Capitolo 4: NOI (2° parte)
È facile immaginarne la causa.
Il semplice fatto di camminare per le vie della città in compagnia di quest'uomo mi riporta indietro a quell'indimenticabile – in tutti i sensi – gita nel Galles. Mi riferisco certamente e soltanto a tutto quello che ne è venuto fuori in seguito al famoso giorno di Natale, una volta tornati a Londra. Alle sue parole usate contro di me come armi distruttive e a tutti quei discorsi infondati sul perché fossi stata messa al suo fianco su quel treno diretto a Cardiff. Parole che in seguito hanno trovato spiegazione in delle dichiarazioni, dopo essere stata portata via dalle "grinfie" di suo fratello Mycroft Holmes.
Eravamo in taxi diretti al 221B e niente in una situazione anomala come quella mi induceva a prendere per prima la parola. A che scopo poi? Allo stesso tempo i due uomini che mi affiancavano, Sherlock alla mia destra, John alla mia sinistra, se ne restavano entrambi chiusi in un assurdo mutismo. Così per tutto il tragitto che ne è seguito, fino al pianerottolo del primo piano, vale a dire il loro. Solo allora il biondo ex medico militare mi ha seguita per le restanti rampe di scale che conducono al mio appartamento e si è autorizzato praticamente da sé ad entrarci. La sua aria determinata ma a tratti nervosa – deducibile da una sorta di tic alle mani che notavo chiudersi a pugno a intermittenza – mi ha convinta che poteva farlo perché tanto, in fondo in fondo, non era lui il coinquilino che avrei preferito evitare.
«Accomodati», gli ho detto, indicandogli il divano del salotto. Ma John ha rifiutato gentilmente con un gesto del capo rivolgendomi poi uno sguardo timido e impacciato.
Non sapevo chi dei due fosse più imbarazzato in quel momento.
«Annie...», ha finalmente cominciato, spostando gli occhi grigi in un punto indefinito del pavimento, finché non ha ripreso, «Non so da dove cominciare, accidenti. È... è assurdo che io debba sempre scusarmi per conto di Sherlock ma devo farlo».
«Non voglio le sue scuse, John, davvero. È tutto okay».
«No. No, Annie, tu non capisci. Lui è Sherlock Holmes, il sociopatico iperattivo che di sociopatico poco o niente ha. Certo, non metto in dubbio che in certi momenti può sembrarlo, ma è quello che accade dopo che ti fa rimangiare quella parola. Ecco, ascolta».
A un certo punto John mi è venuto incontro a passo spedito spingendomi piano sull'uscio della porta già aperta e facendomi avviso di tendere le orecchie verso il fondo delle scale.
Non ne comprendevo il motivo finché le note di un violino avevano preso a riecheggiare soavi e delicate dal salotto di Sherlock Holmes.
Una litania spezzata in alcuni tempi ma che riprendeva fin da subito con un motivetto allegro e al contempo di una dolcezza rassicurante.
«Ecco. Questo è Sherlock», ha ripreso John con un sorriso.
«Mi spiace ma proprio non capisco», ho dichiarato io cercando con tutta me stessa di rimanere immune a ogni emozione che quel violino mi provocava.
«Era da un po' che non componeva. E credimi quando ti dico che per quel ragazzo è un modo tutto particolare per esprimere la sua soddisfazione in conseguenza a un evento per lui significativo. Comporre quella musica, adesso – non chiedermi come ci riesca tanto in fretta, perché non ho una risposta – magari non vuol dire aver ritrovato appieno un'armonia con il mondo ma quel che è certo, è che rivendendoti gli ha fatto scattare qualcosa; potrebbe avergli fatto bene».
Continuavo a guardare il dottor Watson allibita, persa intanto nell'immagine dell'uomo dalla cui mente ingegnosa e creativa e per mezzo delle sue mani tanto abili stava plasmando un qualcosa di unico e allo stesso tempo unicamente suo, come un dio alle prese con la creazione di una sua creatura.
