Capitolo 17: A.A.A. FIUTO CERCASI!
- Annie's Pov
Mattina seguente
Lo scrosciare continuo del getto d'acqua, che scende picchiettandomi dalla testa ai piedi, è il solo e unico rumore che va a sovrapporsi a uno ben più snervante e caotico, causato dai tanti pensieri che affollano la mia mente.
Come? ... Questo, l'interrogativo più pressante fra tutti, insieme al Perché?, riferito al tentativo da parte mia di trovare la motivazione più sensata al fatto che una banale libraia di professione come la sottoscritta debba rendersi partecipe del risolvimento di un caso investigativo, sia pure se quello coincidi con lo smarrimento di un cane. Episodio all'apparenza comune ma che, viste le dinamiche indubbiamente anormali relative alla scomparsa, possiede dell'incredibile.
Ed è qui che viene il bello.
Il solo sperare di ritrovare uno specifico animale andato disperso in una qualsiasi cittadina è già un qualcosa che si può definire un'impresa titanica. Se poi ci si aggiunge il fattore Londra quale metropoli gigantesca, nelle cui infinite vie, angoli e disparati cunicoli potrebbe aver trovato rifugio, il problema che ne nasce non può che risultare inevitabile. In questo caso, il detto "È come cercare un ago in un pagliaio" mi sembra propriamente azzeccato.
Avvolta come sono in questo alone di vapore al profumo di fragole e more, riemergo dalla doccia, coprendomi in fretta con un asciugamano azzurro. Lo specchio rettangolare dentro il quale si riflette la mia immagine per metà mostra una faccia segnata dalle domande che ancora mi rimbombano nel cervello, allo stesso modo di un grande punto interrogativo a prendere il posto di naso, bocca e occhi.
Per qualche incomprensibile istante resto a fissare la mia testa gocciolante d'acqua, per poi ridestarmi a causa di un urlo improvviso proveniente da qualche parte del condominio, seguito subito da un tonfo secco e poi ancora da differenti voci concitate e piuttosto alte.
Niente di nuovo. È solo Sherlock Holmes alle prese con uno dei suoi abituali clienti mattutini giunti da chissà quale parte di Londra, e speranzosi di poter far breccia nella mente caotica del detective tramite i casi più disparati da esporre alla sua attenzione.
Mi ritrovo, come in tante altre occasioni, a sorridere. Un tipo di sorriso derivante da quella consapevolezza di sapere che tanto, in fondo in fondo, per quanto possa tentare di sforzarsi, Sherlock Holmes sarà uno di quelli che non cambierà mai.
Impiego non più di una scarsa mezz'ora per terminare i miei ultimi preparativi alla mia imminente uscita di casa, finché non sono pronta a chiudermi alle spalle la porta del mio appartamento. Avendo fatto in modo di potermi trovare con una buona fetta d'orologio in anticipo, scendo le due rampe di scale fino a raggiungere volutamente il pianerottolo sottostante. Dunque, con passo felpato e le orecchie tese più che mai, mi blocco ad ascoltare tutto ciò che di nuovo o inusuale possa provenire dall'interno del confusionario quanto non convenzionale appartamento, magari al fine di accertarmi della presenza o meno di un ulteriore cliente e decidere così se farmi avanti oppure proseguire per la mia strada.
Nel momento in cui mi capacito di non percepire altro che silenzio, mi sento libera di poter interrompere Sherlock Holmes da ogni sua qualsivoglia mansione alla quale può aver deciso di dedicarsi in queste prime ore mattutine.
Irrompo, benché con assoluta discrezione, nel salotto del consulente, iniziando col guardarmi a destra e a sinistra tanto per assicurarmi di non incappare una seconda volta in un uomo appeso a testa in giù, vale a dire in un altro di quei suoi "spassosissimi numeri acrobatici" o, meglio, tipici di un prestigiatore tutto fuorché capace.
Se solo ripenso che solo un giorno prima mi è toccato tirarlo giù, penzoloni com'era dal soffitto della cucina...
Poco più avanti, a occupare il posto sulla consueta poltrona del giovane Holmes, se ne stanno abbandonati violino e archetto, mentre in un precario equilibrio su uno dei braccioli della suddetta una tazzina bianca in coppia col suo piattino reclamano di essere spostati su ben altra superficie sicura prima di cadere e sfracellarsi sul pavimento.
«Buongiorno, Annie».
Sussulto, forse troppo esageratamente, a quel saluto arrivatomi alle spalle in modo così repentino ed esposto inoltre con un certo disinteresse. Non per questo però meritando di essere ignorato.
«Buongiorno a te», rispondo dopo essermi voltata con altrettanta foga trovandomi a che fare con un uomo, stavolta semplicemente seduto a una sedia, e, per quel che posso quindi constatare, immerso in una concentratissima osservazione in uno dei suoi microscopi. Non pensa a degnarmi neppure di un breve cenno, immobile com'è, con il busto leggermente inarcato e fasciato da una camicia blu che gli va ad aderire perfettamente per mostrare le spalle muscolose. Solo alle mani è consentito un minimo di movimento perché intente a manipolare dei pulsanti addetti allo zoom, cosicché le vene sporgenti sotto la cute pallida pulsino a ogni contrazione.
«Clienti mattinieri! ... per quello che ho sentito...».
«Non scherzare. Solito prototipo di cliente costantemente accecato dalla gelosia nei confronti della sua fidanzata. Mi sarebbe toccato pedinare quella povera sventurata della sua ragazza solo per poter ribadire quanto già confermato da me, vale a dire il tradimento perpetrato non da quella, bensì dall'idiota del suo stesso fidanzato con tendenze ossessive e paranoiche. Non è... snervante?», sibila con tono lamentoso, tuttavia senza accennare a staccare gli occhi dallo strumento di osservazione.
