Capitolo 16: UNA ROSSA IN GIALLO
«Allora?», interrogo Sherlock ancora immerso nella lettura dell'articolo di giornale riguardante una certa me, dipinta a tutti gli effetti come la vera e indiscussa protagonista del caso "Il diavolo del convento" risolto giorni fa. A quanto sembra, l'articolo non fa altro se non andare a sottolineare, evidenziare e ripetere fino alla nausea, la volontà di voler far luce sulla reale identità della ragazza che, inquadrata esclusivamente di spalle – per il malcontento della stampa –, le è consentito far parlare di lei solo in base a una piccola porzione di capelli lunghi e ramati (tanto per precisare).
I corpi di Sherlock e John che le fanno, intanto, da paravento, vanno a celarla così da una parziale attenzione delle macchine fotografiche, mentre vengono ugualmente immortalati essi stessi in pose poco accomodanti a causa delle loro mani tese in avanti, come se solo con quei gesti scostanti fossero in grado di fermare gli scatti fotografici dei giornalisti.
Il consulente termina la sua veloce lettura distogliendo lo sguardo dalla foto per poi posarlo su un punto imprecisato davanti a sé. Sembra soffermarsi su un pensiero in particolare, ma ben presto torna a rivolgersi a me.
«Non devi temere, la tua identità è al sicuro», mi parla con voce bassa e ferma.
Sfortunatamente, la sua sicurezza non riesce a convincermi appieno. Sono pur sempre la protagonista assoluta di un articolo interamente dedicatomi senza neppure la mia faccia in vista, e questa consapevolezza che qualcuno parli di me in modo tanto pubblico e sfacciato, insinuando finanche falsità di ogni genere riguardo fantomatiche relazioni con uno dei miei due vicini di casa se non ché entrambi, mi fa temere il peggio.
«Chi può dirlo?». Faccio cadere lì la domanda fissando il ragazzo che mi sta vicino, e prima ancora di concedergli la possibilità di replicare, continuo: «Potrebbe accadere domani, oppure tra un mese o semplicemente per puro caso mentre ci troviamo nei pressi di una scena del crimine. Magari la prossima volta non sarò così tanto fortunata e la mia faccia potrebbe finire su un'intera pagina di giornale, chissà accompagnata da un gigantesco titolo che informa l'identità svelata della misteriosa amichetta del famoso Sherlock Holmes e del suo blogger John Watson.
Sherlock... io... io non desidero la fama, voglio solo una vita normale».
Riprendo fiato a causa della velocità supersonica con cui, mi rendo conto, hanno preso a fuoriuscire le mie parole, e raggiunta la poltrona vicina, quella prediletta da John, mi ci accomodo stringendo al petto il cuscino quadrato a stampa bandiera inglese che vi troneggiava sopra. Nello stesso istante, con un frusciare di pagine, le stesse dell'Economist, Sherlock ripiega a metà il quotidiano per poggiarlo sulla scrivania, quindi seguo il detective recarsi verso una delle due finestre al di fuori delle quali i vari lampioni si vanno via via illuminando per far fronte alla sera ormai calata.
Mi dà le spalle in silenzio tenendo le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni. Non manca poco però che la sua voce cupa pensa a contrastare il silenzio: «Se quello che vuoi è la normalità, è chiaro allora come tu debba cercare di stare quanto più alla larga dai giochi». Detto questo, si volta a guardarmi con una nuova espressione dura e gelida. «Sarebbe meglio non farti più vedere qui dentro, tanto per cominciare. Non è di normalità che è permeato questo appartamento, come puoi ben vedere». Accompagna il tutto con un gesto fluido della mano che va a indicare la cucina dietro di me, chiaro riferimento allo strambo episodio avvenuto pochi minuti fa. «Penso che il 222 B qui di fronte sarebbe perfetto per te». Termina infine così. Ma è evidente come abbia frainteso ogni mia singola parola.
«Oh, no! Sherlock, non è questo che intendevo!», esclamo al fine di mettere un freno alla brutta piega che il discorso dell'uomo ha oramai intrapreso.
Scatto in piedi come punta da uno spillo e scaravento incurante il morbido cuscino contro lo schienale della poltrona scolorita dal tempo, lanciandomi, dunque, verso Sherlock che non accenna a capire.
«La mia vita va bene così com'è... con te e con John e tutte le vostre stranezze. Siete irrotti nella mia vita senza che io potessi anche solo pensare di rifiutarvi, e tutto perché? ... per un semplice bisogno di evasione da una vita che a stento riconoscevo come mia. La normalità mi uccideva giorno dopo giorno. Ma questa vita, fatta di normalità eppure allo stesso tempo condita qua e là da qualcosa di più che dal solo svegliarmi insieme a una costante preoccupazione di dover far fronte a un nuovo giorno e sopravvivergli senza alcuna speranza di poterlo fare assieme a una persona amica, è la vita migliore che mai avrei potuto pensare di vivere. Va bene così, devi credermi, ma... non voglio che quella che per me sta a voler essere pura e semplice normalità diventi attrazione pubblica per giornalisti alla costante ricerca di gossip. Quello che c'è là fuori...», indico la finestra, «... è un mondo che non mi si addice. La fama è l'ultima cosa alla quale ambisco, Sherlock. Mi dispiace se ti ho portato a credere tutt'altro... Sappilo, Sherlock, non c'è posto più bello di questo appartamento dove vorrei essere adesso».
«La gente parlerà sempre e comunque», riprende ancora, stavolta con voce incredibilmente carezzevole e comprensiva, «Ciò non deve impedirti di andare avanti con la tua vita, Guarda me e John! ... Fino a qualche settimana fa si guardava a noi come una – testuali parole – "coppia affiatati di scapoli", e ora guarda un po', "La rossa in giallo arriva a demolire ogni precedente tendenza sessuale da parte dei due uomini".
La stampa vuole una cosa a tre? ... Bè, che creda pure quello che voglia!».
Mi scappa una risata che proprio non sono in grado di controllare e che, miracolo di tutti i miracoli, portano Sherlock a sciogliersi come un pezzo di burro, spazzando via una volta per tutte quella patina di serietà che gli si era creata in viso.