«Annie, ascoltami, io più di chiunque altro so bene quanta enorme fatica sia per lui frenare ogni volta la sua lingua biforcuta quando comincia con una delle sue deduzioni, per non parlare di tutti gli insulti che realmente ha pensato di molta gente e che non si è curato di tenere per se, ma c'è pure da ammettere che con te si è fregato da solo. Lui non ha mai pensato quelle cose di te, io lo so, solo che si rifiuta di ammetterlo».
«Che vuoi dire? Cosa credi che intendesse quando mi ha data della "mediocre essere umana"? Mi dispiace, John, ma sono sempre più convinta di non aver letto significati nascosti nelle sue parole», gli ho detto.
«Perché riesce a nasconderli fin troppo bene! Questo fa anche parte del suo carattere e mai potrà essere cambiato; Sherlock Holmes ha sempre l'ultima parola su tutti, lui vivrà più a lungo di Dio per avere l'ultima parola. Okay, forse questo ti convincerà».
John sembrava sempre più stremato oltre che spazientito per via della mia cocciutaggine che di certo non poteva essere da meno a quella del suo amico detective.
«Sono tutta orecchie», ho ammesso, superandolo per raggiungere il divano e sedermici. Ho invitato anche l'uomo a fare lo stesso e alla fine ha accettato.
Ho lasciato che si prendesse un breve momento per fare mente locale e dunque ha ripreso, «Dopo il suo discorsetto da stronzo senza cuore che ti ha fatto, si è comportato esattamente come gli avevo visto fare anche altre volte, e cioè chiudendosi chissà dove in un qualche meandro sconosciuto della sua folle mente senza più ripescare da allora, l'argomento "Annie". Stessa cosa valsa anche per il suo hobby musicale perché persino il suo amato violino non riusciva a soddisfarlo. Allora, io mi chiedo e dovresti farlo anche tu: per quale strambo motivo un bastardo egocentrico come lui avrebbe permesso a una distrazione come lo sei stata tu, – parole sue – di invadergli parte della sua preziosissima memoria cerebrale portandolo quasi a deprimersi se davvero non gli è mai importato nulla di te? O ancora... Per quale razza di motivo ha deciso di partire per il Galles chiedendolo a una donna?... Una donna, Annie! Sherlock solo una volta è riuscito a mostrare un sincero interesse per un essere umano di sesso femminile rimanendone persino deluso, ma ovviamente non lo ammetterebbe mai».
«Per caso si tratta di quella donna citata nel tuo blog?», gli ho domandato curiosa.
«Beh... Magari un'altra volta ti racconterò com'è andata...». Credevo di scorgere nel suo sguardo fattosi per un attimo assente, un certo disagio, perciò ho preferito non insistere.
«Va avanti, John. Vediamo se riesci a convincermi». Gli ho incitato poi con un sorriso civettuolo.
«Bene... dov'ero rimasto... Ah, sì. Da tutto ciò posso solo dedurre che mister ragionamento logico sia stato indotto a quel tipo di comportamento per una questione ben più precisa ed elevata, che può essere compresa solo se guardata dal suo punto di vista. Riesci a immaginarla?»
«Per niente. Non riesco a mettermi nei suoi panni, è impossibile».
«Non è impossibile. Sai, Sherlock a volte recita: Se si esclude l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, è pur sempre possibile. Quindi se escludiamo l'ipotesi del ragazzo egoista e senza cuore che sono certo non è, Sherlock ha fatto ciò che esattamente la sua mente non avrebbe pensato di fare di solito: preoccuparsi di qualcuno. Ora, io non so nulla di quanto è successo a Cardiff e ancora più sconosciute mi sono le dinamiche del caso. Sherlock insiste nel tenermi all'oscuro e forse è proprio un particolare aneddoto legato a quel viaggio che ha scaturito in Sherlock la miccia a innalzare un muro nei tuoi confronti. C'è qualcosa che Sherlock può aver vissuto come un dramma interiore?».
La mia mente ha cominciato a vagare da una parte all'altra come una trottola impazzita nel cercare di creare o ricordare cose, dettagli, frasi che in modo o in un altro avevano indotto il giovane detective sulla sua decisione di eliminare la mia presenza dalla sua vita.
