Capitolo 18: TRACCE E SOSPETTI

L'incrocio di Eccleston Street presenta delle tracce piuttosto marcate e precise che il fiuto eccellente di Toby non fa alcuna fatica a riconoscere e perciò a insistere di braccare.

Il sole scomparso gradatamente ha lasciato il posto alla luce artificiale dei lampioni stradali i quali pensano ora a illuminare il cielo sempre più tendente al violetto e misto a qualche sfumatura grigiastra. In questo tetto naturale sgombro da nuvole, una luna non ancora del tutto piena fa capolino alle spalle di un alto edificio.

Tutt'intorno, rumori e brusii dovuti alla vita cittadina di questa medesima fetta di quartiere, decisamente più rumoroso se paragonato al civico sei dal quale provengo, costringono me e Toby a rallentare il nostro lesto trottare, per fermarci di fronte al semaforo per pedoni e attendere il piccolo omino colorarsi di verde.

Per qualche occasionale miracolo sono in grado di convincere l'abile segugio a frenare per un attimo la sua forsennata corsetta, naturalmente dopo averlo tirato a me per mezzo di un brusco strattone effettuato con tutta la forza rimastami in corpo.

Conscia della breve tregua, ne approfitto per guardare il corpo possente dell'animale ormai tutto fremiti e respiro accelerato, impossessato da una bramosia irrefrenabile che già mi fa temere del momento più che prossimo in cui mi vedrò costretta a mobilitare le mie gambe per sottostare all'andamento dettato dalle sue zampe e dalla conseguente energia all'apparenza quasi instancabile.

Così, mentre un veicolo a due ruote si appresta a superare il semaforo ormai prossimo al rosso perché illuminatosi di un fugace arancione, sprono questo mio nuovo amichetto peloso a rimettersi in marcia, come predetto, senza prima esclusioni di bruschi slanci in avanti da parte mia. Vengo ancora una volta e irrimediabilmente sottomessa al suo volere o, meglio, al suo impeccabile fiuto da segugio impazzito.

Tenendo entrambe le braccia tese oltre ogni limite davanti a me nell'atto di stringere convulsamente l'estremità del guinzaglio, sto al passo di Toby cercando allo stesso tempo di guidarne la traiettoria e scansare così, senza molto successo, passanti, una carrozzina e persino un medesimo cagnolino a macchie bianche e nere che tutto fa pur di attirare l'attenzione del mio compagno cacciatore. Quello, al contrario, tira dritto – muso a terra, coda ritta a mo' di antenna – totalmente incurante di ogni qualsivoglia ostacolo comparso a sbarrargli la strada.

«Toby, ti prego, va piano!». Mi rivolgo al cane scongiurandolo al fine di contenere la sua prorompente scarica di adrenalina.

Una donna sorride complice a suo figlio, un marmocchietto di circa otto anni che a quanto sembra trova spassoso il mio non ben riuscito tentativo di sollecito nei confronti del segugio. Grande è la voglia di contraccambiare a entrambi con una smorfia di pura antipatia, ma così facendo renderei le cose solo ancora un po' più ridicole di quanto non lo siano già.

Sotto esempio di Toby proseguo quindi il mio cammino fingendomi invisibile, sorvolando su tutti gli sguardi accigliati o semplicemente sorpresi dei vari essere umani che avanzano lungo il marciapiede.

Come Toby, dunque, mi faccio pian piano indifferente, sfuggendo agli sguardi; persino un cane sa che conviene.

Giunti in concomitanza di un locale commerciale, uno dei tanti pub tra quelli sparsi per tutta Londra, non manca poco per permettermi di avvertire nel comportamento del cane un lieve sensore di cambiamento. Il segugio, infatti, prende a girare in tondo – simile a una trottola impazzita –, in un più che evidente stato di massima eccitazione. L'apice della situazione sembra raggiungerlo nel momento in cui il solo annusare una ruota appartenente a un furgoncino azzurro parcheggiato lungo il margine di questo marciapiede causa in lui un irrigidimento istantaneo, con tanto di zampe ritte e testa fissa a indicare tramite lo sguardo lo stesso mezzo di trasporto.

«Ehi, cos'hai scoperto, bello?». Mi piego di poco all'altezza del cane prestando particolare attenzione agli occhi scuri e profondi di quello, concentrati e chiaramente interessati alla parte posteriore dell'auto. Sembra, in effetti, che proprio lo scomparto con funzione di trasporto oggetti possieda la giusta risposta al comportamento di Toby.

Posso immaginare perciò che la causa di tutto questo sia proprio l'odore che ne deriva, in qualche modo impregnato di un forte sentore di Chloe, la barboncina scomparsa.

Stavolta autorizzo volentieri Toby ad aggirarsi – senza alcuna resistenza da parte mia – tutt'intorno al fugone parcheggiato, mostrandomi con una ancor più marcata certezza l'esistenza del primo vero indizio circa il caso. Il cane, difatti, riprende ad annusare l'aria con maggior eccitazione, passando poi in rassegna ruote, marmitta e tutta la carrozzeria, portandomi perciò a pensare che, forse, la risposta al nostro mistero sia più vicina di quanto si pensi.

Se davvero le tracce della piccola Chloe hanno condotto tutti i suoi quattro miliardi di recettori olfattivi sino a qui, un motivo ci sarà.

Riprendo il comando del guinzaglio, oramai stufa di ripetere lo stesso girotondo intorno al mezzo a quattro ruote per la terza volta, arrovellandomi allo stesso tempo circa il prossimo da farsi. Mi osservo un po' intorno cercando quanto meno un qualunque londinese che si faccia passare per un probabile proprietario del mezzo, magari mostrando uno sguardo accigliato nei confronti di Toby e il trattamento da lui riserbato al furgone. Nessuno pare esserne interessato.

Continuo a restarmene ferma in questo punto del marciapiede, combattendo fra la voglia di mollare tutto e andare via, e l'altrettanto desiderio di continuare a dilettarmi come una giovane detective in erba alle prese con un'indagine che di certo non può permettersi di arrestarsi. Non ora, quando c'è di mezzo un camioncino azzurro sospetto contenente tracce evidenti di un animale da ritrovare.

Non con l'immagine arcigna di un certo detective allampanato, pronto a fare di me una delle sue povere vittime da schernire a suo piacimento soltanto per via di una sfida che ho deciso di abbandonare così su due piedi ancor prima di esaminarla più da vicino.

E certamente, non dopo il suo piccolo grande aiutino fornitomi tramite il segugio qui presente, senza il quale, lo so bene, niente di tutto questo sarebbe stato possibile.