«Non farti prendere dal panico», torna a rassicurarmi, serio eppure ancora un bel po' divertito. «Ci toccherà essere prudenti, tutto qui. E poi, non sia mai che la mia fama nascente venga eclissata da una ragazzina ammaliata dal brivido del mistero».
«Ragazzina a chi? ... E poi, senti chi parla! ... "Il detective col cappello!"».
«Già... E pensare che cercavo solo un modo per passare inosservato. Dannato cappello...».
«Come no! Il tuo intento è riuscito alla grande!». Mi ostino a non dargli tregua in questa lotta verbale tutta incentrata sull'autoironia.
«Piantala ora, e vedi di dare un'occhiata al blog di John. La noia mi sta uccidendo!».
Così, con un sorriso che non accenna ad abbandonarmi, faccio come mi è stato detto, spostandomi davanti al pc già in funzione. Come previsto, Sherlock sprofonda una seconda volta in poltrona, occhi chiusi e mani a piramide sotto il mento.
Se non lo conoscessi a dovere penserei abbia deciso di darsi alla preghiera con la speranza di sentirsi informato da me riguardo a un caso abbastanza succulento e perciò degno della sua attenzione, quando in realtà quella sua stramba posizione adottata dalla sua elegante figura non è altro se non uno dei suoi metodi più efficaci finalizzati a ottenere più concentrazione.
Una volta inforcati gli occhiali recuperati dall'astuccio giallo a sua volta scovato all'interno della mia pratica borsa a tracolla, porto i miei occhi a scorrere all'unisono con la freccetta bianca che va a cliccare sugli unici due messaggi ricevuti rispettivamente da due clienti, entrambi speranzosi di potersi porre alla piena attenzione del più bravo investigatore privato di tutta la nazione inglese.
Impresa non di certo facile, avendo constatato i temi trattati sia dall'uomo che scrive di voler far luce su un presunto tradimento perpetrato da sua moglie, sia dalla donna la quale disperata dice di voler ritrovare il suo cagnolino scomparso in circostanze del tutto misteriose.
«Dal tuo silenzio suppongo non ci sia nulla su cui indagare», dice a un certo punto Sherlock ancora immerso nella sua attività di meditazione.
«Ce ne sarebbero due, ma...»
«Perfetto allora!», esclama quello rimbalzando agilmente in avanti dalla sua postazione. Non mi ha neppure dato il tempo di vederlo aprire gli occhi che già è alla porta, a quanto pare pronto per fare non so che cosa.
«E ora che ti prende?», gli domando sconcertata.
«Usciamo. Ho bisogno di pensare e mi riesce meglio se parlo a voce alta, ma non vorrei attirare troppo l'attenzione su di me».
«E io, di preciso, a che cosa servirei in tal caso? Da spalla ai tuoi monologhi?». Lo guardo seduta ancora alla scrivania mentre me ne sto col busto girato per tre quarti.
«Ci porterei volentieri il mio amico teschio, ma sai...»
«Certo. Attirerebbe maggiormente l'attenzione. E questa è una delle cose che odi di più in assoluto, ovvio», affermo con una punta di sarcasmo.
«Esatto. Vedo che stai imparando. Allora, vieni?»
«Se dico di no?», domando fingendo curiosità.
«Ti perderesti delle ottime patatine fritte. Andiamo, Annie, ti consiglio di non rifiutare», mi dice con voce vellutata e carezzevole che, unita all'occhiata che mi porge, tanto ammaliatrice, riesce a renderlo un perfetto diavolo tentatore.
Ciò nonostante, penso a fare spallucce e ad accettare con la più totale indifferenza: «E va bene, ma lo faccio solo per le patatine. In effetti, dovrei mangiare qualcosa».
Mi appresto allora a prepararmi a questa mia imminente uscita assieme al detective, dimenticando tutto il resto che non siano, ovviamente, le patatine fritte che il mio stomaco vuoto pregusta già di ricevere dentro di sé. Ma è il suono improvviso di un cellulare, che mi porta a bloccarmi di colpo per mostrare interesse nei confronti del mio vicino di casa il quale si appresta a rispondere col suo apparecchio.
«Lestrade, era ora che ti rifacessi vivo!». Si cimenta il giovane nella conversazione, intenzionato più che mai a rimproverare l'ispettore come se da quello dipendesse sul serio la mancanza o meno di omicidi e atti di criminalità. Esattamente il genere di passatempi a Sherlock Holmes sempre molto graditi. «Dove? Certo, ma assicurati soltanto che non ci sia Anderson, non lo voglio fra i piedi... Sì, lo conosco, sarò lì tra...», si prende un secondo di pausa per adocchiare il suo orologio da polso, «... quattordici minuti al massimo; diciassette se consideriamo il fattore traffico». Quindi, riaggancia immediatamente tralasciando tutti quei convenevoli che di norma vanno a finire una telefonata.
Osservo Sherlock, ora posseduto dall'ormai familiare spirito conosciuto col nome di iperattività investigativa, che sfreccia da una parte all'altra del salotto afferrando i primi oggetti che gli capitano a tiro, tra quelli, il paio di manette tanto educatamente sgraffignate sotto il naso dello stesso ispettore Lestrade, un'agenda tascabile e il suo astuccio, che spesso gli ho visto usare, contenente strumenti da laboratorio utili a prelevare campioni di sangue, impronte, e tanto altro. Quest'ultimo oggetto mi fa supporre possa esserci di mezzo un cadavere stato precedentemente assassinato.
«Sherlock, dove andiamo?», chiedo spiegazioni a un detective talmente risucchiato dalla foga del momento da essersi dimenticato di una sua certa vicina di casa, nonché seconda assistente, alla quale aveva promesso, solo mezzo minuto fa, un'invitante porzione di patatine fritte ricoperte di squisita maionese.
«Sherlock!», mi ripeto con maggiore enfasi.
«Oh, Annie, già... Bè, dimentica le patatine».
«Bene, allora sono pronta».
«Dove credi di andare?»
«Mi hai detto tu di seguirti», rispondo candidamente senza distogliere gli occhi dal suo viso.
