbarazzato.
«Beh, per essere un uomo ...».
«Giusto! Perché era un uomo! Perché non ci ho pensato io!», lo interrompo vedendogli comparire uno sbuffo esasperato.
«Vuoi smetterla di interrompermi! Intendevo dire che per essere un uomo che era solito travestirsi da donna e prostituirsi, fosse più che semplice immaginare che gironzolasse su internet».
«Se preferite, posso lasciarvi soli». A questa terza voce io e il giovane ci voltiamo nello stesso tempo verso Molly Hooper la quale ci osserva timida e quasi spaventata.
«Non ce n'è bisogno, davvero. Sherlock stava dolo dando spiegazioni». La rassicuro subito senza però riuscire a levarle dal viso magro quell'ombra di non so che cosa.
Ritorno poi a Sherlock. «Quest'uomo si prostituiva?! E tu come fai...».
«Il suo corpo è stato rinvenuto in un vicolo non lontano dalla palestra nella quale si allenava. Abbiamo chiarito che conducesse una doppia vita, di giorno da rispettabile uomo d'affari, di notte ballerina in dei night club. Il biglietto da visita trovato nel suo portafoglio mi ha confermato che non ne fosse solo un comune cliente bensì un vero e proprio intrattenitore. Si faceva chiamare Samyria».
«Okay, ma in quel vicolo non si è fatto trovare nei panni di una drag queen. Come potrebbe esserci d'aiuto il fatto che fosse un transessuale?», domando.
«Molto semplice. Questo ragazzo quella sera stessa avrebbe dovuto accontentare qualcun altro, un uomo piuttosto scorbutico, oserei pensare vista la fine che gli ha riservato».
«Oh! Vuoi dire che è stato ucciso perché non ha voluto fare il suo lavoro?»
«Ciò che sia esattamente successo fra quelle mura non sono in grado di saperlo, però c'è un indizio, ed è proprio quello che ci confermerà il movente».
«Sarebbe?». Questa volta è Molly a porgere la domanda, ma sembra che a Sherlock poco importi per via dei suoi occhi avvinghiati ai miei.
Gli riconfermo quindi la richiesta della patologa con un'alzata di sopracciglia.
«Parlo delle ferite inferte», dice l'uomo, chiudendo con un tic il coperchio scorrevole della piccola lente d'ingrandimento e riponendosela in tasca. «Una violenza come questa con la quale un assassino colpirebbe qualcuno può essere dettata solo da una causa: la gelosia». Termina la frase con tono basso e drammatico facendo il giro del tavolo e andando a ricoprire con l'apposito lenzuolo bianco il corpo di quello che un tempo era stato un ragazzo attraente seppure in continua lotta con se stesso per via della sua vera natura racchiusa in un corpo sbagliato.
Con quel gesto tanto umano e delicato capisco ancora una volta dell'uomo che invece Sherlock nasconde dentro di se.
Gli vado vicino tenendo lo sguardo fisso sull'indefinita sagoma bianca e chiedendogli seria: «Sherlock, chi è l'assassino?».
Lui mi guarda dall'alto della sua statura, distendendo le labbra in una curva soddisfatta.
«Il suo istruttore di fitness, nonché suo compagno di vita».
Rimango allibita da quella dichiarazione così convincente quanto inaspettata.
«Come ci sei arrivato?». Sarà che uso questa domanda fin troppo spesso ma mi è talmente difficile non pronunciarla.
«Un mio conoscente senzatetto me lo ha confermato. Ieri sera avevo già dato il via alle ricerche dando disposizione dal mio cellulare, informazione inviatami prontamente mentre tu eri troppo impegnata a parlottare con Molly».
«Che tipo di ricerche?». M'intrometto ancora.
«Del suo borsone, è ovvio. Prima della sua routine notturna, quel tizio ed esattamente quella sua ultima sera l'ha trascorsa in palestra dove oltre all'aver esercitato dei normali allenamenti, deve aver, poco prima di andare via, litigato duramente con il suo fidanzato, chissà magari dopo che quest'ultimo deve aver scoperto nella borsa della sua presto vittima, indumenti da donna. Così, l'assassino deve non averci visto più tanto bene accecato com'era dalla gelosia e dalla rabbia per non aver scoperto prima la seconda vita segreta del suo ragazzo, dandoci la possibilità di giungere facilmente al presente e a questo tavolo delle autopsie». Finisce di parlare per poi riattivarsi subito a causa dell'occhiata insoddisfatta che gli porgo. «Sì, Annie, il mio amico senzatetto. Dunque, l'istruttore di fitness ha assassinato l'altro nella sua palestra, trasportato il cadavere al di fuori fino a quel vicolo – troveranno tracce nella sua auto – e poi gettato via il borsone con dentro quelle prove tanto schiaccianti che Fred, il vagabondo di cui parlavo, ha ritrovato alcuni minuti fa in un cassonetto lì vicino».