«Eccome! Ma perderai clientela se continuerai a sbattere fuori dalla tua porta ogni categoria di esseri umani, a tuo parere, non degne dei tuoi "standard intellettivi" perché considerate troppo tediose» gli rinfaccio contro con sorrisino sarcastico, ottenendo dall'uomo niente più di un'alzata d'occhi al cielo che va ad accentuare il suo umore già di per sé incupito.
Non gli permetto, tuttavia, di lasciarmi abbindolare malgrado questo suo atteggiamento di apparente disinteresse nei miei confronti causato, a maggior ragione, dall'operato che lo tiene avvinghiato al microscopio, come se da qualsiasi cosa ci fosse sul piccolo vetrino rotondo dipendesse la salvezza della stessa Inghilterra.
Per questo, oltrepasso la barriera invisibile che separa salotto e cucina, e mi decido a far capolino nel confusionario ambiente illuminato da una luce bianca e diffusa da una lampada sospesa. Mi trovo così a pochi passi dalla postazione dell'uomo, ricevendo una ancor più dettagliata visuale del suo profilo spigoloso e aggraziato.
«Impegnato?». La mia, una domanda chiaramente retorica tutta intenzionata a voler ottenere seppur solo un briciolo di attenzione da parte del mio vicino di casa; come da copione, egli si esprime in un rauco e appena percettibile mugugno, insistendo a ignorarmi ancora una volta. Ciò mi induce seriamente a dubitare della mia incommensurabile riserva di pazienza, e credere per davvero di non essere in grado di trattenermi oltre dall'urlargli in faccia.
Ritento, canalizzando tutta la mia frustrazione nelle mani che stringo a pugno lungo i fianchi e pronte a scattare nel caso in cui ne sentissi il bisogno.
«Allora... L'indagine?», lancio il mio amo sperando che vi abbocchi.
In tutta risposta, quello solleva riluttante le sue iridi verdi – azzurre, ma solo per accontentarmi di un'occhiata fugace e ritornare immediatamente a ciò che stava facendo, assumendo, inoltre, un'espressione della più snervante imperturbabilità.
«Niente che possa interessarti... Omicidio come un altro».
«Intendevo il mio di caso! Quello che mi hai appioppato prima di dartela a gambe per seguire ben "altre" priorità», sbotto infine, avvicinandomi ancora di più fino a toccare del tutto il bordo del tavolo e sventolandogli animatamente sotto gli occhi una delle mie mani chiuse a pugno.
L'unico effetto che sono capace di produrre è la sua insistenza a guardarmi con aria serafica, con l'eccezione di un accenno di sorriso spuntatogli da un angolo della bocca come se fosse stato stuzzicato da un pensiero divertente.
«Ti ho rinfrescato la memoria, suppongo».
«Non l'ho mai persa», ribatte facendo spallucce. «Comunque, ho bisogno di un secondo parere».
Con ciò, pensa a liberare le sue mani dalla presa sui due tubicini oculari, per mostrare invece attenzione nei confronti del – per me ancora sconosciuto – contenuto dei vetrini trasparenti, i quali vengono spostati delicatamente dal piccolo ripiano apposito.
Poi, per mezzo di un cenno della mano, Sherlock mi fa chiaro segno di dovermi dirigere verso la parte opposta del tavolo e raggiungere così la sua postazione di lavoro. Sotto quell'ordine mi ritrovo lì, accostata alla sua sedia, mio malgrado fremente di curiosità, presa da tutto ciò che riempie il ripiano di questo tavolo da cucina; vengo riscossa però, quasi subito, dal palmo all'insù che mi tende il detective, sopra cui mi viene mostrato uno dei precedenti vetrini. Sulla superficie rotondeggiante spiccano, disposti in file parallele, tre diversi campioni di quelli che sembrano essere fili sottili, ma che poi a un più attenta osservazione scopro trattarsi di corti residui di capelli, o per lo meno facenti parte della categoria "peli".
«Mi stai mostrando dei capelli, e allora?», domando al giovane le cui labbra si vanno a distendere in una linea appena arcuata di un sorriso che lascia trasparire un genuino interessamento in questa mia iniziale partecipazione.
«Hmm... Eppure è troppo generico. Classificali», si esprime allora, accentuando il suo trasporto nei miei confronti al pari di un bambino eccitato alla vista di un nuovo giocattolo.
A quanto mi pare di capire è un modo tutto suo di gettarmi contro il suo guanto di sfida che proprio io devo, a malincuore, adoperarmi per raccogliere.
Accetto per sua mano il vetrino, analizzandone ancor meglio il contenuto spostandolo alla luce della lunga lampada che scende bassa sulle nostre teste.
Tutto ciò che posso verificare toccando con mano quei corti filamenti di differenti colori perché rispettivamente tendenti al bianco, al nero e al castano chiaro, mi accorgo di un particolare senza dubbio degno di essere esposto all'attenzione di Sherlock Holmes.
«Risultano particolarmente ispidi al tatto...».
«Dunque?»
«Non sono affatto capelli...».
«Non lo sono», certifica infine Sherlock, senza levarmi gli occhi di dosso. Il suo penetrarmi con lo sguardo, quello a sua volta carico di una certa malcelata soddisfazione sorridente, non ha altro effetto se non l'unico, e vale a dire, quello di porgermi dapprima su di un piedistallo dorato, con una me totalmente in preda a un orgoglio scoppiettante per poi sentirmi tirare bruscamente verso un livello sempre più basso, perché succube del più assoluto disagio oltre che di un rincretinimento di materia grigia, e il tutto causato da quelle stupende venature color oro che irradiano le sue iridi celesti.