«Okay», mi dico emettendo un profondo respiro, ma stavolta intriso di una, seppur timida, determinazione a prendere il posto della rassegnazione.

Non mi serve riflettere due secondi più del necessario che già mi appresto a tirare a me il pesante Toby per raggiungere il retro del furgone. Qui, in bella mostra, la targa del suddetto attende solo di finire immortalata dal mio cellulare, così da poter essere esaminata da gente ben più esperta di me e prendere di conseguenza il giusto provvedimento a riguardo; perché, in fondo, cos'altro potrebbe mai essermi permesso di fare ancora?

Comincio, dunque, a frugare in borsa in una forsennata ricerca, quella però impedita sin da subito dal caos più totale che solo nella tracolla di una donna è possibile trovare. Il piccolo ma ingombrante fagotto dato dalla copertina color giallo canarino ostruisce quasi interamente lo spazio dedicato a tutti gli altri oggetti racchiusi all'interno, tra i quali il mio telefono, impedendone un'intercettazione immediata.

In casi come questi mi chiedo come riesca una semplice borsa di media capienza a contenere così tanti manufatti, alle volte più impensabili. Spesso sono seriamente portata a credere all'esistenza di un buco nero sul fondo.

Comunque sia, insisto. Tuttavia mi è concesso di farlo solo per un brevissimo attimo; uno strattone proveniente dal collo massiccio del cane fa tendere il guinzaglio in maniera talmente veloce da risultarmi imprevedibile.

«Toby!». Non sono in grado di contenermi oltre dall'urlargli esasperata, continuando ad ammonirlo soprattutto quando un abbaio forte e acuto fuoriesce dalle sue fauci.

Tutto ciò, nel momento che vede l'uscita in strada da parte di un paio di uomini in tute da operai, intenti ad aiutarsi a vicenda col trasporto di una sorta di cassa all'apparenza pesante. Subito mi adopero a togliermi di mezzo insieme a un Toby tutto fuorché intenzionato a seguire il mio esempio. Infatti, il bestione peloso insiste a restarsene impalato, ritto su tutte e quattro le zampe, con la chiara intenzione di sbarrare la strada ai due uomini appena emersi dalla soglia riportante il civico numero ventuno di questo palazzo che ci sovrasta.

Mi faccio portavoce attiva di quella sua cocciutaggine canina, schiarendomi la voce e ripetendogli un ancor più marcato: «Forza, Toby! Vieni via!» ottenendone come risultato solo un'occhiata vacua e allo stesso tempo innocente. Arrossisco pian piano per questo imbarazzante momento che vede i due operai impossibilitati a raggiungere il vano di carico del furgone messo solo pochi minuti fa sotto attenta ispezione dall'eccezionale fiuto di Toby.

Poi, un ringhio basso e appena percettibile, se non solo per l'immediata reazione di terrore che ben traspare dai due operai ancora in attesa di vedere libero il passaggio, mi induce appena a indietreggiare di rimando, non capendo però il motivo di tanto risentimento. Poi, ancora, a quel digrignare di zanne, ora più che mai scoperte e rivolte con constante prepotenza ai due uomini, una serie di abbai squillanti e potenti accompagnano l'inusuale reazione canina, tant'è che mi vedo costretta a prendere provvedimenti prima che qualcuno dei due operai, nel frattempo rimasti paralizzati lì sul posto, possa farsi male, magari lasciando cadere al suolo la cassa pesante che ancora attende di essere inserita nello scomparto del furgone.

«Toby!».

Stavolta un piccolo sprazzo di fortuna fa sì di riuscire nell'ardua quanto faticosa impresa di trascinare via da quelli l'animale cocciuto. Ulteriori piccoli brontolii rabbiosi insistono a fuoriuscirgli di bocca mentre la coppia di giovani operai pare ridestarsi vedendo questo momento di tregua come la giusta occasione per riporre – con una certa fretta – la grande cassa in legno chiaro in fondo al vano di carico.

Dopodiché, alla scomparsa di uno dei due uomini all'interno della casa, segue quasi subito un'ulteriore apparizione dello stesso, stavolta trasportando tra le mani quello che pare una sorta di scatolone coperto nella parte superiore mediante un lenzuolo bianco. Un'occhiata in tralice mi viene rivolta dall'uomo, cosicché mi fa decidere di scostare altrove lo sguardo fingendomi disinteressata, ma non per questo restia a sbirciare di soppiatto quel suo curioso operato.

Stesso posto nel mezzo a quattro ruote viene occupato dal nuovo oggetto il quale, insieme alla cassa rettangolare riposta precedentemente, si dilegua alla mia vista non appena le due ante color azzurro chiaro vengono richiuse con un tonfo secco.

Identica fine spetta all'intero furgone quando, in un battibaleno, lo sento rimettersi in moto, pronto a lasciare la sottoscritta e il suo cane "aspira odori" impossibilitati ad azionarsi in un'azione elementare come scattare una semplice fotografia. Il mio intento di immortalare la targa è oramai sfumato, reso ancor più vano dalla mia stupida dimenticanza per non aver pensato a memorizzare abbastanza in fretta la combinazione di lettere e cifre che sarebbero poi state in grado di identificare in modo univoco il veicolo stesso. Chissà se grazie a quell'ipotetica foto sarebbe poi stato possibile collegare il furgone, e insieme, i due all'apparenza normali operai appena montati su, alla sconcertante sparizione della barboncina bianca.

Il fatto che il fiuto infallibile di Toby abbia dato chiari segni affermativi una volta raggiunta questa parte di quartiere potrebbe significare una prova schiacciante a questa mia ipotesi, senza tralasciare la presenza dei due strani imballaggi contenenti chissà che cosa e che, in base agli innumerevoli brontolii rabbiosi di Toby, avrebbero potuto possedere qualcosa di parecchio pertinente alla mia indagine.

Il furgone si perde così ai miei occhi in una scia di rumore e fumo grigiastro. Volgo lo sguardo su Toby al mio fianco, per ritrovarlo in atteggiamento scalpitante, con occhioni puntati alla sagoma del mezzo sempre più lontano.

A questo punto, mi dico, che il gioco ricominci!

Sprono a mo' di cavallo il segugio frustando appena l'aria al di sopra del manto scuro, servendomi del suo stesso guinzaglio; lascio a lui il pieno controllo della situazione. Come da sospetto, Toby si aziona in avanti come spinto da una molla invisibile, trascinandomi con sé in questa nuova attività di pedinamento.

