Capitolo 3: GHIACCIO PURO
- Annie Pov
Il silenzio che pervade tutto l'interno dell'automobile non fa altro se non mettere a dura prova i miei nervi i quali si trovano liberi di andare a briglia sciolta verso pensieri tutt'altro che confortanti.
In seguito al mio primo sms inviato al detective, ne ho ricevuto uno che quasi a riconferma di quanto gli avevo già scritto, diceva, "Dove sei?". Ma subito dopo ho capito cosa in realtà intendesse, inducendomi di conseguenza a osservare più attentamente il mondo esterno cercando di riuscire a carpire indizi sufficienti a potergli dare informazioni più utili.
La cosa negativa è data dalla mia pecca di non conoscere ancora nessuna delle strade intraprese dal mezzo di trasporto, ma il problema forse più considerevole, sta nel fatto di non possedere un carica batteria né tanto meno un presa di corrente per dare più energia al mio cellulare che in questo momento pare più morto che vivo.
Ora che ci penso, i due rapitori non hanno mai neanche tentato di sequestrarmi questo mio unico e possibile mezzo con cui avrei potuto chiedere aiuto. Che razza di sequestratori sono, rifletto.
Continuo a guardare oltre i finestrini girando la testa da destra verso sinistra e viceversa, sempre alla ricerca di insegne particolari o meglio, indirizzi stradali.
Finalmente però colgo al volo una parola che credo di aver memorizzato abbastanza correttamente sebbene mi sia passata davanti agli occhi soltanto per un nano secondo, quindi scrivo immediatamente a Sherlock.
Non passano che una manciata di secondi che ne segue un "Di più."
Torno allora alla mia torre di vedetta immaginaria per poi catturare ancora una volta, un nuovo indirizzo dopo aver deviato da parte dell'auto la traiettoria rettilinea, girando verso destra.
Tuttavia, pur avendolo informato anche di quest'ultimo particolare, l'uomo che c'è dall'altra parte del telefono non accenna più a rispondermi.
Il panico raddoppia dentro di me all'idea che Sherlock abbia preferito abbandonarmi al mio destino, pur tuttavia odiandomi pesantemente per una congettura simile, perché consapevole di non pensarlo affatto. Il rancore che ho provato per lui fino ad ora sembra essersi dissolto come niente arrivando persino a fare di lui il mio primo pensiero al quale aggrapparmi. È stata una pazzia da parte mia, me ne rendo conto, non aver pensato di coinvolgere direttamente la polizia o cercato in qualche modo di fuggire, gettandomi sia pure dall'auto in corsa, ma nel momento in cui ho constatato l'esistenza di una minima possibilità di riavere a che fare con lui qualcosa in me è scattato. Ho sentito sin da subito che sarebbe stata la cosa più giusta da fare, convinta che lui sarebbe stato il solo e l'unico capace di aiutarmi. Tutto ciò, mi ripeto, dettato dal desiderio di rivederlo di nuovo.
Mi stringo forte all'ultimo ricordo che ho di Sherlock Holmes, consapevole di pensarci un po' più attentamente di quanto ho invece ho cercato - e riuscendoci pure - di non fare fino ad ora. Durante quest'ultimo periodo ho sentito un forte bisogno di seppellirlo dentro di me perché tutto di lui mi faceva star male, dai suoi occhi carichi di disappunto che mi ha rivolto quell'ultima volta prima di voltarsi e andare via, alla sua voce, tanto rassicurante e vellutata prima, mutata dopo in un crescendo di tono alto, severo e per nulla amico.
È un ricordo che speravo non tornasse mai a tormentarmi e anche se ciò accade adesso, contrariamente a tutto, riesce solo a farmi stare meglio.
Le mie continue occhiate allo schermo del mio dispositivo non servono a molto se non a far prevalere in me la certezza di non essere sola e che in qualche modo quell'attesa da parte dell'uomo sia provocata esclusivamente dal fatto di non saper ancora come trovarmi. È così che per adesso ho deciso di vederlo, perché sono certa che in un modo tutto suo, Sherlock Holmes mi troverà ed io rivedrò lui.
* * *
La mia corsa termina una volta essere giunta – a scapito di quanto avrei immaginato - in un quartiere affatto malfamato o chissà quanto lontano e nascosto. Illuminato dalla luce dei vari lampioni il palazzo bianco verso il quale vengo scortata, pare a occhio e croce una struttura che richiama alla mia fervida immaginazione, uno stralcio di sfondo ottocentesco.