In una parola, tilt.
Distolgo immediatamente lo sguardo dall'uomo, che intanto si fa sempre più curioso ed esigente, oltre che dannatamente scrutatore nei miei umili confronti, preferendo quindi dedicarmi ancora agli elementi messi sotto esame ma stavolta riprovandoci con una concentrazione tale da poter ridestare le miei capacità intellettive per un momento rallentate per causa sopracitata.
Prelevo uno dei tre filamenti, per l'esattezza quello dal colore della pece, stringendolo appena tra il pollice e l'indice, e accostandolo alla diretta attenzione della lampada.
Scopro, alla stessa maniera di poc'anzi, uno spessore decisamente maggiore rispetto a quello di un qualsiasi capello umano così come pure la durezza e il conseguente grado di malleabilità dello stesso; all'apparenza troppo lungo per poter compararlo ad una qualsiasi peluria epidermica umana e, di nuovo, troppo duro e spesso per trattarsi di un normale capello.
Mi sembra quasi di sentire il borbottio fastidioso di Holmes nella mia mente: Troppo lenta, Annie!
«Peli di animali», dichiaro, una volta per tutte, convinta ma allo stesso tempo delusa per via di una soluzione tanto ovvia e scontata. O almeno è ciò che spero che sia.
Con grande stupore, scopro uno Sherlock totalmente calmo e affatto contrariato dalla mia, seppur spicciola e ritardataria, deduzione, cosa che lo porta a rivolgersi con un tranquillo: «Bene. Che altro?».
Ma a questo punto un ulteriore senso di afflizione e di prematura sconfitta s'impossessa di me.
Ma dico, com'è possibile risalire con assoluta precisione a una specifica specie animale, avendo così pochi elementi a disposizione?
Parliamo di soli tre peli molto somiglianti tra loro e che certamente indurrebbero chiunque a optare per quelli che passerebbero per dei comunissimi animali, chiaramente facili da trovare in una comunissima casa cittadina, quali cani e gatti.
«Allora?».
Trasalisco a quella sua prima vera dimostrazione di impazienza.
«Okay... Senti, è un azzardo, lo so, ma io opterei per un cane», gli dico senza curarmi di rifletterci su oltre.
«Non hai dedotto alcun che, Annie, e questo è un male, tuttavia...»
«Tuttavia?», gli faccio eco centrandolo con lo sguardo.
«Ci hai preso», mi conferma.
Ma prima che io possa anche solo mostrargli un po' della mia contentezza per l'averci azzeccato, Sherlock blocca sul nascere ogni mio qualsiasi tentativo.
«Hai solo tirato a indovinare. Vedi, Annie, tu sei una di quelli che...»
«... guarda ma non osserva!», lo interrompo bruscamente, ricevendone un'occhiata a metà tra il sorpreso e l'esasperato. «Lo so, me lo dici sempre».
«Se ben ricordi, ho cercato pure di spiegarti quanto sia possibile riuscire a intravedere, ad esempio, l'oceano Atlantico anziché il fiume Tamigi o un qualsiasi altro corso d'acqua, pur avendo a disposizione una singola goccia. Il trucco è solo uno: avere la giusta conoscenza di fattori che, in qualche modo, ci permettono di condurre la nostra osservazione verso la giusta soluzione. Sapere cioè, che esattamente in base al colore o, più nel dettaglio, misura di un singolo pelo canino, che sia quello di lunghezza variabile tra i 2,5 o i 6 centimetri di lunghezza, è possibile a quale razza canina debba essere attribuito».
«Sul serio? Davvero saresti in grado di arrivarci da... questo?», domando fremente, indicando il pelo color cenere che ancora stringo tra le dita. L'uomo si esprime in un muto cenno col capo. «E tu vorresti farmi credere che tali informazioni albergano nel tuo cervello, giusto?»
«Ovvio».
«Hmm... E quello cosa sarebbe, dunque?». Vado a indicare stavolta lo schermo del pc, rimasto tutto il tempo lì affianco al consulente, aperto su una pagina internet particolarmente ricca di dettagliate immagini.
«Hmm... Cosa? Questo? Oh, solo dei piccoli appunti... Niente di...».
«"Come classificare una razza animale partendo dalla costituzione di un singolo pelo". Ma è chiaro, Sherlock, stai studiando!».
Irrompo in una divertita risata di scherno nei suoi confronti, obbligandolo a voltare indignato il capo ricoperto da ricci in un più che evidente atteggiamento di arrendevolezza.
Sherlock Holmes e i suoi miserabili tentativi di darla a bere a tutti!
«Oh, Sherlock, andiamo, non è poi così terribile, d'altronde siamo tutti umani. Non è da tutti possedere ogni singola conoscenza teorica esistente sulla faccia della Terra».
Mi cimento nel curioso ruolo di una mammina comprensiva, pur tuttavia non tralasciando il lato comico della situazione. «Ognuno di noi possiede una ben limitata conoscenza di tutto il sapere di cui è impregnato l'universo... E non sentirti afflitto se pure una cosa da scuola elementare come lo è il sistema solare non è tra le tue conoscenze».
«Quello è praticamente inutile!», si difende prontamente il giovane tornando a sfidare il mio sguardo con uno scatto da giaguaro ghignante.
Ridacchio appena alla vista di quel suo viso un po' più colorito del solito a causa dei suoi toni fattisi agitati e infastiditi, ma non per questo meno divertenti ai miei occhi.