«Annie, ascolta», prosegue Sherlock mettendo pochi passi in avanti, ma fermandosi quasi subito. Mi appare a un tratto impacciato e oserei pensare, desolato. «Prevedo uno stuolo di videocamere e reporter al di fuori del luogo che sto per raggiungere. Nessuno di noi due vorrebbe che tu diventassi una seconda volta loro preda, dico bene?»
«Sì», asserisco mio malgrado, concedendogli la mia più totale comprensione e tuttavia senza riuscire a celargli tutto il rammarico che mi ha colpito tanto inaspettatamente.
«Sarà per un'altra volta», decreta lui, infine.
«Okay». Non posso dire altro perché rassegnata a quella sua saggia decisione.
A questo punto, non mi resta che lasciare questo piano per chiudermi nel mio appartamento e trovare di conseguenza qualcos'altro a cui dedicare le mie ultime energie della giornata.
Mi basta un'ultima occhiata diretta a Sherlock, per poi decidermi di dileguarmi, ma mi accorgo subito che qualcosa non torna. Il ragazzo, infatti, se ne sta con gli occhi bassi e fissi, in un altro di quei suoi strambi atteggiamenti che in seguito sempre si sa celare qualcosa di ben diverso. Freno allora la mia lingua da ogni più improbabile intenzione di distogliere il consulente dai suoi pensieri, per uscire una volta per tutte dall'appartamento.
«Ti affido un caso».
Ancora, il potere della sua voce produce lo straordinario effetto di trarmi a sé. Mi volto tornando a fronteggiarlo spavaldamente e notando come nuovo dettaglio in quei suoi occhi dai toni tanto cangianti una spiccata luce che si va espandendo su tutto il resto del viso sbarbato. Non attende neppure una mia più che giusta richiesta di spiegazione, che mi precede con un inaspettato: «Lascio a te il compito di occuparti di uno dei miei ultimi clienti della giornata».
Rimango in questo modo inebetita da quelle parole buttate fuori come niente cosicché l'irrefrenabile impulso di ricordare all'uomo chi è il vero detective tra i due si fa strada immediatamente nella mia testa.
«Che? Spero tu stia scherzando. Io non sono te», ribatto in tono decisamente agitato.
«Esattamente. Troverai quei clienti abbastanza... interessanti da gestire. Per uno come me sarebbero troppo scontati e tediosi, ma per te...», mi lancia un'occhiata piuttosto eloquente, come se non terminare apposta la frase significasse per me già sapere in partenza quello che avrebbe voluto farmi intendere.
«Per me che cosa, esattamente?». Lo sprono a continuare e ad esprimere così tutto il suo modo di considerare la faccenda. Mi porto persino più vicina al suo corpo mantenendo a pieno coraggio il suo contatto visivo. Potrò pur non sembrargli appieno minacciosa, ma questo mio tentativo di rimarcare il mio essere testardo riesce a concedermi punti di vantaggio su di uno Sherlock Holmes ora visibilmente intimorito e che viene perciò indotto a indietreggiare.
«Allora, dicevi?», domando fingendo un tono altamente innocente.
«Oh, ammettilo, Annie, sai bene cosa intendo... E io sono in ritardo, ti lascio al tuo lavoro. Oh, e non illuderti, stavolta niente giornalisti a renderti celebre».
Ed è così che quel gran codardo di un consulente investigativo se la squaglia di gran corsa giù per le scale, dopo aver indossato sciarpa e cappotto e avermi rivolto un'ultima battuta d'attenzione finalizzata a strapparmi un sorriso: «La rossa in giallo risolve un nuovo mistero!».
Tutto ciò non fa altro che innalzare in me questo senso di panico e terrore nel trovarmi davanti un compito tanto assurdo.
* * *
L'indirizzo davanti al quale ferma il taxi su cui viaggio da circa venticinque minuti è il numero sei di Eaton Square.
La dimora testimone di un nuovo mistero su cui far luce è situata nell'elegante distretto di Belgravia, uno dei più ricchi quartieri che mi sia capitato a tiro fin dal mio primissimo arrivo a Londra. Qui, una serie di enormi palazzi rifiniti in stucco bianco accolgono, in una successione quasi infinita, tutti i vari indirizzi abitativi di questa fetta londinese facente parte della citta di Westminster.
Mi appresto a raggiungere il piccolo portico caratterizzato da due colonne candide poste ai due lati e sulla cui superficie va spiccando il nero del numero civico, in netto contrasto con l'intero edificio, e che assieme alla porta verniciata anch'essa nera e al medesimo colore delle basse cancellate che si dilungano per tutto il palazzo, meglio aiutano a conferire quel senso di sobria eleganza e sottile raffinatezza all'insieme.
In toto, credo che l'atmosfera di quiete e agiatezza economica che tanto vi aleggia intorno, sebbene in maniera discreta, serva a far sì che chiunque ne sia immerso possa parlare di questo come un quartiere rispettabile e dall'apparenza sicuro per chiunque ci abiti.
Osservo il lucido batacchio rotondo e dorato che vi troneggia nel mezzo della porta, e mi viene da chiedermi cosa ci fa una come me in un posto così bello, e di conseguenza se sia questo l'indirizzo giusto.
Allungo la mano destra appena più in alto in direzione del citofono, rimuginandoci un po' su prima di premere l'indice contro il piccolo tasto rettangolare.
Ma dico, cosa diavolo mi diceva la testa nel momento in cui ho accettato di sobbarcarmi un'impresa simile?!
Certo, permettermi di poter scegliere tra quelle che erano le sole e uniche due opzioni a disposizione, e di conseguenza concedermi la possibilità di accettare il caso a mio parere più semplice, credo possa essere passata per una straordinaria gentilezza se vista dal punto di vista, anche se piuttosto contorto, di Sherlock Holmes. Ma un'indagine è pur sempre un'indagine, per quanto fattibile o complessa risulti. Ed io, come già ribadito all'uomo, non sono lui.
Decido finalmente di schiacciare il pulsante prima che l'idea di un'allettante fuga mi porti a fare marcia indietro, quindi attendo che la porta mi venga aperta così da farmi trovare a tu per tu con un ennesimo mistero da risolvere, senza tuttavia poter sperare di contare sull'aiuto di un certo detective perché troppo preso da altre faccende di ben maggior importanza.