Mentre la donna misteriosa mi affianca, dopo aver lasciato l'autista in macchina, ne approfitto per guardarmi intorno e poi fare la stessa cosa con lei. La guardo adesso come se per tutto il tempo fossi stata cieca, accorgendomi con meraviglia e una certa ammirazione, della sua bellezza ed eleganza, fasciata com'è in un sobrio tubino nero che ne mette in risalto il fisico perfetto, mentre le gambe chiare e snelle vengono slanciate ulteriormente da un paio di décolleté con tacco basso anch'esse nere. Una giacca dello stesso colore le dona un aspetto professionale e rispettabile come pure il trucco leggero e i capelli scuri lasciati liberi e ondulati sulle spalle.
Dopo che un lacchè provvede a darci il benvenuto all'ingresso, ci immergiamo in un vestibolo poco illuminato, a cui fa subito capolino, posta alla nostra destra, una sorta di scrivania con appoggiatovi sopra un grande registro aperto.
Non sbagliavo quando ho dato dell'antico all'aspetto generale del palazzo: tutto quanto mi capiti sotto gli occhi, dalla maestosa scalinata agli intarsi sui soffitti, o alle pareti ricoperte completamente in pannelli di mogano scuro, rievocano un certo gusto austero di un'epoca passata.
Proseguendo poco più avanti, una sorta di salottino ben arredato con un grande camino in marmo bianco intrattiene varia gente.
Constato subito si tratti esclusivamente di esponenti del sesso maschile di età compresa dai cinquanta agli ottant'anni o giù di lì, ognuno di loro muniti di giacca, cravatta e panciotto e perciò chiaramente appartenenti a una classe sociale sicuramente più elevata della mia. Questi sono un po' tutti intenti a sedere su poltrone sparse qua e là, nell'atto di leggere giornali, fumare sigari o sorseggiare placidamente del tè.
Li osservo curiosa e rapita e direi persino stranamente serena, probabilmente per via della strana atmosfera che aleggia tutt'intorno, vale a dire intrisa di un silenzio tombale.
Un silenzio non dissimile da quello che caratterizzerebbe gli interni di una qualsiasi chiesa, come se allo stesso modo mi fossi catapultata in un luogo sacro e venerabile. Anche l'illuminazione scarsa e soffusa rievoca una certa armonia con l'insieme.
Mi domando sempre di più cosa ci faccia una come me in un posto tanto singolare.
È tutto così surreale.
Lancio un'altra occhiata alla mia giovane guida la quale prosegue tranquilla verso le scale. Le vado dietro per tutte e tre le rampe di scale successive, mantenendo la presa sul corrimano in legno scuro perfettamente lucidato. Dopo di che ripercorriamo una seconda camera dove il silenzio regna un'altra volta sovrano, ritrovandomi davanti un altro considerevole numero di uomini ognuno rintanato nel proprio cantuccio. Come i primi, anche qui li rivedo sfogliare quotidiani o protesi verso il carrello del tè che un domestico provvede a spostare da una postazione all'altra. Altri ancora invece, che come intellettuali tengono la schiena ben dritta nonostante siano chini su un libro che leggono alla luce di una semplice lampada posta di lato su un tavolino personale.
Continuo ad avanzare verso il lato opposto della stanza facendomi largo tra le poltrone, ottenendo da qualcuno di quegli uomini delle occhiate di scetticismo, finché non sono costretta a bloccarmi dietro la schiena della donna che a sua volta si trova davanti una grande porta chiusa a due ante fatta ugualmente di legno massiccio, come il resto dell'ambiente.
Nel momento in cui la donna sta per sollevare la mano chiusa a pugno al fine di portarla sulla superficie liscia della porta e potervi bussare, una voce proveniente dall'interno ci invita a entrare.
Una volta dentro non posso che sussurrare un solo «Non ci credo».
Guardo la sagoma misteriosa che di certo non avrei sospettato di trovarmi davanti agli occhi, e che se ne sta in piedi dandoci le spalle, impegnato, del tutto incurante della mia presenza, a portarsi alle labbra un bicchiere di vetro.