Lascio sbollire il suo malumore, andando a pormi all'altro lato della sua sedia in modo da avere una più vicina panoramica del pc. Avverto tutta l'attenzione di Sherlock focalizzata su di me, ma poco m'importa o, almeno, cerco di non pensarci. Preferisco, invece, concentrarmi sulla breve ma accurata spiegazione data dall'articolo di tale sito web inerente per l'appunto a razze canine e alle varie tipologie di manto che le contraddistinguono. Ne consegue, dunque, una classificazione tra razze a pelo corto nelle quali viene riportata come unità di misura di riconoscimento una lunghezza di pelo inferiore ai cinque centimetri, e razze a pelo lungo che, com'è già facilmente deducibile, rientrano in una misura che va oltre i cinque centimetri.
A questo, diverse razze canine fanno da esempi pratici ai due insiemi; una medesima analisi riguardante invece il mondo dei felini fa capolino nel momento in cui scorro al di sotto della pagina.
«Spero che ora tu possa essere in grado di darmi una giusta risposta al mio quesito. Sto ancora aspettando».
Mi volto con lentezza per tornare a incrociare il mio accanito sfidante.
Sarà, ma credo di non poter essere ancora in grado di affermare in totale sicurezza a quale razza canina di appartenenza io debba collegare ogni singolo pelo animale apparso – chissà come, chissà perché – nelle mani di Sherlock.
«Bè, mi sembra ovvio. Non resta che misurarne la lunghezza e terminare l'analisi. Posso solo azzardare...», mi esprimo titubante andando a riprendere il piccolo vetrino da dove lo avevo lasciato, «... che questo, color caramello e a occhio e croce non più lungo di tre centimetri, sia appartenuto a un bulldog o a un beagle o a qualsiasi altro cane che abbia quel particolare manto colorato. Lo stesso vale per questo più lungo e nero. Potrebbe intendere uno spaniel o un cane da pastore o tantissime altre razze a pelo lungo». Termino insieme a un certo moto sempre più crescente di impazienza, tanto che subito mi convinco a riprendere con il porgergli una domanda: «Sei Sherlock Holmes, sai sempre tutto, dovrai pur averlo scoperto in qualche modo, no?»
«Io? Oh, bè...». Si concede una brevissima pausa tenendo gli occhi fissi sul suo telescopio, le braccia incrociate. «Non ne ho idea», ammette infine, facendo semplicemente spallucce.
«Cosa?! Ma allora...».
«Essendo una quasi laureata come veterinaria, ero propenso a credere che tu ci sapessi «Smettila! Mi stai facendo credere che mi hai tenuta sotto tuo snervante interrogatorio per un'analisi che neppure tu avresti saputo portare avanti?! Ah! È praticamente impossibile riuscire a individuare l'esatta provenienza di quei tre soli indizi che ti ritrovi! E io che ti sto a sentire! Ho il mio lavoro che mi aspetta, continua pure a tenere occupato il tuo cervello, non riesco nemmeno a immaginare come tu abbia fatto a entrare in possesso di quei peli, né tanto meno a cosa serva di preciso questo tuo enorme dilemma. Ma contento tu...».
Faccio per voltare le spalle all'uomo, e cominciare imperterrita la mia marcia verso il salotto.
«A proposito, come va con il cane scomparso?».
Mi richiama a sé, come sempre tramite quesiti che mi inducono irrimediabilmente a frenare.
«Come hai fatto a... No, meglio... Ti sei deciso a chiedermelo, finalmente!», sbotto io tornando in fretta e furia sui miei passi.
«Già, ma sarebbe meglio dare una risposta alla tua più che sorpresa espressione non che domanda la quale indubbiamente era in procinto di uscirti di bocca: avevi due scelte a tua disposizione, Annie: una moglie con un amante da tenere d'occhio, e una donna che chiedeva di aiutarla con la scomparsa del suo cane. Diciamo che per il tuo... più che prevedibile affetto nei confronti di un qualsiasi animaletto bisognoso di aiuto, era inevitabile che la tua scelta ricadesse su un cane smarrito. La Annie che conosco non si sarebbe mai tirata indietro di fronte alle esigenze di un cagnolino in difficoltà, attratta come sei dal mondo a quattro zampe. Potrò non conoscere il sistema solare, ma forse ci sono cose che mi sono permesse di conoscere un tantino più di quanto io stesso neanche vorrei».
In questo momento, vacillo dinanzi a quella constatazione pronunciata in tono addolcito all'inverosimile. Vengo indotta persino a svestirmi della mia armatura invisibile dentro la quale, molte volte, ho sperato per davvero potessi proteggermi dagli incoerenti comportamenti del detective.
Egli mi lancia un'occhiata di sottecchi, quasi come volesse andarci cauto perché timoroso di riaccendere in me quella miccia che mi indurrebbe ancora a scappare.
«Qualche novità?», mi chiede quindi.
«Nessuna. Ma è proprio questo il punto. Sembra ci sia un vero e proprio mistero dietro a uno smarrimento all'apparenza tanto palese. In realtà speravo che... Speravo che tu potessi...»
«Ho affidato a te il caso. E credo di averti insegnato – sebbene indirettamente – quelle che sono le nozioni primarie per dare il via a un'indagine».
Me ne resto impalata riflettendo su questo ormai sfumato tentativo di fare breccia nelle grazie di Sherlock Holmes, e perciò rassegnata all'idea di dover proseguire in un'indagine, che non sento affatto mia, nella più totale oscurità.