«Manca un solo piccolo piccolissimo dettaglio, però», gli dico, parandomi davanti a Sherlock Holmes obbligandolo così a fermarsi mentre era sul punto di avviarsi verso la porta. «Come hai potuto sapere che quel povero ragazzo intrattenesse una relazione con il suo istruttore? Secondo la polizia non c'erano testimonianze di alcun tipo riguardo alla sua vita privata».
«Dovrei chiamare Lestrade e dirgli chi arrestare». Dice del tutto evasivo.
Le sue mani mi afferrano per le braccia scostandomi di lato e poter quindi passare oltre. Ma non riesce ad averla vinta come sperava poiché mi aggrappo senza troppi complimenti a un lembo del suo cappotto Belstaff Milford, riuscendo a prenderlo alla sprovvista. A questo punto non può sfuggirmi.
«Annie, te l'ha mai fatto notare nessuno quanto tu sia insopportabile?». Mi urla con un finto rimprovero al quale ribatto molto volentieri: «Me lo hai appena detto tu. Ed ora... la verità!».
«Okay, bene!». Sbraita esasperato. «Facebook. Mi è bastato cercare il nome della vittima per trovare una sfilza di sue foto ritraenti anche il palestrato. Contenta?». Sbaglio o avverto una certa sconfitta nel suo tono?
«Tu hai un account Facebook?». Gli domando con sincero sbigottimento, credendo di aver ormai conosciuto per intero la sua lista "infinita" di interessi.
«Certo che non ce l'ho! Non ne ho bisogno».
«Ma allora...». Mi blocco per un attimo osservandolo per bene in faccia e riuscendo a ottenere da quella sua strafottenza inaudita una certa conferma. «Ti sei intrufolato nel mio account?! C'era una password!».
«Per favore. Ti consiglio di cambiarla. Troppo scontata», dice con noncuranza alzando gli occhi al cielo.
«Era il mio vecchio indirizzo italiano! Ero quasi certa che un inglese qualunque non avesse potuto indovinarlo, figuriamoci riuscire a scriverlo come si deve».
«Questo è vero, peccato che io non sia un inglese qualunque né tanto meno con un patrimonio genetico qualunque, e che si estende – per mia rara fortuna - a mio fratello Mycroft così da permettergli di assomigliarmi più di quanto io desideri ammettere. Intendo dire che grazie a lui ho messo le mani sui tuoi documenti appartenenti alla tua vita italiana con tanto di vecchio indirizzo, numeri di telefono, date di compleanni...».
«Hai infranto la mia privacy e sai fin troppo bene quanto io ci tenga!».
«Annie, andiamo, non sei credibile quando fingi di arrabbiarti».
«Io sono arrabbiata, Sherlock, e tanto. Cerca di dedurre meglio».
«Ti passerà tra un minuto». E intanto prosegue la sua uscita in scena verso la porta della sala autoptica senza degnare nemmeno di un saluto la timida Molly Hooper.
Questa perciò assume un'espressione addolorata e allo stesso tempo rassegnata come di chi è solita sorbirsi gli strambi comportamenti del consulente investigativo.
Quanto a me, mi metto immediatamente all'inseguimento del mio vicino di casa, non prima però, di concedere un minimo di gentilezza alla ragazza. Imbriglio, quindi, tutta la mia collera nei confronti dell'uomo e mi rivolgo a Molly, «Grazie tante, Molly, per tutte le volte, del resto».
Non credo sia abituata a una simile cortesia da parte di Sherlock, pur assecondandolo continuamente a poter usufruire del suo reparto con un permesso di entrata speciale che solo a lui riserba. C'è da dire anche nelle ore più inusuali.
Indico poi con un cenno del capo oltre la porta, «Anche da parte sua»... «In fondo in fondo», aggiungo.
Lei mi sorride dolcemente creando due piccole fossette sulle guance, e rigirandosi contemporaneamente le dita esili in una mossa nervosa, mi dice, «Non fa niente. So che è fatto così. Mi piace aiutarlo, tutto qui».
«Beh, grazie ancora».
Ma prima di potermi fiondare per il corridoio deserto, la voce della patologa mi blocca sulla soglia.
«Non state insieme, giusto?», mi chiede per la terza volta, con un moto di ansia. Credo ne sia ossessionata.
«Io fidanzata con quel tipo?! Quale donna sana di mente opterebbe per Sherlock Holmes?». Ironizzo ridacchiandoci su, tuttavia mi rendo conto che forse avrei fatto bene a rimangiarmi l'ultima frase. Molly infatti, assume subito un espressione colpevole, abbassando di colpo lo sguardo. Troppo tardi però, perché sfortunatamente per lei mi pare di averci capito molto cose.