Non sia mai che la sua autostima venga messa a dura prova dalla scomparsa di un semplice cucciolo da ritrovare, prorompe seccata la mia coscienza, alla quale concedo volentieri manforte togliendo di mezzo l'immagine fluttuante di un irascibile e testardo ragazzo dagli occhi di ghiaccio che insiste a occuparmi inutilmente la testa.
Poi, non mi basta che aspettare niente più di una manciata di secondi per vedermi comparire davanti una ragazza dai capelli corti e castani e un paio di occhiali da vista con montatura scura, la quale, schiva e titubante alla mia visione, si esprime subito con un sorriso decisamente timido.
Ci scrutiamo dapprima a vicenda senza però riuscire a ottenere alcun cenno da parte di entrambe, fin quando una voce proveniente dall'interno della casa sovrasta il nostro imbarazzante silenzio.
Di primo acchito non mi è consentito di comprendere appieno le parole di quella voce femminile, ma un cenno affermativo della ragazza che mi sta di fronte mi lascia intendere di poter superare l'uscio. Questo dà accesso a un piccolo ingresso spoglio eccetto per uno zerbino arancione su cui mi prodigo di strusciare le scarpe, per poi seguire ancora la giovane dai capelli corti all'interno di un vero e proprio vestibolo a cui accediamo per mezzo di una grande porta a due ante color legno scuro.
La casa vera e propria si va così aprendosi ai miei occhi, mostrando un ambiente pulito e profumato, sobriamente decorato con gusto e signorilità. Sposto il capo dai pavimenti in marmo bianco ai soffitti altrettanto candidi ma abbelliti da lampadari di cristallo, sino poi alla scalinata ricoperta di una bella moquette color petrolio. Il tutto finemente adornato da alti vasi contenenti piante per interni, gingilli di ceramica racchiusi all'interno di un'elegante vetrinetta lucidissima, e in particolare, da un piccolo divanetto stile impero posto in concomitanza dell'entrata, con in più un grande specchio rettangolare a sovrastarlo e a cui fa da cornice un motivetto intarsiato di steli e foglioline d'argento.
«Prego, si accomodi, da questa parte».
La voce della ragazza che mi fa da guida mi risucchia all'improvviso da questa mia contemplazione ammaliatrice.
Credo di non aver mai visto niente di più bello. Ma ben presto, venendo catapultata nella stanza immediatamente attigua allo spazioso ingresso appena calpestato, non posso che lasciarmi una seconda volta trasportare dall'incanto e dalla bellezza del luogo.
Il grande salone, caratterizzato da una grande vetrata drappeggiata da tende chiare e ricamate, vanta della stessa eleganza composta del vestibolo, con due medesimi lampadari a gocce pendenti di cristallo dai quali viene emanata una luce soffusa ma piacevole alla vista. Alte piante sono posizionate qua e là e, ancora, statuette di ogni forma e dimensione che tornano a far capolino in una enorme cristalliera al cui interno altrettanti bicchieri, vassoi splendenti e bottiglie di liquori se ne stanno in bella vista e diligentemente ordinati. Dulcis in fundo, una libreria stracolma di libri domina come una regina incontrastata lungo una delle due pareti adiacenti a quella della porta d'accesso alla stanza.
«Immaginavo che dietro a una voce tanto bella si celasse una signorina altrettanto piacevole allo sguardo».
Sussulto a quel suono cadenzato da una nota di dolcezza, l'unica a dire il vero che mi accerta di un'ulteriore presenza nella sala. Mi volto a individuare il punto di provenienza della voce: una donna sui settant'anni o forse poco più, in sedia a rotelle posta di fianco alla finestra, ma comunque nascosta quasi per intero dalla mia visuale perché bloccata dal lungo divano piazzato al centro della camera.
Rimedio subito alla mia piccola svista sfoggiando un sorriso di pura circostanza, mutandolo però, poco dopo, in uno tutto spontaneo perché influenzata dall'aura permeata di gentilezza e positività, che trapela dalla donna in questione.
«Buona sera... signora Price, dico bene?». Do inizio alla conversazione, rimanendo però ferma sulle mie gambe. Al contrario la mia cliente si aziona a muovere la sua carrozzella tramite dei tasti telecomandati davanti a lei e che perciò le consentono di spostarsi verso il divano. Lì, accanto a una poltrona nera, decide di accostarsi.
«La prego, mi chiami Amethyst. Si accomodi pure».
Non faccio ripetermelo due volte che già mi appresto ad accorciare le nostre distanze per dirigermi a sedermi sul morbido divano sfoderato grigio, in modo tale da fronteggiare ora la padrona di casa.
«Amelia, vieni anche tu».
Seguo lo sguardo della signora Price, voltandomi verso la porta dove la precedente ragazza dai capelli corti se ne rimane silenziosa.
«Sì, ma prima vado ad aiutare Jane col tè in cucina», le risponde dunque la giovane.
«Va bene», acconsente poi la più anziana in tono dolce.
Dileguata la giovane, posso ritornare dalla donna in sedia a rotelle.
Nonostante la sua disabilità quale la obbliga a una fissa permanenza su una carrozzella, la schiena tenuta dritta contro lo schienale, ma in generale, quel suo portamento rigido e dignitoso, mi porta a immaginare quale genere di donna fiera e austera fosse stata in passato. Atteggiamento certamente non mutato durante gli anni e che per questo la mostra ora ancora giovane e forte nell'animo, con l'unica eccezione di qualche ruga sul viso chiaro e coperto da un leggerissimo velo di trucco che tanto lo fa somigliare a una delicata porcellana.
«Signora Price, io...»
«Amethyst, cara», mi riprende.
«Giusto, mi scusi. Ha un nome bellissimo», confido alla donna, arrossendo di poco e contorcendomi le mani sui jeans.
«Oh, la ringrazio. Se non ricordo male, lei deve chiamarsi Anna... Sa, le conversazioni al telefono non sono mai il mio forte e di solito dimentico un nome se non lo appunto da qualche parte», mi dice ridacchiando appena.
«Mi chiami pure Annie, lo preferisco, e come già accennato per via telefonica, può considerarmi coma la tramite di Sherlock Holmes, una sorta di seconda assistente, senza nulla togliere al dottor Watson, è chiaro.