«Va bene...», sussurra tutt'a un tratto il mio vicino di casa, rimettendosi in piedi con calma. Adesso mi tocca guardarlo dal basso della mia statura mentre comanda il suo corpo snello a spostarsi dalla sua postazione lavorativa. Sembra gradire quel suo cambiamento di postura, preferendo ora come nuovo punto di appoggio il ripiano della cucina. Insiste a puntare il suo sguardo su di me, tenendo entrambe le mani all'indietro e ancorate al bordo della superficie occupata da utensili vari oltre che ancora da provette e recipienti graduati. Il suo torace magro eppure muscoloso al punto giusto, risalta al di sotto della camicia attillata. A volte mi chiedo come riescano quei suoi piccoli bottoncini a non saltare all'aria a causa di tutta quanta la pressione derivante da ciò che si nasconde dentro l'indumento e che sono costretti a contenere.
Mi accorgo troppo tardi di ammirare, forse con eccessivo interesse, la figura slanciata del consulente, poggiato nella più assoluta nonchalance al mobilio; scosto lo sguardo altrove preferendo come più consona panoramica un piattino contenente alcuni biscotti, tra cui uno mangiucchiato per metà.
Sherlock e il suo "famelico" appetito.
«Un oggetto che appartenga al tuo cliente peloso».
«Come, scusa?», chiedo confusa, portando a vagare un'altra volta le mie pupille su di lui. Sta sorridendo.
«Voglio che tu mi porti un qualsiasi oggetto appartenuto all'animale scomparso».
«Perché?», domando candidamente e ancora in preda a un nuovo attacco di morbosa curiosità.
«Chiamalo consiglio o aiuto, o come ti pare, ma sappi che non ne avrai un altro. Mi sono spiegato?»
«Sicuro! Sì... Grazie!», farfuglio inciampando nelle mie stesse parole, cercando intanto di capirci qualcosa.
Frattanto, dei passi lenti ma decisi mi arrivano alle orecchie, e insieme a essi la voce familiare della mia padrona di casa, Martha Hudson.
«Cucù. Sherlock, caro, dove sei? C'è un cliente».
«Mi dia un secondo, signora Hudson». Subito le ribatte il giovane staccandosi dal piano della cucina e facendosi avanti di pochi passi verso il salotto. Una volta resasi conto della presenza del detective ma non della mia, l'anziana riparte un'altra volta giù per le scale facendo scricchiolare un paio di gradini della scala stretta.
«Sarà meglio che vada. Daunt Books mi aspetta», dichiaro poi, lanciando prima un'ultima occhiata sul ripiano di questo laboratorio scientifico casalingo per superare Sherlock e poter dare così il via a una nuova giornata di lavoro.
Nel farlo, saluto timidamente l'uomo con un sorriso ricevendo da quello un'occhiata penetrante.
«Oh, Annie. Quasi dimenticavo, a proposito di peli...». Mi sento richiamare in causa ritrovandolo affiancato al suo microscopio, e con una mano che insiste a far oscillare a mo' di pendolo davanti alla sua faccia.
Mi avvicino quel poco che mi basta a poter riconoscere un capello – un vero capello – apparso come niente fra le sue dita ossute, e mi chiedo mentalmente come diavolo abbia fatto un mio capello a finire fra le sue grinfie.
«Da quando frequenti il mio appartamento ritrovarmi a che fare con capelli rossi è divenuta un'abitudine. Sono dappertutto». Gonfia apposta il "dappertutto" come a enfatizzare l'immagine spassosissima che mi si apre davanti di un appartamento straripante di capelli a ricoprirne ogni angolo e oggetto.
Arrossisco appena ma contraccambiando con un tagliente: «Non taglierò i miei capelli se è questo che cerchi di dirmi».
«Bè, non è questo che voglio, infatti».
Mi fermo a osservare la sua espressione fattasi troppo in fretta timida e scostante, e decido una volta per tutte di tagliare la corda.
«Io vado! Ci vediamo!», esclamo forse troppo forte, girando sui tacchi ed emergendo col viso in fiamme dalla cucina.
Al di là della porta d'ingresso scorticata un nuovo cliente attende di essere ricevuto; un nuovo personaggio il che è tutto dire, perché comprendente di una sorta di turbante in testa e una di quelle tuniche colorate tipiche di un abitante dell'Arabia.
Me la svigno il prima possibile mostrando al nuovo arrivato solo un breve cenno di saluto col capo, finché giunta al pian terreno pronta per sgusciare all'esterno del 221B, mi concedo un ultimo momento di riflessione circa la svariata natura dei clienti sempre pronti a fare i conti con un altrettanto strambo quanto unico consulente investigativo, nonché migliore fra i tanti detective privati esistenti sulla faccia di tutta l'Inghilterra.
* * *
La sfilza di vetrine illuminate e riccamente adornate di ogni più disparato genere commerciale sfilano lungo entrambe le fiancate di questo taxi dentro il quale mi trovo rintanata fin dall'esatto momento in cui ho abbandonato la mia giornaliera postazione di lavoro.
Ed è ancora in questo taxi che, come la serata precedente, mi fermo a contemplare con un pizzico di invidia tutti gli alti palazzi in stucco bianco, tipici di questo quartiere altolocato così detto Belgravia.
Il civico 6 spicca ancora una seconda volta sulle bianche colonne del porticato, d'altronde insieme a tutto il resto dell'insieme che continuo a osservare al di qua del finestrino un po' sporco di aloni piovigginosi.
Espresso al tassista la gentile richiesta di poter attendere il mio ritorno qui fuori durante la mia breve visitina all'interno dell'abitazione, mi appresto dunque a pigiare il campanello, per vedermi subito dopo accogliere dalla stessa bionda inserviente già incontrata la volta prima. Non ho perciò bisogno di farmi annunciare, in quanto nel momento in cui la giovane donna si scosta per lasciarmi superare l'uscio capisco non esserci problemi di alcun tipo nel permettermi di entrare in casa.