A quanto pare, le tracce percepite dal suo fiuto proseguono man mano che il piccolo furgone si allontana sempre più dalla nostra portata; inutile specificare quanto faticoso, immagino già, sarà per due pedoni quali ci troviamo a essere stargli dietro, per di più senza poter rischiare di incappare nel rischio di essere visti dai due misteriosi giovani a bordo di quello.

Trottando all'immediato seguito di Toby maledico ancora una volta quel lato di me perennemente attratto dai guai ma non per questo capace di far fronte a una situazione tanto strampalata come questa e come d'altronde lo sono tutte le altre vissute fino ad ora, inoltre facilmente riconoscibili perché convergenti verso un unico comune denominatore: Sherlock William Scott Holmes.

Scopro la macchia azzurra e quasi del tutto indistinta – perché nascosta dalla calca di ulteriori mezzi di trasporto – del furgone continuando a seguirla più che con le gambe, per mezzo dei miei soli occhi a causa dell'inaspettata svolta che prendono le quattro ruote, imboccando la sinistra del prossimo incrocio e perciò scomparendo del tutto dalla visuale.

Un senso di afflizione sento montarmi dentro. A questo punto credo che un attacco di panico sia più che imminente.

Nel momento in cui penso a scansare con successo un ragazzo con le cuffiette alle orecchie e uno sguardo stralunato prima di finirci contro, un pulsare deciso di un clacson riesce a distinguersi in mezzo alla calca delle poche auto in circolazione. In un primo momento non penso a darci alcunché di importanza proseguendo imperterrita, seppur un bel po' trafelata, lungo questo marciapiede, ma solo finché una vocina strillante, unita ancora a quel suono di clacson mutato ormai in un vero e proprio concerto a ripetizione, non mi fa decidere di voltarmi.

Persino Toby sembra accettare questa mia breve pausa con la sola differenza da parte sua di non avere la più pallida idea della donna che trovo dall'altra parte del finestrino e che mi guarda con un sorriso da gigante.

«Ehi, Annie! Era ora che ti voltassi!», esclama a mo' di finto rimprovero Amelia Cage, nipote di Amethyst Price, equiparando in contemporanea la sua macchina col margine del marciapiede su cui mi trovo.

La giovane tiene i suoi occhi verdi da cerbiatto fissi su di me in atteggiamento curioso, mentre io me ne rimango incantata dalla sorpresa nel trovarla al volante di una vera e propria auto d'epoca. Grande è la mia ammirazione nei confronti della stramba vettura tinteggiata di un bel blu metallizzato, piuttosto lunga e a mio parere ingombrante rispetto a un'altra ben più moderna e tecnologica, e perciò più congrua ai nostri giorni. Ciò non toglie eleganza e fascino a un'automobile tenuta così ben conservata e lucida, come se il tempo avesse cessato di scorrere fin dal giorno in cui fu messo per la prima volta in commercio il suo primissimo prototipo.

I grandi e rotondeggianti fanali vengono d'improvviso spenti, insieme a tutto il resto, lasciandomi quindi intendere la volontà di Amelia di scendere dal suo mezzo.

Ma prima che la ragazza possa anche prendere in considerazione l'idea di liberarsi dalla cintura di sicurezza, mi aziono per dirle: «Perdonami, ma vado un bel po' di fretta!», gesticolando un po' a casaccio con la mano libera dal guinzaglio e gettando al contempo un'occhiata verso un punto imprecisato della via che si dilunga ancora per diversi metri davanti a me. Forse mi aspetto per davvero di rivedere il misterioso furgone azzurro fare marcia indietro e concedermi così qualche passo di vantaggio su di esso.

«E quello chi è? Non mi dire! ... È il tuo cane?», sento domandare Amelia con accesissima curiosità e sporgendosi quanto più dal sedile del conducente dove si trova per meglio adocchiare Toby il segugio.

«Veramente, no... lui è... un aiutante! Riguarda il caso, Amelia, e io dovrei prop...»

«Cosa? Sei sulle tracce di Chloe?».

A questo punto gli occhi della mia cliente quasi le escono dalle orbite.

«Proprio così», affermo con un'idea che comincia a balenarmi nella mente. Mi avvicino ancor più al finestrino aperto, spronando Toby a fare lo stesso. Col collo allungato verso l'interno della vettura mi ritrovo a sussurrarle: «Sospetto che ci sia di mezzo qualcuno nella scomparsa di Chloe, un camioncino completamente azzurro su cui solo pochi minuti fa, Toby – si chiama così a proposito – ha intercettato delle tracce molto marcate di questa...», spiego alla ragazza fiondandomi a ripescare dalla mia borsa un piccolo lembo di morbida copertina appartenente alla barboncina di sua nonna. «Ti andrebbe di aiutarmi?».

Al mio quesito Amelia pare illuminarsi di luce propria, un vero e proprio contagio di entusiasmo per il mio umore solo un attimo prima annerito dai dubbi e dai mille interrogativi.

«Salite in macchina!».

Sorrido non essendo neppure in grado di non lasciarmi sfuggire un piccolo saltello di pura gioia.

«Andiamo, Toby!».

In men che non si dica, siedo comodamente alla sinistra di Amelia Cage, con un Toby grande e grosso, che con la sua mole pensa a ingombrare quasi per intero lo stretto sedile posteriore. Constato, stupita e affascinata, lo stato come nuovo di tutta quanta la tappezzeria che riveste l'abitacolo: morbida pelle nera tenuta linda in un modo quasi maniacale risulta lucidissima e perfettamente intatta, il tutto impregnato di un marcato profumo fruttato proveniente da un liquido rossastro contenuto nella boccettina di vetro, quest'ultima pendente e agganciata tramite un laccetto allo specchietto retrovisore.

«Bene, Annie, fa strada!».

Da ciò, la storica automobile riprende vita accompagnata da un rombo potente e per nulla rachitico, sebbene la sua più che longeva età avrebbe potuto suggerirlo eccome. Sulla mia spalla avverto il leggero ansimare di Toby, rimasto in posizione eretta e a sporgere, autoritario, il gran testone peloso tra i due sedili anteriori. Chissà, mi piace pensare, per ben seguire la panoramica stradale, perché speranzoso di poter scorgere per primo il fantomatico furgone azzurro scovato magistralmente per suo stesso fiuto.

«Sinistra!», ordino alla giovane conducente, ormai prossimi al semaforo verde.