Il... detective, al momento si trovava particolarmente impegnato con un caso bello grosso, così eccomi qui». Termino nascondendo una certa ansia e, perciò, preferendo come panorama sui cui soffermare i miei occhi una serie di quadri colorati che ben contrastano contro le pareti color crema, e raffiguranti dipinti di paesaggi con prati fioriti, cascate e casette di campagna. In aggiunta a quelli, due poster enormi ritraenti in entrambi un uomo e una donna su sfondi differenti, ma con stessa e identica posa: in uno le mani di lei intrecciate a quelle di lui nel giorno del loro matrimonio, nel secondo la giovane coppia, mano nella mano, fotografati davanti a una casetta rustica circondata da verdi campi. A conferma di quanto già intuito posso constatare quanto la signora Price fosse bella e molto sofisticata nei suoi abiti antiquati, che fanno respirare un particolare momento intriso non soltanto di storia, ma soprattutto di tempi passati, felici così come anche duri e ormai lontani dall'essere rivissuti.
A fare da ulteriore comune denominatore alle due fotografie, dei sorrisi teneri e ricchi d'amore che traspariscono da entrambi i volti.
«Quello è mio marito».
Vengo ben presto indotta a distogliere l'attenzione dalla parete per udire dalle labbra rosee e increspate di Amethyst la sua voce rotta a tratti da un'evidente commozione.
«Detesto pensare al mio Luke come a un qualcosa di ormai superato. Mi piace pensarlo ancora qui, accanto a me, magari sulla sua poltrona dove era solito fumare i suoi sigari o leggere un libro. E anche se questo non offre una consolazione maggiore, lui sarà sempre mio marito, e mai parlerò di lui al passato».
«Mi dispiace», pronuncio a fior di labbra, pur odiando pesantemente me stessa per una frase tanto scontata e affatto rincuorante nei confronti di una donna, il cui dolore per la morte del suo unico e vero amore è ancora troppo fresco nella sua memoria; ricordo che, certamente, mai potrà sperare di essere cancellato.
So per certo ad esempio quale sforzo è costato a me sorbire la stessa e identica frase, la quale ogni maledetta volta non ha avuto altro effetto se non quello di indurmi a rivivere il mio incubo peggiore e insieme, sprofondare, in un modo ancora più brutale nel dolore causato dalla perdita dei miei genitori. Frase che, se poi esposta in una maniera sempre troppo frettolosa e disinteressata, quasi come un obbligo, finiva per risultarmi sempre poco convincente, se non persino totalmente fittizia, dandomi prova concreta di quanta poca gente fosse in realtà interessata al mio conforto in un momento tanto delicato come quello.
Gli occhi chiari e acquosi dell'anziana signora appaiono ora assenti e lucidi, così terribilmente tristi.
«Amethyst...». Cerco in qualche modo di ridestarla da quel vortice di ricordi dai quali, so bene, è sempre più difficile uscirne illesi una volta esserci finiti. Mi sforzo persino di apparirle il più controllata e professionale possibile, rivolgendomi a lei proprio come se avessi appieno la situazione sotto controllo. Come se il suo racconto non avesse scalfito la mia parte già lesa, senza riaprirla per farla un'altra volta sanguinare copiosamente. In poche parole, senza coinvolgimenti emotivi alcuni.
Ma questo è quello che avrebbe fatto lui, l'uomo col cappello buffo, e per quanto io possa sforzarmi di apparire uguale a lui, parlare e comportarmi come lui, alla fine non sarò mai lui. «... se la sente di parlarmi del suo caso?».
Come per magia, la donna sembra riscuotersi violentemente come animata da nuovo spirito vitale; il capo ingrigito dall'età viene sollevato con uno scatto felino facendo oscillare il bel paio di orecchini pendenti che indossa.
«Ma guarda che sciocca! Lei è qui per conto del signor Holmes ed io bado a perdere del tempo prezioso parlando del passato!».
Le sorrido al fine di tranquillizzarla. «Bè, non deve preoccuparsi, davvero. Ora mi racconti tutto con calma».
La signora Price, si concede, dunque, un breve momento di pausa, giocherellando distrattamente con le perle della sua collana, che va ad adornare il collo sottile e rugoso conferendogli eleganza. La mano esile e venosa trema leggermente a contatto delle piccole sfere color rosa pesca.
Per un momento, ho seriamente paura per la sua incolumità, finché non la vedo tornare in sé, quindi calmarsi e darsi nuovamente un tono.
«Come già sa, si tratta della mia adorata cagnolina, Chloe». Detto ciò, porta indietro la sua sedia a rotelle di pochi centimetri per poi fare manovra verso sinistra, compiere un cerchio a metà e recarsi verso la grande libreria che ingombra quasi interamente una parete. Vedo il collo dell'anziana allungarsi nello sforzo di guardare verso l'alto, rispetto alla sua posizione sedentaria che si ritrova a dover subire, nell'atto di cercare qualcosa posto al di sopra dei numerosi scaffali che sostengono libri, altre fotografie varie e pezzi da collezione, tra in quali un discreto numero composto da piccole bambole di porcellana tutte agghindate nei loro vestitini di morbida stoffa colorata.
«Le dispiacerebbe aiutarmi?»
«Subito!». Le sono immediatamente accanto per assecondarla nell'ardua impresa – ovviamente da sua parte – di raggiungere una fotografia incorniciata e raffigurante un cane, il suo cane, per l'appunto.
«Ecco, Chloe», mi dice la donna, indicando l'animale tramite un cenno col capo.
«È splendida», commento con sincera ammirazione, fermandomi a osservare la slanciata figura della bella barboncina bianca che guarda attenta verso l'obiettivo della macchina fotografica. Sulle orecchie candide e ricciolute, due fiocchetti rosa spiccano per conferirle un'aria ancor più graziosa e, oserei, altezzosa. Decisamente un cane degno di un quartiere altolocato quale Belgravia.
«Mi racconti come e quando è scomparsa».
«Per quello avremo bisogno di mia...»
«Il tè è pronto, nonna».