Quindi si rivolge alla mia rapitrice «Va pure, Anthea». Anthea?! Si chiama davvero così?
«Sì, signore», risponde Anthea in tono sottomesso per poi dileguarsi non prima però di sorridermi dolcemente.
Ne segue un momento apparentemente lungo di altro silenzio – come se non ne avessi già avuto abbastanza – dunque, vengo finalmente onorata della sua attenzione.
«Se non le dispiace, preferisco mettermi comodo. Se lei preferisce invece rimanere in piedi, faccia come vuole», comincia l'uomo, accomodandosi su una poltroncina, accavallando le lunghe gambe.
«Tratta sempre così i suoi ospiti?», chiedo, allora, rimanendo ferma sulla mia posizione eretta.
«Ospiti? Oh, no, affatto, signorina, vuole sapere perché?»
«Perché?», chiedo esasperata, ma senza mostrarglielo.
«Perché non ricevo mai ospiti», espone con un sorrisino sornione.
«Quindi, esattamente cosa ci faccio io qui?»
«Può pure considerarla come una... Possiamo definirla, trattativa. Ma pur non trattandosi di una visita di cortesia devo ammettere di non poterle vietare un po' di sana garbatezza da mia parte, motivo per cui mi esporrò in maniera diversa: Si accomodi, prego, signorina Bernardi». Teatralizza Mycroft Holmes, indicandomi la seconda poltrona posta frontalmente alla sua.
Me ne resto ancora qui immobile senza sapere con esattezza quale mossa attuare nel caso in le cose prendessero una piega sbagliata, ma ancora una volta, la Annie incosciente e fremente di curiosità prende in mano il comando, obbligando la sua gemella assennata e prudente a starsene buona buona e sedersi. Holmes che in questo brevissimo lasso di tempo ha osservato con minuzia ogni mio più insignificante movimento, inchioda adesso i suoi occhi chiari ai miei, in un modo tanto simile a quello già visto molte volte da sua fratello minore. Tuttavia nessun consanguineo potrà mai sperare di assomigliare così tanto a un altro, e Sherlock e Mycroft ne sono una prova. Non serve osservare da una lente d'ingrandimento per capire quanto la differenza fisica sia evidente nei due uomini.
Ho sempre pensato a Sherlock come un ragazzo affascinante ed enigmatico, con un volto tutto particolare e cangiante in base alle espressioni facciali che gli ho visto assumere in tutti quei particolari momenti in cui ho potuto affiancarlo. Senza contare il gioco di luce e ombra grazie al quale tutti i suoi tratti già ben marcati e proporzionati alla perfezione tra loro vengono resi ancor più delineati e piacevoli alla vista.
La sua non la definirei una bellezza stereotipata da classico uomo di copertina, non convenzionale in effetti, ma unica nel suo genere, se ripenso soprattutto al colore ancora non ben definito dei suoi occhi e alla sua voce profonda e suadente che farebbe voltare tutti in una stanza anche senza farsi neanche vedere.
Ora, soffermandomi su Mycroft – osservandolo più attentamente di quanto abbia fatto nelle due precedenti occasioni – posso solo descriverlo come un uomo dall'aspetto comune, elegante come non molti, è da ammetterlo, eppure dalle fattezze così tanto normali che mai indurrebbero a immaginare quale tipo strambo e stravagante sia in realtà. A parte forse i suoi occhi, così diversi da quelli di Sherlock, eppure con un più che somigliante significato morale racchiusovi all'interno.
«Decisamente meglio, dopo tutto siamo tutta gente civile qui», prosegue l'uomo con un'enfasi tale da farmi dubitare invece di quanto gli abbia fatto piacere il suo atto di cordialità nei miei confronti, o meglio, in quelli di un essere umano qualunque.
Comunque sia, non era questo che intendevo con il saper trattare gli ospiti.
«Cosa? No! Non mi riferivo alla sua bravura di padrone di casa, non riesce proprio ad arrivarci?», gli rinfaccio contro.
«Prego?», mi chiede allora con candore incredibilmente sincero.
«Mi ha rapita! Due dei suoi due complici mi hanno costretta a salire in quella macchina, rischiando quasi di farmi avere un infarto!», sbotto senza pensarci due volte, cercando nel frattempo di sostenere il suo sguardo appena accigliato ma per nulla urtato. Anzi si riporta tranquillamente alle labbra sottili il suo bicchiere di liquore, assaporandone con snervante lentezza tutto il gusto. Solo dopo averlo riposato sul piccolo tavolino tondo alla sua sinistra, si decide di rivolgermi la giusta attenzione.