Intrapresa la stessa svolta effettuata dal misterioso mezzo di trasporto non ci resta che procedere, dunque, a tentoni per questa via, per poi decidere da quale altra parte andare senza poter fare affidamento su nulla se non solo su un puro e semplice intuito femminile e canino.

Scrutando al di fuori di questo abitacolo mi rendo subito conto di come, al nostro passaggio, gli innumerevoli sguardi dei passanti paiano soffermarsi in maniera piuttosto insistente sulla vettura in cui mi trovo. Una macchina come questa non passa di certo inosservata, perciò mi chiedo in che modo potrà mai sperare di mimetizzarsi alla meglio nell'esatto momento in cui ci toccherà fare i conti con un vero e proprio inseguimento se pure a distanza.

«Allora, Annie, spiegami cosa sta succedendo e, soprattutto, perché un mastino gigante mi sta alitando nell'orecchio».

Vengo interrotta dal mio breve meditare per essere indotta a girarmi verso la fonte di quella richiesta più che lecita e contornata da una certa ironia divertita.

Sorrido sollevando appena un angolo della bocca imitando inconsciamente un certo geniaccio iperattivo di mia conoscenza. Quindi, mi rivolgo a Toby il quale come sentendosi preso in parte, inchioda le sue grandi palpebre cascanti su di me. A questo punto un leggero buffetto sul grande nasone in segno di riconoscenza è più che dovuto.

«Devo il prezioso aiuto di Toby a Sherlock Holmes», mi trovo a confessare mio malgrado ad Amelia.

«Sul serio? Questo significa che il detective ha preso parte all'indagine?».

Domanda allora eccitata oltre ogni limite la ragazza, chiaro segno che mi porta a dedurre quanto sia sinceramente interessata a Sherlock.

C'è mai forse qualcuno pronto a mostrare il più scostante disinteresse per l'affascinante Sherlock Holmes? ... Magari qualcuno c'è pure: la mai del tutto simpatica Sally Donovan del dipartimento di Scotland Yard e, non meno importante, il membro della polizia scientifica, Philip Anderson "l'idiota", quello capace di far abbassare con la sola voce dei suoi pensieri il quoziente intellettivo di un intero quartiere. Parole di Sherlock. Oh, e dimenticavo, naturalmente ci sarebbe un gran bel considerevole numero fra quelli che sono i più disparati esponenti del genere umano, entrati tanto fortunatamente in contatto con il consulente ma disgraziatamente caduti poi vittime della sempre diretta oltre che biforcuta lingua del giovane.

Insomma, se solo Amelia sapesse...

«Credo proprio di no... Il detective è ancora impegnato in altre faccende a me sconosciute, posso solo ipotizzare si tratti di un omicidio», azzardo quest'ultima confessione.

«Oh, credo di averne sentito parlare stamani all'università. Un uomo sui quarantacinque anni è stato ritrovato morto in un cantiere vicino Belgravia. Non so altro, magari è lo stesso uomo!».

«Ah, davvero? Se così fosse sarebbe un'incredibile coincidenza...», mormoro, ripescando con la mente l'immagine di Holmes e insieme uno dei suoi detti preferiti: Le coincidenze non esistono. Raramente l'universo è così pigro.

Scaccio via tale congettura, tornando a concentrarmi sulla via che si va aprendo davanti ai miei occhi. 

«Amelia, dimmi che non ci sono accessi laterali». Prego che sia così, chiedendo conferma alla mia vicina dopo aver individuato un paio di svincoli stradali alternati ora a destra, ora a sinistra, senza vedere un qualche tipo di mezzo immettersi nella nostra stessa carreggiata.

«Per nostra fortuna no. Se quel furgone è passato di qui e deve proprio averlo fatto, può aver solo proseguito in rettilineo, ma la cosa si farà decisamente difficile quando ci troveremo ad aver a che fare con uno degli innumerevoli fulcri di questa parte di Londra. Il centro di Belgravia si trova solo a circa venti metri, e questa è solo una delle tante ramificazioni affluenti verso il caotico via vai. Credi che il tuo amico Toby sarà in grado di dirci da quale parte andare?».

Ripiombo in un nuovo e inevitabile sconforto, e una nuova sconfitta si impossessa di me. Poi, una delicata frenata dell'automobile mi convince a sollevare lo sguardo, spostandolo dalla mia tracolla poggiata intanto sulle ginocchia, un po' più su alla coda di auto che davanti a noi attendono pazientemente di procedere per il solito tram tram cittadino. Di nuovo, un semaforo questa volta illuminato di rosso impedisce il fluire dei mezzi. Ancora pochi metri e potremo accedere a un'area vasta e ricca di vitalità.

Qualche secondo di attesa che, insieme al verde del meccanismo semaforico, vedo Amelia ingranare la prima e dopo poca velocità acquisita anche la seconda marcia. Qui, una rotatoria, ampi viali e marciapiedi vedono il susseguirsi di locali commerciali le cui innumerevoli vetrine mostrano capi d'abbigliamento, disparati clienti seduti su sgabelli o a tavolini di pub o di ristornati gremiti, in una calca di insegne grandi e piccole, colorate o illuminate a intermittenza e che informano sull'identità – talvolta bizzarre – di ogni singolo posto. Quello che sembra un piccolo parco ci fiancheggia da uno dei suoi quattro lati mentre il mezzo dentro il quale mi trovo si dirige lungo un viale adorno di lampioni neri posti in una lunga serie che pare infinita.

«Accidenti! Non lo troveremo mai», lamenta giustamente la nipote dell'anziana vedova Price, emettendo un sonoro sbuffo spazientito. Noto tutto il suo disappunto in base al modo con cui tiene strette le mani sul volante, tanto da farsi diventare bianca ogni singola nocca.

«Mi dispiace tanto, Amelia, ero così sicura che sarebbe stata la volta buona per ritrovare Chloe...».

La mia voce è niente più che uno stupido piagnucolio tremolante.

Quasi non mi riconosco. Sarà per tutta questa storia che vede un povero animale abituato agli agi e all'affetto di persone buone e care, scomparso così da un momento all'altro senza lasciare tracce. E proprio ora che di tracce ce n'erano eccome, il destino ha voluto che i miei sogni di gloria venissero meno, perché ostacolati dal solo vagare per chissà dove di un furgone contenente due carichi anonimi.

Una sconfitta senza dubbio per me scottante, colpevole solo di aver mancato di velocità nel fotografare quella maledetta targa.

«A questo punto credo che la cosa più plausibile da fare sia testare una seconda volta l'efficienza del fiuto di Toby. Chissà, probabilmente quel furgone è più vicino di quanto pensiamo. Sei d'accordo An-»

«Sosta!».