Una voce femminile sorprende entrambe per annunciare l'entrata in scena della giovane dai capelli corti, che si fa strada nel salotto venendo inoltre accompagnata da un lieve tintinnare di ceramiche che cozzano tra loro.
«Tempismo perfetto! ... Anna, direi che possiamo riaccomodarci così da poterle spiegare tutto l'accaduto», mi sprona la signora Price con tono gioviale e accomodante, precedendomi nella sua sedia a rotelle elettrica.
Una volta riaccomodata sul confortevole divano, accetto per mano della ragazza – nipote di Amethyst – una delicata tazzina bianca, con un'elegante fascia argentata che pensa a fare da decorazione lungo il bordo sottile.
«Non le ho ancora fatto il piacere di presentarmi, signorina. Sono Amelia e, se posso permettermi, sono una grande ammiratrice del signor Holmes. Bè, a dire il vero lo siamo entrambe», chiaro riferimento a sua nonna. «Speravamo tanto di incontrarlo», confida poi con un evidente nota di delusione nella voce, tanto che catapultata nel più totale imbarazzo mi ritrovo ad abbassare lo sguardo sulla rimanente teiera, quella affiancata da un piattino di frollini al cioccolato, il tutto servito su un semplice ma colorato vassoio bianco ornato da un motivetto che vede alternare fiorellini lilla ad altri azzurri e gialli. L'intero servizio da tè risulta essere un bel mix di allegria e femminilità.
«Amelia, tesoro, se il signor Holmes ha deciso di prendere in carico il nostro caso nonostante i suoi ben altri significativi impegni, offrendoci il suo aiuto tramite la sua assistente, la signorina Annie, vorrà dire che non ci sarà nulla per cui preoccuparsi. La nostra Chloe tornerà presto da noi».
Se solo sapesse la verità sull'apparente gesto di grande generosità di Sherlock Holmes...
«Non ho mai sentito parlare di un'assistente al femminile, il dottor John Watson è il solo e unico ad affiancare Sherlock Holmes. Nonna, siamo davvero sicure di poterci fidare...»
«Amelia!», mi giunge in soccorso l'anziana cliente con incredibile autorità pur mantenendo un tono pacato.
Io che per tutto il tempo sono rimasta nel più remissivo silenzio, decido che sia ora di prendere la parola, sebbene con un certo e insistente tremolio nelle corde vocali. Faccio appello a tutto il mio coraggio, pur ritrovandomi in soggezione a causa degli occhi verdi da cerbiatto di Amelia, incollati insistentemente sulla mia faccia.
Poso delicatamente la mia tazza sul vassoio a sua volta collocato sulla superficie trasparente del basso tavolino ovale che mi sta davanti, per immergere entrambe le mani nella mia borsa e tirarne fuori penna e taccuino, miei inseparabili strumenti, utili per appuntarvi informazioni che potrei dimenticare e che potrebbero risultare preziosi all'indagine. Inoltre, non nego come questi aiutino a conferirmi un'aria da apprendista detective decisamente più realistica e professionale.
«Tempo e luogo della scomparsa della piccola Chloe. Ogni indizio sarà fondamentale».
Do inizio al mio lavoro, spostando lo sguardo dall'anziana alla giovane Amelia la quale tende ancora a fissarmi con aria scettica e indagatrice, come pure con un certo interesse.
Quella sua espressione concentrata che la porta a corrugare la fronte e a tenere leggermente in alto il sopracciglio destro fa vacillare per un attimo il mio riscoperto autocontrollo, portandomi tuttavia a notare, forse per la prima volta, caratteristiche particolari che contraddistinguono il viso della ragazza.
Il taglio di capelli corto, per l'appunto, è tenuto spettinato con un ciuffo di frangia scalata che le cade da un lato della fronte andando a sfiorare un angolo di occhio. Inoltre, per mezzo di una mano che si lascia passare all'indietro fra quella massa castana pulita e setosa, va a ravvivare le varie ciocche dai riflessi cangianti, le quali finiscono per ritornare esattamente al proprio posto conferendo così alla donna un'aria costantemente sbarazzina e disinvolta. Cosa che le invidio e non poco perché, al contrario suo, se mi dilettassi a scompigliare con le dita i miei capelli, lunghi e tenuti appuntati dietro le orecchie o, il più delle volte, mediante l'aiuto di un frontino, sono ben consapevole di come mi toccherebbe far ricorso a spazzola e specchio per dar loro una seconda parvenza di ordine.
Il naso dritto e ben proporzionato, ospita una poco visibile spruzzata di lentiggini su un volto magro e dai tratti dolci, benché pure curiosi e svegli, su cui alcuna imperfezione mi sembra di notare.
«Forza, Amelia». Vengo scossa da quell'incitamento da parte della signora Price, così da intuire di dovermi concentrare ancora sulla ragazza appena messa sotto mio esame, piuttosto che sulla donna la quale ripone in me molte più speranze dell'altra.
Stringo la penna tra l'indice e il medio a mo' di sigaretta, cercando di apparire sempre più sicura man mano che si prosegue col racconto, ed è a questo punto che Amelia sembra rilassarsi, decidendo così di fare la cosa giusta per tutti: fidarsi della sottoscritta.
«È successo due giorni fa. Ero uscita con Chloe per una passeggiata... Lo faccio sempre quando sono qui».
«Durante quale momento della giornata, di preciso?». La interrompo prima di permetterle di continuare, pensando al contempo in che modo una simile domanda possa fare la differenza al fine del proseguimento dell'indagine.
«Sera, e credo fossero all'incirca le nove».
Appunto il primo vero dettaglio della storia sulla piccola agenda e faccio cenno alla ragazza di proseguire.
«È stato tutto troppo veloce. Solitamente in un quartiere come questo non vi circolano mai troppe auto, tanto più durante le ore tarde. Tenevo Chloe libera dal guinzaglio, insomma... l'ho sempre fatto, soprattutto in mancanza di altra gente».
«Dove eravate quando è successo?». La blocco ancora.
«Facevamo il giro completo del palazzo. Chloe mi camminava davanti mentre io la seguivo, finché d'improvviso ho notato uno strano comportamento in lei. Non so spiegarlo, ma a un certo punto ha cominciato a essere irrequieta tanto da iniziare a zampettare più veloce, facendo aumentare la distanza che ci separava. E poi è successo...».