Poi però un brivido freddo mi ha sfiorato provocandomi un leggero tremore lungo la schiena. Poteva sul serio trattarsi di quello?
«L'incendio», ho sussurrato con sguardo perso. Poi ho incrociato gli occhi di John e ho proseguito, «Oddio, come ho fatto a dimenticarlo. John, forse Sherlock è arrabbiato con me perché ho intralciato il suo lavoro per via dell'incendio che il colpevole ha appiccato al fine di uccidere sua moglie nella loro stessa abitazione».
«E che è accaduto di preciso?». Gli occhi dell'uomo si facevano sempre più brillanti di curiosità.
«Ecco... Mi ci sono trovata anch'io in quell'inferno. Ero in camera da letto con la cliente e mancava poco che finivamo entrambe intossicate dal fumo che entrava dalla porta. Ne siamo uscite illese calandoci dalla finestra nonostante la difficoltà. Poi sono finita in ospedale e...».
«Cristo». Non ho finito il racconto che John in preda a un moto di agitazione si è alzato di scatto dal divano facendo il giro del tavolino bianco e parandosi davanti a me a braccia conserte. «Avrei dovuto saperlo prima, Annie. A questo punto non possiamo biasimare Sherlock. Lui, ha avuto paura per te, questa è l'unica soluzione».
In quel momento credo di ricordare di essere arrossita parecchio davanti a quella ipotesi non così tanto assurda, neppure per un uomo quale Sherlock Holmes.
Non avrei potuto fingere sul fatto che Sherlock non si fosse mai preoccupato per me nonostante lo conoscessi da poco e per via di quel suo carattere il più delle volte ambivalente. Ma se quella era un'idea da prendere in considerazione avrei potuto accoglierla come vera pur nonostante le sue parole dure e spietate che non facevano altro che continuare a premere insistentemente nella mia memoria.
«Ma allora... Questo dovrebbe significare che lui... Lui lo ha fatto per non mettermi più in pericolo?», ho domandato a John per un'ulteriore conferma.
«Sì, proprio così. E dovevi vedere la sua faccia quando ha letto il tuo messaggio d'aiuto poche ore fa». Già, a quello non ci avevo ancora pensato. «Si trovava in cucina alle prese con i suoi studi chimici, - stava mescolando uno strano liquido maleodorante in una provetta – quando non ci ha pensato più e ha addirittura fatto cadere il tutto in frantumi. Si è messo a correre giù per le scale come un diavolo, c'è voluta la signora Hudson per ricordargli che aveva ancora sugli occhi la mascherina protettiva».
Più ascoltavo John più faticavo a credere alle mie orecchie.
«Ed io che pensavo mi avesse abbandonata al mio destino. Pensa un po'».
«Al contrario! Ha scoperto praticamente subito dove quell'auto ti stava conducendo. Gli sono bastati i pochi indirizzi che gli hai fornito e il fatto di avere ancora con te il tuo cellulare e poterlo usare liberamente per dedurre che si trattasse di una visitina al Diogenes Club. Piuttosto bislacco quel posto, eh? Ci sono passato anch'io».
«Già...».
In seguito ognuno dei due se n'è rimasto immerso nei propri pensieri, io con l'immagine di uno Sherlock contornato ora da una luce alquanto nuova sebbene ancora parecchio controversa, mentre John, che non smetteva di far scorrere le sue pupille da una parte all'altra del mio salotto, rimuginava su chissà cosa ma più evidentemente sull'aspetto del mio appartamento dentro cui non aveva mai messo piede prima di allora. Sapevo che tutta l'iniziale tensione tra me e John Watson come pure il rancore provato verso il suo pazzo amico si erano andate allentando fino a scivolarmi del tutto di dosso. Una sensazione di beatitudine mi pervadeva nella mente e nel cuore.
«John... Grazie» È tutto ciò che sono riuscita a dire.