Poche parole mi sento rivolgere da parte della cameriera prima di vederla dileguarsi dall'altra parte del vestibolo, per poi ritrovarmi nel grande e ricco salotto alla cui finestra la sagoma di una donna in sedia a rotelle si staglia in contrasto con la luce del tramonto che filtra dalle vetrate.
Amethyst Price è lì, che mi riserba un largo e sincero sorriso il quale ha contribuito a spazzare via quell'aria afflitta e desolata che, invece, ho potuto scorgere sul suo profilo mentre era intenta a osservare il mondo fuori da queste quattro mura.
«Annie! Buonasera a lei, ci rivediamo!», si esprime immediatamente l'anziana cliente, azionando le ruote, sostitute delle sue gambe, e venendomi in contro.
«Salve, signora. Mi spiace di essere irrotta senza preavviso ma vede, c'è qualcosa che...»
«Ha notizie di Chloe?». La sua, più che una domanda, risulta somigliare a una richiesta implorante.
Abbasso di rimando il capo, temporeggiando perché incapace di darle risposte rassicuranti circa la sorte della bella barboncina scomparsa.
Ben presto però la donna sembra capire e, insieme, capacitarsene, portando a spegnere il guizzo vitale da cui è stata colta sebbene solo per una breve frazione di secondo. Tuttavia, sono certa di questo: la speranza è l'unica compagna che forse mai l'abbandona.
«Sono desolata... Ma forse c'è qualcosa che possiamo fare, e per questo ho bisogno del suo aiuto».
«Tutto se servirà a ritrovare la mia piccola».
«Bene. Quello che serve è un oggetto che sia impregnato dell'odore di Chloe».
Dopo un'iniziale tentennamento da parte della mia interlocutrice, quella pare illuminarsi di luce propria oltre che di una nuova carica motoria, quest'ultima nonostante il paradosso circa il suo deficit del trovarsi inchiodata alla carrozzella.
Difatti, incentivata da nuova speranza, l'anziana sembra diventare un tutt'uno con quell'oggetto elettronico, tanto da scomparire alla mia vista ancor prima di poterle mostrare stupore per via di quel suo gesto affrettato e indubbiamente comico.
Trattengo a stento un ghigno divertito per poi decidermi ad attendere il ritorno della cliente – sparita da qualche parte nella casa – ficcanasando un po' in giro.
Dei libri, e per la precisione due, sono stati prelevati dalla loro esatta ubicazione per essere quindi posati l'uno sull'altro sul piccolo tavolino da caffè, che affianca un lembo del tendaggio color crema della finestra.
Un piattino bianco con ghirigori azzurri prende invece posto sulla poltrona dall'alto schienale, che affianca il divano, contenente quelle che sembrano essere piccole briciole giallognole, probabilmente provenienti da una fetta di torta, visto e considerato il leggero aroma dolciastro avvertito una volta introdotta in casa.
Mi porto più avanti di qualche passo, fino a far vagare lo sguardo al di là del lungo divano che ingombra il centro della camera: affiancati a uno dei diversi cuscini quadrati, che gli fanno da decorazione, un giornale se ne sta aperto a mostrare un articolo a me particolarmente familiare. Mi sporgo al di sopra del basso schienale del divano per inarcarmi ad agguantare l'incriminato giornale. Dunque, faccio nuovamente scorrere gli occhi tra quelle righe nere, e mi soffermo ancora sull'appena accennata ragazza spaventata e riluttante nei confronti dei vari flash che cercano di immortalarla. Fisso il tutto concentrata e attenta a ogni piccolo dettaglio, come se davvero temessi un possibile cambiamento in questa che è la stessa e identica foto capitatami a tiro solo ieri. Come se oggi possa invece celarsi anche un solo piccolo dettaglio, che sia quello uno scorcio di viso o persino una diversa inclinazione del mio corpo che riesca a tradire la mia vera identità fino a essere non più celata agli avvoltoi della stampa.
Anche il quotidiano è lo stesso, perciò, mi dico, come potrebbe una semplice fotografia destinata a durare nel tempo, mantenendo sempre la medesima immagine rappresentavi su, mutare da un giorno all'altro?
Una paranoia assolutamente insensata, ma dalla quale vengo molto presto allontanata a causa dello strusciare di gomme sul pavimento lindo. Ciò mi porta a voltarmi con uno scossone e farmi accidentalmente sfuggire di mano le pagine dell'Economist.
Amethyst Price, appena riapparsa sulla soglia del salone, porta i suoi occhi chiari più in basso sulla fotografia che giace ai miei piedi. Ma subito li riporta sulla mia faccia agitata, sorridendomi in un modo incredibilmente dolce. Gli occhi ridotti a due fessure ne fanno esaltare maggiormente le rughe, che come tante onde dai contorni sottili si fanno portavoce indelebili dello scorrere irrefrenabile del tempo.
«Può fidarsi di me».
Bastano poche e semplici parole unite alla sincera tenerezza e a un senso di sicurezza emanati da quella donna, per far scivolare via da me ogni genere di paure e rammarico.
Un senso di protezione quasi materno arriva a ricoprirmi, che mi porta a provare sollievo e commozione nei confronti di questa donna con la quale posso vantare di essere accomunata ora da un segreto.
È un modo tutto suo per dirmi: lo so, eppure non spiattellerò alla stampa la vera identità della fantomatica assistente dai capelli rossi di Sherlock Holmes.