Lascio Amelia libera di prendersi una breve pausa, da parte mia approfittando del momento per annotare il tutto quanto più velocemente la mia mano possa permettersi di fare. Terminato il mio operato, alzo gli occhi per incrociare quelli verdi di Amelia, ora lucidi e prossimi a un pianto.
«Cos'è successo?», le domando con dolcezza e in qualche modo percependo chiaramente la futura risposta che mi sarà presentata.
«L'ho seguita fino all'imboccatura di un angolo... Ho svoltato a sinistra, ma di lei non c'era più alcuna traccia. Continuavo a guardare in tutte le direzioni... Urlavo il suo nome... Niente! Chloe sembrava sparita del tutto».
«Non ricorda alcun passante in quel momento?»
«Neanche un'ombra, glielo assicuro. Sono corsa a rifare tutto il percorso di andata e ritorno, e a niente è servito».
Abbandono la penna sulla pagina liscia e per metà consumata della mia agenda, dando un freno a me stessa per cominciare sul serio a riflettere su tutto lo strano e l'assurdo che mi è stato presentato in questa faccenda. A quanto pare mi ero sbagliata: non è una sparizione come un'altra; non comune come supposto invece dallo stesso Sherlock.
«Un'altra domanda, Amelia. Nell'esatto istante in cui ha visto Chloe mettersi in allarme, ha sentito qualcosa di inusuale? ... Non so... un suono particolare, magari, un fischio, o una voce?»
«Non mi pare. Ricordo solo il silenzio o, per lo meno, l'abbaiare di un altro paio di cani proveniente dalle abitazioni vicine».
«Prima che Chloe sparisse?»
«Credo nell'esatto momento in cui Chloe ha preso a correre verso lo svincolo, ma potrei anche sbagliarmi... Come può un cane essere sparito così dal nulla nel giro di pochi secondi?».
Già. Come?
Il cervello comincia a lambiccarsi per questo insistente interrogativo, pur non trovando altra soluzione se non quella di prendere sul serio in considerazione l'idea di chiedere l'aiuto di un certo detective testardo e facilmente irascibile, il quale dovrà pur ricredersi circa la gravità del caso da lui appioppatomi perché considerato niente più che una perdita di tempo.
«Ho bisogno di vedere l'esatto punto in cui la cagnolina è scomparsa». Decreto tutt'a un tratto in piena autorità, mettendo via penna e agenda e rimettendomi in piedi. Subito vengo seguita dalla giovane Amelia la quale noto mandare segnali muti – perché a suon di sguardi – verso sua nonna. Quest'ultima asserisce concedendoci una sorta di permesso d'uscita e, in men che non si dica, vengo catapultata all'esterno dell'abitazione con Amelia che pensa a farmi da guida.
Quiete e silenzio rivestono l'intero quartiere. Un vento freddo e persistente mi tormenta i capelli in un turbinio convulso di ciocche ramate che mi vedo costretta a scacciare via da occhi e bocca. Il capo della ragazza, invece, pare non avere alcun tipo di intoppi grazie al cappellino di lana rossa che ha pensato di indossare un momento prima di emergere all'aperto.
Inoltre, vestita di una semplice camicetta blu a quadretti neri con maniche arrotolate sulle braccia esili e molto chiare, in aggiunta a pantaloni neri e stivaletti bassi, avanza a passo spedito e sicuro lungo tutto il grande complesso di case a schiera che, tutte ugualmente divise per colonne bianche con sopra riportati i dovuti numeri civici, si perdono a vista d'occhio, ma solo fin quando l'angolo di svolta non fa capolino nella mia visuale, facendo così da punto a una facciata e dandone, quindi, il via ad un'altra.
Ed è proprio allo svoltare di questo primissimo svincolo, che Amelia decide di fermarsi senza alcun tipo di preavviso, accennando tramite un'occhiata a questo come il luogo testimone dell'oscuro misfatto.
«Bene... Ehm... vediamo un po'», pronuncio senza tuttavia alcuna convinzione, distogliendo persino lo sguardo dalla mia, immagino, coetanea, prima che riesca a leggermi in viso tutto fuorché competenza.
Da una prima osservazione posso solo constatare come asfalto e marciapiede siano tenuti, forse troppo, eccessivamente puliti. Allo stesso modo, da un ulteriore controllo più attento e meticoloso ricevo la prematura e definitiva certezza di non poterci cavare un ragno dal buco; niente macchie di dubbia provenienza, nulla che io possa anche solo collegare alla parola "sospetto". Il niente più assoluto.
Faccio vagare la mia attenzione un po' dappertutto, nell'aria circostante occupata da innumerevoli altri palazzi bianchi ed eleganti, insieme ai loro altrettanti numeri civici a caratteri grandi e neri, oltre che alle file ordinate di auto parcheggiate in concomitanza delle basse cancellate che delimitano e abbelliscono le residenze.
Poi, quasi inevitabilmente, le mie pupille catturano nel loro campo d'osservazione un qualcosa che riesce ad accendermi il cuore di speranza: una telecamera di sorveglianza. Di conseguenza, la mia mente non può che correre a ripescare delle parole che, a effetto domino, vanno a delineare quella che potrebbe apparire come una possibile soluzione ai miei problemi, o meglio, a quelli delle mie due clienti; Mycroft Holmes, infatti, non è altro che il risultato finale del connubio che viene a crearsi se si coinvolgono le parole "videosorveglianza" e "governo inglese" tutte in una stessa frase.
Ben presto però il mio entusiasmo viene a smontarsi non appena un quesito su cui riflettere si fa strada risalendo dagli oscuri meandri della mia coscienza, ovvero "Chi mai metterebbe in allarme uno degli apparati di sorveglianza a circuito chiuso più estesi del mondo solo per una barboncina sparita durante una passeggiata di routine, anche se quella, facente parte di un quartiere alto come Belgravia?... A meno che non siano gli stessi amici pelosetti della regnante inglese a dover ricorrere all'aiuto di tipo migliaia di agenti operanti in un vasto settore come la rete di videosorveglianza britannica..."