«Cos'altro avrei dovuto fare? ... Mandarle un telegramma? Suvvia, signorina, il suo cuore è più che a posto, e poi sono del tutto restio a credere che non ci sia stato un seppur minimo sforzo di ribellione da parte sua. In poche parole, ha deciso tutto da sola».
Rimango con la bocca semiaperta a causa del mio vano tentativo di trovare qualcosa di adatto con cui replicare, ma le parole muoiono in gola perché in fondo capisco che in quella frase c'è ben più di una semplice deduzione. Infatti, in un lontano recesso della mia coscienza, ammetto di aver agito in quel modo spinta certamente dalla mia solita codardia e perciò per timore che se non avessi collaborato mi avrebbero fatto del male, ma pure da tanto altro ancora che non può che riassumersi in un'unica parola di incentivo: Holmes. Ormai questa certezza si è fatta talmente forte da farmi credere inutile ogni tentativo di continuare a negarlo a me stessa, figuriamoci ad uno come Mycroft.
Cerco così di rimettere in ordine le mie emozioni per tutto il tempo rimaste in contrasto tra loro, e di non permettere quindi alla mia rabbia sempre più crescente di prendere il sopravvento sulla prima delle mie priorità, vale a dire, la curiosità di sapere cose che ancora non so. Incurante dell'imbarazzo causatomi dai suoi occhi perennemente incollati sul mio corpo insieme a quella sua espressione un po' buffa che a tratti mi induce ad associarlo a uno struzzo, mi dirigo verso il nocciolo della questione.
«Cosa ci faccio qui? Che posto è questo?». Due domande sulle quali Mycroft sembra voler volentieri illuminarmi dato il sorrisino di assenso comparsogli sulle labbra.
«Partiamo dalla seconda... Questo...», alza le braccia per metà a indicare tutta l'aria intorno a se, «... è il Diogenes Club».
«Perché così tanto silenzio?»
«Non ho ancora risposto al suo primo quesito e già me ne pone un altro?»
«Non si risponde a una domanda facendone un'altra», gli sorrido a mo' di sfida. Lui, allo stesso modo si esprime con un'espressione, oserei credere, divertita.
«Touché!», s'interrompe per accavallare la gamba sinistra sulla destra. «Dunque, il Diogenes Club è, come lo avrà ben inteso da lei, un club privato, riservato solo ad una stretta cerchia di esponenti, e al cui interno le uniche due sole regole vigenti sono, il silenzio per l'appunto, e l'assoluto divieto di creare ogni possibile forma di interazione. Questo è ciò che deriva dalle tradizioni, il silenzio totale è una tradizione. Tre quarti dei funzionari diplomatici e metà dei portavoce del governo condividono lo stesso carrello del tè. È meglio per tutti, mi creda».
«Queste norme non valgono per lei, mi sembra», incalzo.
«In questa stanza non esistono tali divieti, tutto qui, ma in quanto io stesso membro del club non posso esserne immune una volta varcata quella porta. Ci si fa l'abitudine».
«Tutto chiaro. Ora, risponda alla prima domanda, per favore. >> Gli dico soddisfatta della sua esaustiva spiegazione, e naturalmente fremente di ulteriori chiarimenti.
«Molto semplice e sbrigativo. Lei è qui adesso perché ha bisogno di denaro. >>
Ancora una volta le parole dell'uomo bloccano le mie in una maniera del tutto inaspettata.
«Cosa centrano le mie finanze con il Diogenes Club? ... Con lei?», domando arrossendo violentemente.
«Non si scomodi a raccontarmi la sua vita, men che meno a inventarsi frottole sull'inutilità dei miei soldi. So già tutto di lei e del suo passato, compreso tutto ciò che le riguarda dal momento in cui ha messo pieno in Baker Street, oltre ovviamente, della sua controversa relazione con mio fratello. Ciò che le chiedo è di accettare una cospicua somma di denaro che provvederò a versarle mensilmente...»
«In cambio di cosa?», lo interrompo bruscamente non riuscendo proprio a immaginarmi dove voglia andare a parare.
«Informazioni riguardo Sherlock».