«Spero che questo le sia utile», prosegue poi Amethyst come se null'altro fosse mai stato detto. Il suo chiaro riferimento va a quello che pare un plaid color giallo canarino, che ella tiene piegato per metà sulle gambe snelle. Dal modo con cui è solita sfiorare il morbido tessuto, quasi come una dolce carezza, evinco ancora una volta il dolore dovuto alla mancanza del suo animale domestico. Un dolore, dopotutto, non dissimile da quello che, invece, preme oramai sul mio cuore da ben cinque anni.
«È perfetto», garantisco dopo aver riacciuffato da terra il giornale e raggiunta mediante veloci falcate la sedia a rotelle.
«Se posso saperlo, aiuterà a ritrovare Chloe?», mi domanda lecitamente la cliente, al cui interrogativo mi vedo però costretta a mentire con un più che titubante: «Credo di sì».
A onor del vero, non conosco l'esatto fine di questa mia seconda visitina qui al numero 6 di Belgravia Road, se non solo quello di dover farmi prestare qualcosa che sia appartenuto alla stessa cagnolina così come da consiglio elargitomi da Sherlock.
Comunque sia, in seguito a questa mia commissione portata a termine, non perdo altro tempo, che una volta salutata e ringraziata di cuore l'anziana signora Price, mi ritrovo fuori dalla dimora, insieme a una copertina gialla nel frattempo arrotolata a mo' di fagotto per meglio farla entrare nella mia borsa.
Il taxi è ancora lì che mi attende nonostante i pochi minuti in più spesi all'interno della casa, dunque mi appresto ad andargli incontro.
Nell'esatto momento in cui la mia mano va a stringersi sulla maniglia dello sportello, sento qualcosa premere insistentemente all'altezza dei miei polpacci. D'istinto porto gli occhi lì sotto per capirne la causa, rendendomi conto, infine, che una specie di mastino è intento a spingere il suo nasone sul tessuto dei miei jeans. Continua a fare pressione per mezzo di quel suo musone come se avvertisse su di me uno specifico odore; come se quel suo particolare interesse fosse dovuto all'odore che mi sono accollata addosso dal momento in cui ho varcato la soglia di Amethyst Price. La casa, indubbiamente, territorio indiscusso della barboncina bianca, era impregnata di tracce canine, cosicché adesso mi sembra più che normale attirare l'attenzione del senso olfattivo di un mastino bello grosso come questo che ancora si ostina a sniffare, incurante delle mie occhiate, sui miei pantaloni.
«Se permette, questo taxi lo prendo io».
Ancora, vengo presa alla più totale sprovvista stavolta per colpa di questo secondo fattore che mi arriva invece alle orecchie, finché constatata la presenza umana con cui mi trovo ad aver a che fare, mi sorprendo di non aver trovato familiare una simile voce.
Sherlock Holmes in tutto il suo splendore stringe l'estremità di un guinzaglio in una mano guantata in pelle nera, quello a sua volta agganciato al collare posto intorno al collo possente del "cane aspira odore".
«E questo da dove arriva?», interrogo l'uomo, incredula, facendo sfrecciare lo sguardo dal cane che indico con un gesto della mano, fin sopra al viso del detective. Quest'ultimo pare divertito oltre ogni limite.
«Sono lieto di presentarti Toby», spiega allora Sherlock, permettendomi di cogliere un certo motivetto d'orgoglio nel tono della sua voce. «Un amico che di tanto in tanto mi è stato utile nel braccare delle tracce non proprio semplici da identificare. Ha un fiuto eccellente, pensa che possiede quattro miliardi di recettori olfattivi così da renderlo incredibilmente...»
«E di grazia, dov'è che tieni Toby quando sei a Baker Street? Non dirmi che lo lasci nascosto nel seminterrato o murato nella parete della tua camera da letto... Insomma, questa mi è nuova! Da dove salta fuori?»
«Non essere ridicola. Il suo proprietario è un mio vecchio conoscente, mi deve diversi favori, perciò, ecco Toby».
«Giusto. Avrei dovuto saperlo», ribatto con sarcasmo. Poi, dimenticandomi per un attimo di Sherlock, mi abbasso piegando le ginocchia all'altezza del cane, un Bloodhound, mi pare si chiami la sua razza, una sorta di mastino dal pelo corto color caramello e una grande chiazza scura sparsa lungo il dorso e altre due sulle orecchie lunghe e pendenti. I suoi occhioni neri mi osservano ora dolci e allo stesso tempo curiosi.
In men che non si dica, la mia predisposizione nel familiarizzare con il genere animale fa capire a Toby di potersi porre al mio stesso livello di simpatia che io provo nei suoi confronti, inducendolo a tirare fuori la sua lunga lingua e cercare di darmi un caloroso approccio di prima presentazione come di solito farebbe un qualsiasi cane entusiasta.
Di rimando le mie grattatine dietro le orecchie penzoloni sono ben accette all'animale.
«Come hai fatto a scoprire dove mi trovavo?», chiedo poco dopo al giovane, senza tuttavia perdere interesse per Toby.
«Niente di intricato, hai solo dimenticato il biglietto sopra la mia scrivania, quando ieri sera ti sei prodigata di appuntarci su l'indirizzo della tua cliente», risponde prontamente, con sua solita aria tipica di chi crede di avere una spiegazione logica su tutto e tutti.
«Okay». Mi fermo con gli occhi ancora puntati in quelli del docile Toby, il quale messosi seduto, si lascia distrarre dai rumori e dai suoni occasionali derivanti dal mondo cittadino. Ma un ulteriore interrogativo mi obbliga ad aprire la bocca, sollevando il capo più su, a Sherlock: «Senti, ma che ci fai qui? Avevo giusto intenzione di tornarmene a casa e portarti quello che mi avevi chiesto stamane».