Senza nulla togliere agli adorabili corgi della sovrana, sia chiaro.
«Immagino ne abbiate denunciato la scomparsa alla polizia...». Tento la sorte, immaginando già un gruppo di poliziotti alle prese con l'analizzare spezzoni di video in bianco e nero inerenti a questo angolo di strada.
«Eccome! Ma, sa come vanno queste cose, e mai nessuno riesce a prendere sul serio il semplice caso di un animale scomparso. "Vedremo quello che riusciremo a fare, ma non le assicuro nulla. Intanto cerchi di affiggere quanti più volantini di riconoscimento possibili." ... Parole di un poliziotto grasso e pigro con cui ho avuto "l'onore" di parlare, stamani. Sherlock Holmes era la nostra unica speranza e, a quanto pare, il solo ad aver voluto accettare il caso».
Le sorrido fingendo di assecondare quella sua convinzione. «Bè, molto rassicurante, non c'è che dire. Penso che possiamo rientrare, credo di avere elementi sufficienti per dare il via alle indagini». Mento ancora davanti al sorriso di pura illusione che le compare sulle labbra. Vorrei sul serio prendermi a sprangate, e tutto per colpa di quell'inutile quanto idiota consulente investigatore! Quando lo trovo, giuro che gliene suono...
«Non può immaginare quanto io mi senta in colpa», prorompe a un tratto Amelia, riattivando le gambe e riprendendo a camminare. Faccio lo stesso anch'io, affrettandomi ad affiancarla sulla via del ritorno.
«Non è colpa sua», cerco di rassicurarla, ben consapevole di perdere già in partenza.
«Non cerchi di convincermi del contrario. So che è così. È a causa mia se Chloe è sparita, mi sento responsabile, e mia nonna non lo meritava affatto. Chloe è la sola compagnia che ha...».
«Pensavo ci vivesse insieme...», rivelo. Una fogliolina scricchiola sotto le mie scarpe.
«Infatti. Si è presa cura di me da quando avevo sedici anni. Niente di che, solo... I miei genitori vivono in un paesino sperduto dell'Irlanda del Nord... Semplicemente non ci stavo bene, tutto qui. Londra è sempre stato il rifugio al quale ambivo sin da bambina. Ho sempre adorato trascorrere le estati in questo quartiere, e il Natale! Senza contare il fatto che Cambridge possiede la migliore facoltà di medicina che si può trovare».
«Medicina! Bella tosta, eh?», ci ironizzo su, sperando di cambiare rotta ai pensieri della giovane. Intanto una nuova immagine mi si apre davanti, mostrando una me in camice bianco e un cucciolo scodinzolante pronto per una visitina di routine. In effetti, non poi così tanto dissimile dalla prospettiva di vita che io stessa ho sperato di poter proseguire, quando ancora il dolore significava niente più che un orribile mostro da tenere lontano, fuori dalla porta di casa di una famigliola felice e soddisfatta della propria esistenza.
Entrambe silenziose e rintanate ognuna nei propri pensieri ci affrettiamo a rientrare in casa, dove una cameriera bionda ci accoglie facendoci riaccomodare in salotto. Qui, la signora Price visibilmente afflitta da malinconia, se ne sta con occhi puntati alla grande finestra, insieme a un senso di aspettativa sempre più crescente di veder riapparire da un momento all'altro la sua amatissima cagnolina.
«Nonna». Sento Amelia mettersi in allarme mentre si reca subito dall'anziana.
Assisto quindi a un breve scambio di battute tra parole di conforto da parte di Amelia, altre per conto della donna in sedia a rotelle atte a rassicurare la giovane nipote.
In seguito, decido che sia giunto il momento di togliere il disturbo e, molto premurosamente, la signora Price ordina alla cameriera Jane di chiamare un taxi appositamente per me.
«Annie...», mi richiama a sé Amelia, prima che io possa varcare l'uscio e raggiungere il taxi in sosta.
«Sì?»
«Voglio che lei tenga il mio numero di cellulare». Mi allunga allora un piccolo pezzo di carta strappato malamente e con sopra appuntate delle cifre accompagnate a delle lettere scritte con una grafia un tantino frettolosa, ma ben leggibile, e che vanno a formare rispettivamente un nome e un cognome: Amelia Cage.
«Per qualsiasi nuovo sviluppo mi chiama pure. Mia nonna ha un bisogno disperato di Chloe. Dopo la morte di suo marito non è più stata la stessa». Avverto un leggero tremolio nella voce, dettaglio che lascia trasparire tutta la sua immensa stima e un grande affetto nei confronti della donna che, in tutti questi anni, le è stata vicina non solo come nonna ma pure nei panni di una madre.
«Mi dispiace di aver dubitato di lei... Magari uno di questi giorni potrà presentarci Sherlock Holmes! A mia nonna farebbe molto piacere; non lo dà a vedere, ma ne è un'accanita fan! ... Legge persino il blog del dottor Watson. Dice di trovare il signor Holmes un giovanotto molto affascinante».
Non posso fare a meno di sboccare in una divertita risata, smorzando, seppur per un breve lasso di tempo, tutta la tensione e la preoccupazione circa il caso a cui dovrò ben presto rispondere.
«Vedrò quello che posso fare. Oh, e per favore, vorrei che ci dessimo del tu!», mi pronuncio per l'ultima volta ammiccandole complice con una strizzatina d'occhio.
Poi, con la porta che si va chiudendo alle mie spalle, mi accingo a passo rapido verso il taxi, avvertendo a un certo punto una strana sensazione di disagio farsi largo dentro di me. Un brivido mi risale lungo la schiena. Mi dico sia colpa del vento freddo che insiste a scompigliarmi i capelli, fin quando un fugace movimento che avverto con la coda del mio occhio sinistro mi porta davvero a credere di aver scorto la presenza di un'ombra scura, quella, però, sparita subito dopo dietro l'angolo del palazzo.
Non sto a riflettere su chi o che cosa io possa aver affettivamente visto, tanto che in seguito a un'ultima occhiata fugace verso quel preciso punto, mi appresto a prendere posto nell'abitacolo dell'automobile, e a ripartire così alla volta del 221 B, insieme a mille e oscuri interrogativi che mi svolazzano in testa.
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