Comunque sia, colgo al volo quel momento per squagliarmela da quel luogo di morte, non facendo poi più di una ventina di passi che trovo Sherlock davanti a una finestra, intento a spostare il suo cellulare dall'orecchio destro alla tasca del cappotto. Deve aver appena riattaccato all'ispettore Lestrade per il caso appena risolto.
Restiamo impalati occhi negli occhi per qualche secondo finché è Sherlock che per primo gira sui tacchi facendomi capire che sia arrivato il momento di uscire dal Saint Bart's Hospital e tornarcene a casa.
«Le piaci», gli dico non appena ci ritroviamo fuori sotto il cielo stellato. Una brezza leggera mi accarezza il viso e mi spettina i capelli.
Sherlock continua a camminarmi davanti dritto e impettito, del tutto incurante della sottoscritta.
«Ho detto che c'è una possibilità bella grossa che tu le piaccia», ripeto alzando la mia voce di un tono.
«Non capisco a cosa ti voglia riferire».
«A chi, piuttosto. E mi riferisco a Molly Hooper».
Detto ciò, il giovane si volta verso di me con una scattante ma leggiadra giravolta di trecentosessanta gradi, inchiodandomi con lo sguardo nel suo campo magnetico.
Mi fa quasi paura.
«Come avrai già capito, non parlo di sciocchezze simili». Mi dice serio e con una voce alquanto cavernosa. Spettrale aggiungerei.
«Okay okay! La prossima volta cercherò di ricordarmelo. Bene... Ehm, prendiamo un taxi? ... Sì? Okay, lo chiamo io...», farfuglio perché incapace di reggere quell'occhiata da maniaco. Mi avvicino perciò al ciglio della strada ormai quasi del tutto isolata, sperando di scorgere quanto prima un taxi. L'unica cosa che vedo avvicinarsi però è la lunga ombra di Sherlock che si affianca alla mia.
«Non credo ne vedremo uno. Domani ci sarà uno sciopero generale di mezzi pubblici, e se non vado errato...», lo guardo dare una veloce sbirciatina al suo orologio da polso, «Sì, è mezzanotte passata quindi lo sciopero è ufficialmente cominciato da diciotto minuti. Non ci resta che mettere quattro passi».
Lo osservo proseguire diritto senza prodigarsi di aspettarmi.
«Arrivo». Gli vado così affianco mantenendo il suo stesso passo sicuro e sempre costante che non azzarda a variare neppure per una volta.
Passiamo i minuti a venire vagando per marciapiedi e strade semideserte e incrociando in quelle che sono le vie più famose e frequentate, una grande moltitudine di coppie di fidanzati sul finire di cenette romantiche, svariati turisti alle prese coi soliti problemini legati alla lingua inglese e perciò moniti di brochure e dizionari, ragazzi un po' brilli che entrano ed escono dai pub e molti altri che riescono a fare della notte un momento di veglia e dinamicità. Londra è soprattutto questo: vita piena a tutte le ore.
Mi faccio strada in mezzo a un gruppetto di ragazze italiane e di cui riesco a riconoscere molto chiaramente la provenienza grazie al loro particolare accento. Un po' devo ammettere di avermi fatto provare, seppur per solo una frazione di secondo, nostalgia di quella che ormai sono consapevole, era la mia casa, ora fattasi tanto sconosciuta e lontana, forse quanto la stessa Londra che so bene, non riuscirò mai a conoscere fino in fondo.
Scaccio via questo pensiero per volgere lo sguardo all'uomo che mi dà la spalle, pensando adesso al modo in cui quel tipo di cappotto, così come quella massa scura di capelli siano arrivati in modo del tutto inaspettato a riempire il vuoto causato delle certezze di cui tanto ho subito la mancanza.
Mentre tiriamo dritto lasciandoci dietro una piccola band di strada che suona un brano nient'affatto orecchiabile, Sherlock volta il suo profilo per metà indicandomi con un gesto della mano il lato opposto del marciapiede decisamente meno affollato e chiassoso. Così non posso far altro che seguirlo sulle strisce pedonali, sinceramente rincuorata di quel cambiamento. Imbocchiamo poi uno svincolo che ci conduce in un'altra zona anch'essa ricca di negozi e di vita, per poi ancora intrufolarci stavolta in una viuzza lunga e deserta che assomiglia tanto a una delle diverse scorciatoie conosciute dal detective.
Tuttavia, nonostante la quiete che c'è qui, in netto contrasto con tutto il resto appena visto, un improvviso senso generale di disagio mi assale.
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