«Oh, no, Annie. Il tuo lavoro non è affatto finito! Ed è per questo che ci sono io qui».
Da quella constatazione, non riesco a contenermi oltre dall'urlare un trionfante: «Hai deciso di aiutarmi allora!».
«Ma certo, solo un pochino», attesta Sherlock sguainando un sorriso di quelli più affascinanti ed enigmatici.
Detto ciò, lo vedo seguirmi a terra nella mia stessa posizione in cui mi trovo già da qualche minuto, ovvero piegandosi anch'egli sulle ginocchia. Toby è quello che divide me e il mio vicino di casa, facendo da testimone silenzioso a quanto l'uomo sta per fare o per dire.
«Okay, Toby», comincia Holmes, affiancandosi maggiormente alla destra del segugio e puntando il suo lungo indice contro la sottoscritta. «Lei è Annie, e in questo momento ha un disperato bisogno di aiuto».
Arriccio naso e bocca in una smorfia di totale disapprovazione, smascherando in realtà l'immediata tenerezza che ne viene fuori da una situazione come questa. Sherlock, infatti, parla all'animale proprio come farebbe un qualsiasi vero proprietario nei confronti del suo cane, con assoluta fiducia e incommensurabile dolcezza.
«Tu devi darle tutto l'aiuto che le serve, Toby. Hai capito? Cerca di resistere alla sua insopportabile cocciutaggine e, soprattutto, dalle una bella dimostrazione su come restare sulla giusta via senza mai perdere di vista ciò che è veramente importante al proseguimento di un'indagine».
Toby sembra capirci poco o niente ma, da bravo cagnolone, pare sorbirsi volentieri quelle parole pronunciate con tono basso e incoraggiante.
Momento che però vede subito smontare l'intera atmosfera non appena un verso irritato viene fuori dall'interno dell'auto in sosta che ci affianca. Il tassista non sembra approvare un solo secondo di più che possa mettere a dura prova la sua pazienza ormai esaurita.
Sherlock è il primo a non farselo ripetere due volte, che già lo vedo rimettersi in piedi, seguito da me. Poi, dopo avermi passato di mano l'estremità del guinzaglio che lui stringeva nella sua destra, scompare nell'abitacolo del taxi.
«Ma, ehi, Sherlock, tu non puoi...», cerco di richiamarlo a me, ma invano a causa del suo: «In bocca al lupo e che la caccia abbia inizio!» auguratomi con sorriso beffardo, prima di dileguarsi al di là del finestrino insieme alla macchina e all'autista, quello fremente di riprendere la sua corsa.
Mi rendo conto di essere stata scaricata qui, con un enorme cane a cui fare da dog sitter e una copertina presa in prestito inutilmente. Sospiro rassegnata.
«Dimmi la verità, Toby... Quel pazzo ti ha costretto a seguire le mie tracce fin qui, vero?». Parlo per la prima volta diretta al cane, il quale mi esprime la sua attenzione semplicemente fissandomi per mezzo di quei grandi occhioni cascanti. «È sempre il solito. In effetti sarebbe perfetto come stalker...». Lascio le parole bloccarsi a mezz'aria, insieme ai miei polmoni liberi di smettere di fare il loro lavoro e concedersi un attimo di apnea.
«Toby! Ma certo!».
Mi destreggio come un'ossessa con la mano libera dal guinzaglio cercando di estrarre la piccola coperta gialla dalla stretta fessura a cerniera della mia borsa, per portarla poi dritta sotto al nasone umidiccio di Toby, che senza repliche, accetta la gradita sniffatina sul tessuto impregnato dell'odore della sua simile Chloe. Quindi, quasi avesse letto i miei pensieri, si stacca dal piccolo plaid per protendere ora il suo organo olfattivo verso l'alto, cominciando a dilatare le narici in maniera convulsa e ripetitiva. Odora l'aria intorno a lui, preso d'improvviso da un eccitamento istantaneo. Sorrido pensando a Sherlock e a tutti quei suoi tipici e tanto simili scatti di incredibile iperattività dovuti all'estasi iniziale che solo i casi investigativi sanno concedergli.
Col guinzaglio sempre più teso come una corda di violino, mi rendo conto di quanto Toby smani dalla voglia di iniziare le ricerche, come un cavallo imbizzarrito e bramoso di mettersi in gara. Similitudine affatto sbagliata, una volta aver constatato quanto la forza di un cane dall'apparenza tanto placida e tranquilla sia in realtà qualcosa di prorompente e inarrestabile. Vengo spinta in avanti senza più avere controllo del mio corpo, con le gambe che ormai tentano goffamente di rimanere in piedi e abituarsi al veloce andamento deciso da Toby. L'animale impazzito corre trascinandosi dietro una tutto fuorché esperta di passeggiate canine, proseguendo col muso incollato al pavimento, e quelle due buffe orecchie che vanno a strusciare l'intero marciapiede, fino ad arrivare a quello che ricordo essere l'angolo, mostratomi da Amelia Price – nipote di Amethyst.
Giunti in concomitanza della svolta, ovvero l'esatto luogo testimone della misteriosissima scomparsa della barboncina bianca, Toby prende a gironzolare, per lo più in tondo, intorno alla piccola area interessata, finché, insoddisfatto, decide di cambiare totalmente traiettoria spingendomi ancora una volta via, adesso giù dal marciapiede. Mi trovo così ad attraversare la strada fortunatamente libera da eventuali mezzi di trasporto, e ricominciare di conseguenza a dover tentare di rimanere saldamente ancorata al guinzaglio senza lasciarmelo sfuggire di mano.
Sì, Sherlock aveva decisamente ragione.
La caccia è aperta!
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