La brusca manovra attuata da Amelia per via della mia improvvisa sollecitazione mi porta a essere sballottolata di fianco, fortunatamente venendo miracolata grazie all'azione della cintura di sicurezza. Sento Toby muoversi goffamente e in modo piuttosto irrequieto sui sedili posteriori.

«Dove? Hai visto qualcosa? Annie?», domanda trepidante la ragazza scuotendo insistentemente la testa da destra verso sinistra e viceversa.

Il motore dell'automobile se ne resta acceso e tremolante, quasi quanto il respiro che sento accelerare di pari passo a questa mia crescente eccitazione.

«Più vicino di quanto pensiamo...», sussurro a occhi sbarrati mentre sollevo il mio indice destro in direzione del parabrezza. Indico un veicolo azzurro parcheggiato proprio davanti al primo posto libero in doppia fila occupato da Amelia nell'immediato secondo che ha seguito alla mia inaspettata reazione.

Non mi resta che rimangiarmi tutto. La fortuna è dalla mia parte.

- Sherlock's POV

- Obitorio Saint Bartholomew's Hospital

Percorro il lungo corridoio bianco e asettico con John al mio immediato seguito. Un addetto alle pulizie si materializza da una delle tante porte intervallate su questo particolare piano dell'edificio: altezza media, un divorzio alle spalle e jeans troppo larghi e scoloriti, ricuciti inoltre in tre punti ben visibili. Quest'ultima particolarità offre un chiaro indizio di quanto non sia affatto facile vivere in ristrettezze economiche senza però farsi mancare un bicchierino a fine giornata come unica consolazione al lutto subito di recente.

La ragazza dal camice bianco se ne sta curva e concentrata nella compilazione di un plico di scartoffie relative ai vari esiti delle multiple autopsie effettuate in giornata.

Mi basta niente meno di una frazione di secondo per veder comparire sul viso pallido e smunto di Molly Hooper – sollevato tanto in fretta – un sensore di sorpresa nel momento in cui mi faccio annunciare tramite uno scatto deciso e affrettato del meccanismo della maniglia antincendio.

«Sherlock! Ehm... sì, ciao anche a te, John», si cimenta la patologa in uno dei suoi soliti goffi, impacciati e mal riusciti tentativi di fare conversazione.

La timidezza celata dietro a un sorriso serrato viene fuori quando a un mio serafico: «Ciao, Molly» seguito da un muto cenno col capo da parte di John, induce la ragazza ad abbassare di punto in bianco lo sguardo, preferendo come nuovo punto focale la superficie metallica e fredda di uno dei tavoli che ingombrano la stanza occupata da un cadavere in particolare. Benché coperto da un lenzuolo candido, risaltano all'occhio una serie di macchie rossastre e giallognole sparse in alcuni punti i quali, suppongo, vanno a premere maggiormente laddove l'autopsia, ancora fresca di tempistiche, ha dato i suoi risultati.

Con le narici impregnate di un persistente odore di disinfettante e formalina, avanzo precedendo John verso il lungo tavolo autoptico e la figura informe postavi al di sopra.

«Che fortuna! Sei arrivato giusto in tempo. Era l'ultimo nella mia lista, troverai le cuciture ancora fresche». Spiega Molly a testa bassa ma pure con un certo orgoglio nella voce flebile, affrettandosi inoltre a scostare per intero il lenzuolo bianco coprente il cadavere dell'assassinato Lawrence Marshall.

Mi appresto dunque a tirar fuori dalla tasca del cappotto la mia solita lente d'ingrandimento retrattile, portandomela all'occhio destro dopo aver raggiunto e sovrastato con la mia ombra il corpo freddo e ceruleo del cadavere.

Passo in rassegna ogni singolo centimetro di pelle nuda a iniziare dal capo biondo al cui centro del viso – appena più su del naso ora squarciato per metà – un foro di pistola pensa a sfigurare l'aspetto generale di Marshall.

Proseguo lungo il collo muscoloso, fin giù al torace ben allenato, tralasciando la superficie che ne segue perché attratto invece dalla cute martoriata e ricucita alla bell'e meglio in più punti su entrambe le braccia, lì dove delle lacerazioni profonde diversi centimetri in direzione dei due avambracci mostrano una dinamica piuttosto curiosa circa il tragico caso omicida.

Segni evidentissimi di morsi violenti scavano nella carne ormai esangue, lasciando il posto a diversi crateri di interi pezzi di pelle mancante.

Morsi indubbiamente inferti solo da una mascella forte, ben assortita di denti grandi e aguzzi e con un paio di canini acuminati e spietati.

«Molly, dimmi un po'.... Cosa puoi dirmi di tali ferite?», mi rivolgo alla donna riportando la mia schiena dritta e ricacciandomi la piccola lente in tasca. La mia interlocutrice solleva lo sguardo su di me ma abbassandolo a intervalli di circa due secondi, cercando al contempo la risposta migliore da darmi.

«Si tratta senza dubbio di morsi dovuti a un animale... un cane. Un randagio affamato, probabilmente. Greg pensa sia andata così...».

«Scusa, e questo Greg chi sarebbe?», chiedo interrompendola, sinceramente sorpreso.

Molly mi guarda ora come folgorata. Credo non si aspettasse una simile svista da parte mia.

«È Lestrade». Sento allora John anticipare Molly nel delucidarmi.

«Oh, certo», farfuglio stupidamente, pur non ricordando affatto un dettaglio simile. Probabilmente se ne starà chiuso in un settore dedicato ai dettagli irrilevanti da qualche parte nel mio cervello. «Okay... Bè, si sbaglia, come al solito», attesto poi riacquistando pieno controllo delle mie conoscenze mentali.

«Intendi dire che non si è trattato di un cane?», chiede ancora John, le braccia incrociate al petto.

«Oh, andiamo, John, chi altri potrebbe essere stato? Un lupo? ... A Londra? Oppure lo stesso aguzzino che gli ha sparato in fronte? Magari era un licantropo... È ovvio che si tratta di un cane! ... e anche bello grosso a giudicare dalla gravità dei danni riportati sulle ferite. Vedi, John, l'errore è un altro. Ce n'è un'altra di ferita oltre a quelle provocate dal proiettile e dai morsi, ed è appena sopra la spalla sinistra. È fresca come le altre, quindi causata nello stesso momento che ha preceduto la morte dell'uomo a opera del proiettile sparato in fronte. È profonda ed è stata inferta con tenacia – un piccolo pugnale a giudicare dalla lunghezza della linea. Ma per quale motivo?»