Assurdo. Non riesco a pensare a nient'altro.
«Credevo di aver capito che per lei fosse un gioco da ragazzi spiare la gente. Oh, non mi dica... Con Sherlock è molto più difficile del previsto, dico bene?».
Da questa mia constatazione posso subito avvertire in Mycroft un moto di disagio. Subito dopo però, rieccolo tornare il freddo pezzo di granito di un attimo fa.
«Al contrario! Ma preferirei ci fosse qualcuno a me fedele che mi aiutasse a capire meglio cosa passa nella mente di mio fratello. Una videocamera nel suo appartamento non servirebbe a niente, devo ammetterlo, un essere umano a lui molto vicino sì, invece».
«John Watson sarebbe perfetto per questo ruolo. Lo chieda a lui, piuttosto», sbotto irritata.
«Oh, sarei ben disposto a chiederglielo per la seconda volta, ma dal grado di fedeltà con cui gli si è stretto non riuscirei a cavarne un ragno da un buco proprio come la prima. È per questo che lo chiedo a lei. Ne ricaveremo entrambi... Ci pensi bene».
Non mi rendo conto del caldo quasi soffocante che comincia a pervadere la camera, sebbene in realtà si tratti semplicemente di me.
Mi trovo dinnanzi a un bivio davvero molto pericoloso, sebbene agli occhi di un qualsiasi altro essere umano non potrebbe che apparire niente meno di una fortuna.
Sarebbe tutto molto più semplice se non fossi quella che sono, ma neppure la mia indole quale mi obbliga ancora a rimanere la solita ragazza accorta e diffidente verso proposte del genere non può permettersi di contraddire le parole di Mycroft. Il denaro è, diciamo così, una delle tante incertezze della vita, e chi meglio di me può saperlo. L'Holmes che mi sta di fronte certamente no, e probabilmente è appunto per questo che non voglio - e non devo - stare al suo gioco, pur ammettendo di sentirne una certa attrazione. Sia chiaro, dico a me stessa, non lo fai per tenere fede a quello zuccone di Sherlock, ma solo per conservare intatta un po' della tua dignità.
L'uomo intanto non accenna mai a staccarmi gli occhi di dosso perché troppo occupato a cercare di capire quale sarà la mia risposta, ma ormai mi sento in tutto e per tutto sicura della mia decisione.
«Apprezzo il suo atto di generosità, ma come lei sa, ho già un lavoro e mi piace e credo che me lo farò bastare», annuncio a testa alta riconquistando finalmente un pizzico di coraggio. Mycroft però non ne sembra per niente turbato o sorpreso.
«Proprio quello che mi aspettavo di sentire. Molto bene, è tutto, signorina Bernardi, è libera di andare». Pronuncia quelle ultime parole in modo talmente frettoloso e convinto, da farmi seriamente dubitare di averle ascoltate.
Espongo perciò un timido: «Cos'ha detto?», per poi osservarlo alzarsi dalla sua poltrona mentre si dirige verso un angolo della parete adiacente a quella della porta d'ingresso. Lì, dunque, preme il suo indice affusolato contro una sorta di interruttore nero tramite cui nessuna luce noto accendersi intorno a me. La certezza che non si tratti di un interruttore bensì di un campanello di chiamata arriva pochissimi secondi dopo, quando la porta a battenti viene spalancata in modo quasi violento per mostrare la spettacolare entrata in scena del così definito sui giornali "Uomo col cappello".
Mi faccio quasi scappare di bocca un gridolino di sorpresa, ma per mia rara fortuna riesco a contenermi. Sposto con un colpo secco la testa verso il viso di Mycroft alla ricerca di un qualche segno che mi indichi la presenza di tracce di stupore alla vista inaspettata di suo fratello minore, riuscendo però a cogliere niente più che quel suo solito sorrisino sornione e soddisfatto di chi ha ancora una volta predetto qualcosa prendendoci in pieno.
Dall'altra parte, Sherlock Holmes fissa dapprima me per poi soffermarsi in maniera più concentrata sull'altro uomo, in un gioco penetrante di sguardi a colpi di ghiaccio puro.
Se c'è una cosa che preferirei fare è sparire all'istante.
«Ciao di nuovo, fratello», si cimenta nella conversazione Sherlock.