«Dovere. Solo questo. Nei confronti di un amico e dei tuoi. Beh, di un'amica», mi ha sorriso in un modo tanto sincero e genuino che è mancato poco che lo abbracciassi.
«Bene! Sarà meglio che scenda. Un'altra cosa che so di Sherlock e che non si sarà scomodato a pulire il pavimento da quella schifezza. Ci vediamo, Annie».
«Okay»... «John!»
Gli sono andata incontro prima che si chiudesse la mia porta alle spalle.
«Cambierà qualcosa dopo questo?».
A dir la verità, John sembrava parecchio insicuro sulla sua risposta ma ha cercato in tutti i modi di darsi un contegno per rassicurarmi.
«Credo proprio che dovresti darmi una mano a riportare sul mio blog il caso risolto a Cardiff. Del resto, Sherlock non potrà vietarmi di vederti, né tanto meno se come suo coinquilino e di conseguenza come suo pari nel pagare l'affitto del suo stesso appartamento io voglia decidere da me chi portarci dentro». Mi ha lanciato quindi un occhiolino di complicità assoluta, promettendomi in maniera sottintesa che sarei riuscita a rientrare nuovamente e soprattutto in punta di piedi nella cerchia privata di quel testone di consulente investigativo, con la futura speranza magari di poterci rimanere con la sua piena concessione.
Non è difficile immaginare quanto ne è seguito successivamente. Un paio di giorni dopo, Sherlock è rientrato nel suo appartamento rimanendo com'era ovvio che fosse, impalato nel trovare la sottoscritta seduta alla sua scrivania davanti al PC in compagnia dell'ex medico militare tutto concentrato a spiegarmi le componenti del suo blog. Cosa eclatante e che ha portato me e John a scambiarci uno sguardo di carica meraviglia, è stato il comportamento di indifferenza totale da parte di Sherlock che una volta accettato quel momento come un qualcosa di normale routine si è rintanato in cucina dalla quale ben presto abbiamo udito sempre più insistentemente i suoni e i rumori dovuti all'uso dei vari strumenti da laboratorio sparsi tutt'intorno in una regnante confusione.
Stessa situazione di stallo avvenuta in seguito, quando avendoci sorpresi parlottare del caso da me intitolato "Misfatto scozzese" – e appoggiato a pieno da John – Holmes si è sdraiato sul divano – a pochi passi da noi e perciò permettendo ai suoi polmoni di respirare il mio stesso ossigeno – e di meditare, su quale argomento non avrei potuto saperlo, a occhi chiusi e a mani giunte sotto il mento. In un secondo momento poi ho scoperto che dietro quell'espressione placida e rilassata si celavano invece congetture intricate di pensieri, dettagli e ipotesi riguardanti un caso a cui il giovane detective era stato chiamato a indagare.
Ebbene, dopo quel suo finto sonno durato per ben due ore, Sherlock si è rimesso in piedi in modo talmente repentino da farmi prendere un colpo secco, dichiarando dunque apertamente con un euforico «Un altro mistero ci aspetta», la sua volontà di essere seguito giù per le scale. Il dettaglio sorprendente stava nel fatto di aver lanciato un'occhiata di consenso non soltanto verso John, bensì anche su di me, donandomi una volta per tutte il suo consenso definitivo.
Ed è così che da circa due mesi a questa parte trascorro gran parte del mio tempo libero spaziando tra corse in taxi, scenate di saccenza tutta "sherlock – iana", un dottore mai tornato a casa dalla guerra ma sempre fin troppo paziente con tutti, e una ragazza italiana, rinata e forse fattasi un po' più forte e ostinata di prima tanto da sorprendere la sua stessa vita e riuscire persino a tenerle testa.
La nostra passeggiata di questa notte di luna piena finisce non appena ci troviamo davanti al 221B.
E come da copione, una volta raggiunto il primo piano, Sherlock mi lancia un'ultima occhiata per poi salutarci a vicenda con un «Buonanotte», finché con le gambe a pezzi e la mente vigile e aperta a una prossima collaborazione coi miei due vicini di casa, sono libera di sprofondare nel sonno.
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