«L'assassino potrebbe aver cercato di colpirlo alla gola senza riuscirci? Magari l'ucciso ha cercato di difendersi facendosi così mancare...»

«No, John, niente di tutto questo. Osserva ancora le due ferite sugli avambracci. Cosa noti di interessante?».

Grazie al mio incitamento John pare destarsi dal suo torpore mentale, avanzando verso il ripiano del tavolo e riducendone la distanza.

Il capo biondo cenere dell'ex medico militare va ad abbassarsi a pochi centimetri dalla ferita di destra, passando poco dopo anche all'opposta. La fronte corrugata si rilassa tanto in fretta come se fosse stato colto da un lampo.

«Intravedo dei segni qui... credo... due stessi tagli obliqui e per di più inferti alla stessa altezza di entrambe le braccia. Sembrano molto simili alla ferita sulla spalla causata dall'arma da taglio da te citata».

Sorrido soddisfatto.

«Bene. Cosa puoi dedurne?», lo incito ancora. Da sua parte segue una medesima occhiata riflessiva e persa da qualche parte in direzione della mia sciarpa.

«Un semplice cane randagio non può accanirsi così ferocemente su di un corpo senza vita. Perché avrebbe dovuto farlo?», rimugina l'uomo con sguardo accigliato e fisso.

«In teoria avrebbe potuto se l'uomo in questione fosse stato ancora vivo e sanguinante e si fosse ribellato alle zanne. L'animale sarebbe stato indotto a colpire in maniera più cruenta, indotto dalla fame, succube dell'istinto da cacciatore risvegliatosi alla vista di sangue caldo associato a quello di una semplice preda inerme.

Ma no, possiamo escludere una volta per tutte che l'uomo fosse ancora vivo dopo essere stato colpito da un proiettile andatosi a conficcare nel cervello. Punto secondo, se pure ammettiamo che un cane di passaggio abbia cercato di sbranare la nostra vittima, allora come mai, dovremmo chiederci, niente segni di lotta che ci dicano che l'avvocato abbia cercato di difendersi da un animale o se pure da un altro essere umano? Le sole impronte rinvenute all'imboccatura del luogo incriminato ci dimostrano come l'uomo sia stato trasportato per mezzo di un furgone – per l'esattezza – e che gli uomini artefici del delitto siano stati esattamente due.

Detto questo, possiamo escludere l'intervento di un cane randagio, ancor più il fatto che l'uomo sia stato sparato direttamente in quel cantiere».

«Ma allora come... ?»

«Un cane centra comunque».

La vocina irrotta quasi come un lieve soffio di vento fa voltare me e John in quella direzione. Al di là del lungo tavolo, Hooper osserva entrambi intimorita.

«Sono tutt'orecchie, Molly», annuncio quindi mostrando alla ragazza tutta la mia curiosità e invitandola a parlare mediante un cenno affermativo della testa.

«Ecco... A parte i morsi sulle braccia... io... Io ho trovato diversi campioni di... peli canini! Sia sul vestiario del defunto che alcuni sotto le sue unghie e pure una considerevole dose di saliva animale, in particolar modo sotto l'indice e il medio della mano destra».

«Hmm... Potrei esaminare questi peli?», domando alla donna ricevendone un fugace e timido sì mimato con le labbra pur senza produrre alcun suono.

Comunque, torna una manciata di secondi dopo con due diverse buste salva prove tra le mani esili, e che mi porge con un sorriso piatto.

Senza attendere altro mi fiondo verso la prima lampada da tavolo accesa disponibile mettendo sotto mia attenta osservazione ogni singola prova racchiusa nelle buste.

«Cosa stai cercando?». Ancora le corde vocali di Molly Hooper vibrano a vuoto facendomi arrivare alle orecchie solo un flebile mormorio.

«Bè, Molly, devi sapere che ogni tipologia di pelo canino varia in base a uno specifico colore, spessore e dimensione, da ciò è possibile ricondurre un solo frammento di un pelo a una specifica razza canina, capisci? E quello che sto cercando di constatare adesso è se quei peli rinvenuti sotto le unghie dell'ucciso siano esattamente di un cane capace di tale forza e cruenza per reagire così davanti al sangue di un essere umano».

«E... ?», si esprime John.

«Non sarò un vero e proprio indovino, ma vi assicuro che il cane responsabile di quelle ferite di certo non può essere un setter irlandese, un barboncino, né tanto meno un innocuo corgie, i quali frammenti di peli sono stati invece ritrovati sugli abiti dell'uomo.

Signori, abbiamo di fronte a noi quelli che sono dei morsi provocati da un animale, e che vanno ben oltre il semplice attacco provocato dall'istinto, ma da parte di un vero e proprio animale addestrato alla violenza. E quei segni appena percettibili di ferite da taglio su braccia e spalla ne sono una prova.

Quei tagli indicano la volontà da parte di qualcuno di indurre il cane – o i cani –, di aizzarlo cioè, tramite la presenza di sangue, tanto voracemente contro il poveretto. Sapreste arrivarci al perché da soli?».

Un silenzio di tomba ricopre il tutto esattamente come ogni singolo lenzuolo bianco fa coi diversi corpi rigidi e privi ormai di null'altro perché inutili contenitori vuoti.

«Buon Dio... Usate un briciolo di immaginazione! ... Sul serio non vi è chiaro?»

A un titubante cenno negativo di entrambi mi esprimo in uno sbuffo di impazienza, facendo seguire un lungo respiro per poi aprire bocca.

«C'è un motivo a quei tagli inferti prima che si perpetrasse il vero e proprio omicidio, ed è questo il dettaglio più rilevante. Si tratta di una banda, scaltra e molto accorta, senza dubbio gente senza scrupoli che non si impressionerebbe ad assistere al macabro spettacolo di un uomo, quello nell'atto di essere sbranato da un gruppo di cani addestrati alla violenza. Questo genere di criminali ha in pratica utilizzato dei cani al fine di ammazzare l'avvocato senza dover necessariamente alzare un solo dito, e questo perché? ... Intendevano farlo passare per un comune incidente e nascondere in questo modo ogni loro traccia.

Da ciò, la presenza di peli e saliva sotto le unghie del cadavere a testimonianza di un seppur vano tentativo di difendersi dagli attacchi di quelle zanne. Tuttavia qualcosa dev'essere andato storto considerato il buco in fronte che si ritrova adesso l'uomo. Inoltre, niente segni su polsi o gola che ci facciano capire che potrebbe essere stato legato per facilitare ai cani lo sbranamento. Il signor Marshall era libero di muoversi, nonostante non avesse avuto vie d'uscita. Una stanza, forse, o magari lo stesso furgone dentro al quale si è visto trasportare fin sul luogo del ritrovamento».