«Buonasera a te, Sherlock, non sono passati che poche ore dal nostro ultimo incontro che già ne sentivi la mancanza? ... Ah, Anthea, falso allarme, sei congedata».
«Sì, signor Holmes». Sento appena la voce della donna comparsa d'improvviso sulla soglia alle spalle di Sherlock, o forse ci era rimasta per tutto il tempo dal mio arrivo, aspettando pazientemente che il suo capo la chiamasse tramite quel campanello nero.
Comunque sia, nel momento in cui la porta si richiude, lo spilungone del detective comincia ad affiancarmi in maniera spaventosamente sempre più vicina finché non sono abbastanza in grado di avvertire la fragranza del suo profumo.
Ne segue un breve lasso di tempo in cui nessuno dei due uomini – non sarò di certo io a rompere il ghiaccio – pare abbia voglia di continuare a discutere.
Sembra a tutti gli effetti una cosa seria.
«Il cavaliere errante che corre in soccorso della sua damigella. Un tipo di cliché che non avrei mai creduto di vedere da te, Sherlock».
«Oh, sai sempre tutto, Mycroft, ammettilo di averlo sempre saputo... Scontato e banale», ribatte il consulente abbassando lo sguardo su di me sorridendo. Dunque, continua, «Del resto, c'è chi crede che tu sia più intelligente di me».
«Io sono più intelligente di te!», afferma immediatamente dopo l'altro con tono insolente. Tuttavia mi fa scappare una risatina che stavolta non riesco a controllare. Sembrano a tutti gli effetti due bambini cocciuti.
«Lo trova divertente?», domanda il maggiore facendomi raggelare con la sua occhiataccia tagliente.
«Mi spiace... Scusatemi», sono in grado di dire, avvertendo lo straordinario impulso di rimettermi in piedi e volatilizzarmi all'istante.
Con mia immensa meraviglia però Sherlock mi viene in soccorso, non come farebbe un tipico cavaliere galante, bensì semplicemente con i tipici modi di un sociopatico iperattivo: mi afferra per un braccio con fin troppa facilità e nessun tentativo di preavviso trascinandomi dietro di lui con fare forse troppo protettivo.
«È ora di andare. Arrivederci, Mycroft! E la prossima volta cerca di essere un po' più convincente con la faccenda del denaro, chissà magari la signorina Bernardi potrebbe persino decidere di condividere la sua fortuna con me e John, perché come non ti è chiaro, il mio affitto non si paga da solo!».
A questo punto sbotto libera in una sonora risata che unita al tono alto di voce di Sherlock, fa voltare verso di noi tutti quanti gli uomini chiusi nel loro finto mutismo che ancora siedono nel salotto.
Volgo un'ultima occhiata verso la stanza di Mycroft Holmes riuscendo a scorgere sulla sua faccia una vaga espressione di incredibile appagamento.
Ripercorro al contrario tutto il percorso già fatto in precedenza, stando stavolta ben attenta alla targhetta d'ottone posta fuori dal palazzo che riporta appunto la scritta Diogenes Club.
Riemersa da quella bolla di silenzio e immobilità nella quale mi sono lasciata imprigionare, mi sembra di respirare adesso, spinta da una nuova carica e spirito vitale questo mio ritorno al ritmo frenetico e soprattutto rumoroso della città. E senza tener conto della mano di Sherlock ancora stretta intorno al mio braccio, mi dirigo insieme a lui verso un taxi parcheggiato dentro cui ci aspetta un John Watson tutto sorridente.
«Ehilà, Annie!», mi saluta l'ex medico militare con suo solito e genuino entusiasmo, una volta entrata nell'abitacolo.
Io, al contrario, proprio non riesco a recitare la parte della vicina di casa sprizzante di gioia e soprattutto smemorata, se solo mi fermo a pensare all'ultima volta in cui ci siamo lasciati in modo tanto brusco su quel pianerottolo.
Non mi rimane allora che tirare fuori un educato «Buonasera», rimpiangendo quasi l'ambiente impregnato di odore di legno e sigari del Diogenes Club.
Il taxi riparte così alla volta del 221B, mentre mi ritrovo ancora rinchiusa come un uccellino in una gabbia stretta, e incapace di aprire bocca in mezzo a questi due uomini che ho capito solo adesso, non riuscirei mai - neanche se lo volessi davvero - a dimenticare.
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