«Ehi, aspetta solo un secondo, Sherlock... Ma allora per quale motivo lo hanno sparato?»

«L'ho già detto, John. Il piano è andato in fumo, probabilmente neppure quei cani hanno mai davvero avuto intenzione di uccidere l'avvocato. L'unica cosa opportuna da fare dopo averlo scoperto ancora vivo era, per l'appunto, conficcargli un proiettile bello grosso nel cranio».

Ora, non ritenendo più opportuno spendere parte del mio prezioso tempo ancora qui, sprono le mie gambe ad abbandonare la bianca saletta, senza affatto prodigarmi di chiamare a raccolta John Watson e quella sua comunissima aria corrucciata di chi non ha mai la più pallida idea del perché delle mie azioni.

Supero la gracile figurina di Molly lanciandole niente più che uno sguardo distante, lei d'altro canto pensa a inarcare di poco le labbra piccole e sottili, esibendosi ancora una volta in un medesimo sorriso atto a far trasparire solo e soltanto un insulso atteggiamento di incomprensibile sottomissione.

Ma subito alle mie spalle il suono concitato di passi sempre più affrettati nel raggiungermi mi portano a voltare di pochi gradi il busto, per poi riportarlo dritto una volta avermi visto affiancato dal medico. Pochi secondi di mutismo mentre percorriamo il lungo corridoio deserto, che già un'altra domanda di John mi distoglie dalle mie congetture mentali.

«Sherlock, in tutta la tua affascinante quanto macabra spiegazione sull'accaduto sappiamo qualcosa del movente?»

«È tempo che Scotland Yard si impegni a risolvere un nuovo grattacapo, no? Ho altre faccende a cui pensare», rispondo all'uomo tenendo lo sguardo puntato dritto davanti a me, per poi deviarlo bruscamente verso sinistra, insieme alle mie gambe le quali si apprestano a varcare una delle due ante che vanno ora aprendosi a mostrare tutto un mondo fatto di scienza e ricerca, metodo e logica. Il mio mondo racchiuso per intero in un'unica stanza.

Il laboratorio di ricerca patologica, per il sottoscritto aperto a tutte le ore del giorno e della notte – un semplice passepartoute offertomi tanto gratuitamente da Molly – mi offre come sempre spazio e strumenti scientifici per poter assecondare le mie, costanti e utili ai miei casi, meticolose analisi chimiche.

Qui dentro, la stragrande maggioranza dei saperi teorici che tengo rinchiusi nella mia testa trovano come sempre terreno fertile per un'applicazione invece pratica.

« E questo è ciò che riguarda le tue... faccende?».

Sollevo lo sguardo al di sopra del piano di lavoro dietro cui ho preso posto su di uno sgabello girevole, trovandomi a che fare con un John Watson in una smorfia grottesca con tanto di sopracciglio inarcato.

«Oh, mi conosci bene. Credi davvero che quegli imbecilli perditempo di Scotland Yard sarebbero in grado di arrivarci da soli? Le impronte che gli assassini ci hanno fatto l'onore di lasciare sul terriccio non si analizzeranno da sole. Resti con me?», domando infine pur già conoscendone l'esito.

«Bè, se ci tieni. Ma prima voglio farti un'ultima domanda».

«Fa che sia l'ultima», gli dico alzando gli occhi al cielo, ma tornando a fronteggiarlo con complicità.

«Bene... Come ci sono finiti quei residui di peli canini sui vestiti della vittima?»

«Ma bravo! Mi congratulo con te, John, è la prima vera domanda utile posta fino ad ora».

In verità, avrei preferito che tale quesito non avesse mai neanche sfiorato la mente placida e quasi interamente dormiente del mio coinquilino.

Per qualche ragione non mi è ancora tenuto conoscerne la causa, avendo io stesso constatato l'inesistenza più totale di animali domestici nella dimora benestante dell'avvocato Lawrence Marshall pur nonostante i numerosi tentativi da parte dei suoi due figli – una femmina di undici anni e un maschio di quattordici – di convincere i loro genitori a poterne avere uno. La signora Marshall, alias Murray ne è risultata una moglie sincera e devota, riconoscente verso suo marito per averla da sempre trattata con amore e devozione. Niente relazioni clandestine da parte di entrambi, niente rapporti che lasciassero trasparire tempeste all'orizzonte, nulla che mi abbia dato la certezza di avere a che fare con un qualche sorta di omicidio passionale. Sua moglie ha praticamente pianto tutto il tempo stringendo al petto una piccola fotografia ritraente il suo compagno. Lacrime sincere. Occhiaie scure e profonde, pelle del viso trascurata, indossava la stessa camicetta già da due giorni; una macchia di cibo oleoso ne oscurava il polsino della manica sinistra. Una moglie omicida non avrebbe osato sorvolare su di una simile svista. Persino i suoi capelli parevano non aver visto un solo colpo di spazzola, come se dal momento della scomparsa di suo marito pettinarsi i capelli fosse diventata un'abitudine superflua.

Ma tornando a me, e sopportando a mal la pena l'occhiata insistente e così ricca di aspettativa che ancora John mi riserba, afferro senza pensarci su due volte il primo cilindro graduato che pensa a ingombrare il grande ripiano di lavoro insieme a tutti gli altri apparecchi e svariati strumenti dediti alla chimica.

«Allora? ... Sherlock, mi hai ascoltato?».

A questa medesima oppressione mi esprimo con un più che vago: «Hmm?» pronunciato mentre mi occupo di trarre a me un distillatore, facendo sporgere il busto in avanti per agguantare pipette e beaker con tutta la disinvoltura di cui sono capace.

Un trillo accompagnato da una vibrazione proveniente dall'interno della mia giacca mi porta quanto mai a sospirare di un certo sollievo.

Dall'altra parte del telefono l'ispettore Lestrade attende che mi decida ad aprire la sua chiamata.

«Novità?», domando laconico nonostante io possa già desumere la sua risposta.

«Avevi ragione. L'avvocato Marshall si è allontanato dal suo luogo di lavoro a bordo della sua auto – una Chevrolet, nera, praticamente nuova di zecca – un paio di suoi colleghi ne hanno dato la conferma. Dopodiché, è tornato a casa, ha trascorso un paio d'ore in compagnia della sua famiglia e poi si è allontanato alla guida della sua automobile. Ciò significa che l'uomo sapeva esattamente dove stava andando. Ecco anche il motivo della scomparsa del suo mezzo. Pensiamo avesse un qualche tipo di appuntamento con i suoi stessi aguzzini. I tabulati telefonici ce ne daranno presto conferma. Ora, sai spiegarmi come facevi a sapere tutto questo?».

Un sorriso mi increspa le labbra, indotto come sono a ripensare alla lunga e impegnativa mattinata spesa a gironzolare da una parte all'altra del distretto di Belgravia, dividendomi tra una chiacchierata con la moglie del defunto e un breve sopralluogo sul posto di lavoro dello stesso.

«Sai che valgo più di tutti voi messi insieme», attesto.

«Sì, come no. Bè, fatti vivo se scopri qualcos'altro, indovino».

E chiude così la chiamata.

«Quando vuoi rendermi partecipe?»

«Non ce n'è bisogno. Nulla che non sappiamo già». Sorrido beffardo a John il quale evidentemente irritato si volta dall'altra parte, tenendo stretti entrambi i pugni lungo i fianchi dei suoi pantaloni scoloriti.

John e il suo classico autocontrollo da soldato.

Continuo indisturbato il mio operato, volgendo la mia attenzione su pipette di varia grandezza che penso a sistemare alla mia destra, mentre prelevo dalla tasca esterna del mio cappotto il piccolo contenitore tondeggiante al cui interno ho conservato tracce di fango, pietroline e quant'altro rinvenuto sul terriccio calpestato dalle suole dei due sequestratori e uccisori. Stappo il coperchio girevole andando a recuperare una delle pinzette metalliche.

Il lieve frusciare di una giacca che viene sfilata di dosso insieme allo stridio di una sedia spostata mi fa capire l'intenzione di John di assecondarmi alla grande pur se ciò lo porterà a tirarsi indietro per un'occasionale serata all'insegna di tediosi locali chiassosi e pinte di birra in compagnia di Mike Stamford, suo vecchio compagno di studi ai tempi dell'università. Le scarpe indossate dal mio assistente me ne danno conferma: più nuove rispetto a tutte le altre che gli ho visto fino ad ora, riserbate perciò a uscite come quella che si sarebbe tenuta a breve. Unica pecca, il maglione vecchio stampo che indossa e che di certo non avrebbe messo se la serata avesse tenuto conto di una donna.

Terribilmente scontato e banale.

Maneggio la pinza tra il pollice e l'indice grattando appena sulla superficie del contenitore, trasferendo quindi il tutto su di un piccolo vetrino. Ma neppure il tempo necessario a posare lo sguardo in entrambi i tubicini oculari del microscopio che mi sta davanti, che ancora, il suono di un avviso di chiamata mi distrae dal lavoro.

Riluttante, impugno una seconda volta l'apparecchio, sinceramente sorpreso di trovarmi all'orecchio un secondo e ben diverso timbro di voce.

«Sherlock».

Il suo tono non è che una bassa esalazione. Sta sussurrando.

«Dimmi, che c'è?». Taglio corto apparendole forse un po' brusco, tuttavia senza riuscire a scalfire nulla nella sua volontà di esporsi al sottoscritto.

«Sherlock, ascoltami, c'è qualcosa sotto sotto al caso di cui mi sto occupando... C'è qualcosa di losco. Vedi io sono...»

«Annie, dove sei? Parla più forte e dimmi dove ti sei cacciata. Dimmi che Toby è con te». Mi ritrovo senza neanche volerlo, in piedi con gli occhi fissi al pavimento. A un movimento improvviso di John, sollevo poi la testa verso di lui ma solo per zittirlo con un gesto vago della mano da ogni suo qualsiasi tentativo nascente di chiedermi spiegazioni.

«Bè, sì... Sì. Èappunto di Toby che volevo parlarti. Ha intercettato delle tracce... tracce della barboncina scomparsa. Lui mi ha condotta in una sorta di deposito fuori città».

Ne segue una breve pausa smorzata soltanto dal susseguirsi del respiro accelerato da parte della ragazza.

«Annie, d'accordo, dimmi almeno che cosa vedi». Decido per un approccio atto a calmare i suoi nervi. È agitata, è evidente.

«O... okay... ci sono un furgone qui, e un'automobile. Mi trovo sul retro dell'edificio».

«Bene... D'accordo, Annie, ma ho bisogno di più informazioni. L'automobile... che tipo è? E il furgone... Sei in grado di descrivermi la targa?»

«Certo!», esclama la mia vicina di casa con ritrovato entusiasmo, ma riabbassando di colpo il volume della sua voce facendomi subito udire una spiccata presenza femminile al suo fianco. Una donna, giovane. Bisbiglia anche lei e sta dicendo ad Annie delle cose che non riesco a capire.

«Annie, chi c'è lì con te? Annie!», urlo in preda alla rabbia finché non si decide a riprendere.

«Sì sì... Eccomi, dicevo... c'è un furgone sui toni dell'azzurro ma niente loghi o sigle su di esso; l'automobile è una Chevrolet, modello recentissimo, nera, ma non so dirti altro a parte la targ...»

«Annie, devi immediatamente allontanarti da lì. Mi hai capito? Devi andartene, subito», pronuncio queste parole tanto lentamente come a far sì di poterne scandire al meglio il significato, come a voler far capire alla donna la vera gravità della situazione.

«E perché? Sherlock, tu non capisci. Posso risolvere il mio primo caso! Non hai la più pallida idea di quanto sia importante per la mia cliente, la sua cagnolina è tutto ciò...»

«No no, sei tu quella che non capisce! Annie, ti ordino di andare via da lì, lascia perdere il caso!», sbotto ormai totalmente preda dell'angoscia. Il cuore batte impazzito in un affanno incontrollato.

«Mi spiace, Sherlock, non posso farlo. Non ora. Io risolverò ciò che non ti è stato concesso di considerare degno della tua attenzione. Manterrò fede a questa mia promessa, Sherlock. Scusami ancora».

«Annie, ascoltami! Potresti essere in...». Il vuoto più sordo riecheggia ora nelle mie orecchie. Ha riattaccato.

«Sherlock, che succede? ... Che è successo ad Annie?». John ne risulta al mio stesso modo allarmato mentre mi si fa più vicino con occhi sbarrati e che so riescono a nascondere bene una profonda preoccupazione.

«Dobbiamo andare», decreto insieme a questo mio nuovo logorante presentimento intrufolatosi come un verme nauseabondo nella mia mente.

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