Capitolo 13: C. K.

Tutto ciò che ci è concesso fare in un momento come questo è il solo assecondare Sherlock Holmes in un altro dei suoi numeri esibizionistici di apparente follia.

Le suore che solo un secondo prima erano incollate con le orecchie alla porta della cucina, si vedono costrette a farsi da parte nell'esatto istante in cui, dopo aver spalancato con irruenza i due battenti scorrevoli, quella furia scatenata del consulente investigativo si abbatte su di loro facendosi strada tra il piccolo gruppo attonito; come da copione, inoltre, senza neppure prodigarsi di chiedere alcun permesso di passaggio. Le donne, dunque, non possono fare altro se non riavvicinarsi tra loro per incrementare il brusio concitato stringendosi le une alle altre, e con le mani davanti alle labbra bisbigliandosi cose a vicenda.

Io e John, ci mettiamo di gran fretta all'inseguimento del giovane, domandandoci con uno sguardo interrogativo quale altro incredibile pensiero può aver mai sfiorato quella mente geniale quanto così fuori dalla norma.

Ogni tanto mi guardo indietro per avere la certezza della vicina presenza del medico il quale, in men che non si dica, arriva persino a superarmi del tutto, guadagnando sempre più terreno alle spalle del suo amico. Va così a finire che rimango indietro di parecchi metri rispetto ai due. Ciononostante riesco a non darmi per vinta e, una volta essermi catapultata all'esterno del maniero, mi è piuttosto facile seguire l'andamento degli uomini perché nel frattempo rallentati dai vari ostacoli che si trovano sparsi per il giardino. Ormai mi trovo a tanto così dal raggiungerli, ed è quello che succede in definitiva. Percorriamo quello che sembra lo stretto sentiero di pietra levigata già calpestato durante la nostra ispezione notturna, e, infatti, ho ragione: la meta sembra proprio il retro del convento, più precisamente, la parte più a ovest di quello.

«Potrei sapere il motivo... di questa corsa?», domando senza fiato, una volta giunta davanti alla parete annerita. Ora posso vederla chiaramente per la prima volta, riconoscendo l'esatto punto dove, la notte prima, un uomo e una donna erano appartati in atteggiamenti amorosi senza curarsi del fatto di essere rispettivamente una suora e un apicoltore al servizio di quest'ultima.

«Sì, Annie, Sherlock stava giusto per spiegarlo anche a me, vero, Sherlock?», rimarca John con una punta di stizza nei confronti del detective. A quanto pare, non sono l'unica a disapprovare quei suoi cambi repentini di idee che lo portano ad attivarsi verso decisioni altrettante affrettate e mai rivelate.

In tutta risposta, Sherlock si limita a osservarsi intorno, cancellando me e John dal suo campo visivo, e, quindi, mettendo ancora altri pochi passi fino a quello che doveva essere l'ingresso della piccola stalla di cui ci ha parlato la madre superiora. Davanti a quelle due ante di legno colore noce antico e tenute chiuse tra loro tramite un grosso lucchetto, impedendo, quindi, ogni accesso all'interno, il nostro Sherlock inizia ad armeggiare nervosamente con quelli che sembrano due asticine di ferro ritorte a una estremità – chiaramente dei grimaldelli nel frattempo recuperati da una delle sue tasche – che inserisce nel piccolo foro della serratura. È interessante e quasi ipnotico osservarlo in quell'atto, tanto concentrato, mentre maneggia i due ferri in movimenti alternati, finché un secco clic annuncia l'esito ben riuscito del lucchetto forzato.

Ancora una volta ottengo la conferma della strabiliante versatilità del detective nel riuscire a impersonare le abilità più svariate che un solo essere umano può solo sognare di possedere. 

Quella sua personalità eclettica è la caratteristica che mi lascia più di tutto di stucco.

Fino a ora ho potuto vederlo nei panni di un promettente musicista, di un pignolissimo e brillante chimico, di un eccellente attore, oltre che di un più che competente quanto seducente investigatore privato come mai se ne sono visti in giro. In questo caso invece, eccolo qui a imitare un efficiente scassinatore di porte, a sua volta immedesimato in un giovanissimo ecclesiastico con un costoso Belstaff Milford ad aderirgli perfettamente dalle spalle in poi.

Deve aver sentito molto la mancanza del suo capo d'abbigliamento preferito se ha pensato di indossarlo anche a scapito della sua missione in incognito.

Comunque sia, una volta levato di mezzo l'inconveniente del lucchetto che ha ceduto sotto le esperte dita del ragazzo, quelle stesse prendono a spalancare un po' alla volta e con lentezza i due battenti anneriti solo in parte dall'incendio. Ma prima che possa anche decidere di immergersi nel buio di quel piccolo edificio, è John a richiamarlo a noi.

«Sherlock, se penso quello che pensi tu, credo che dovresti tenere questa». Chiaro riferimento alla sua vecchia pistola da ex veterano di guerra, che lancia all'amico ancor prima di ricevere da quello una risposta affermativa.

Adesso comincia a dipanarsi in me la spiegazione più logica al comportamento adottato da Sherlock: lì dentro c'è qualcuno che aspetta solo di essere trovato. O magari no.

Mi volto per metà, distratta dai numerosi passi che sento avvicinarsi sempre di più, e in un certo senso, mi sento sollevata di trovare tutto il convento che è accorso qui da noi, come a darci un sostegno morale di qualche tipo per ciò che potremmo trovare lì dentro.

Con un gesto scattante, Sherlock mette la carica alla pistola, impugnandola in totale sicurezza con entrambe le mani, poi con uno sguardo affermativo rivolto a me e a John, si intrufola piano all'interno della vecchia stalla.

Il gruppo di sorelle si è radunato tutt'intorno all'area, osservando l'uomo, standosene chiuse in un remissivo silenzio, come se non avendo ancora chiara tutta quanta la situazione, preferissero non disturbare qualunque cosa stiano guardando. Come se al posto di Padre Scott vedessero Sherlock Holmes per quello che realmente è, alle prese con una delle sue missioni altamente pericolose.

Permetto volentieri a John di precedermi, tenendomi, quanto più possibile, alla larga dall'entrata di questo luogo sfortunato, perché intimorita dalla scena che potrebbe rivelarsi ai miei occhi; eppure ancora una volta, mi tocca fare i conti con la curiosità, mia migliore amica.

La penombra che fa da cornice alla stanza dentro cui muovo i miei primi passi, conferisce un non so che di tetro al contesto generale dell'ambiente. Le suole delle scarpe inoltre, creano scricchiolii continui a causa del pavimento ricoperto di foglie secche, rametti e qua e là, di muschio, da cui il forte odore pungente, senza parlare dell'umidità che impregna il tutto e che accentua senza dubbio il mio senso di disagio.

Il solo dettaglio, credo, positivo sta nel fatto di poter constatare quanto la gravità dei danni subiti a causa delle fiamme non sia affatto alta come, invece, mi sarei aspettata. Le varie travi che compongono e sostengono la struttura pare non abbiano risentito di nulla. Tutt'intorno il silenzio regna sovrano, e manca poco che perda me stessa nella contemplazione di questo posto tanto semplice e in apparenza, insignificante.

Raggiungo l'ex medico militare che intanto si è portato più vicino a Sherlock, e insieme osservano seri una porticina posta poco più in fondo sulla parete laterale alla mia sinistra. Ed è nell'immediato momento in cui mi aggiungo ai due, che un odore nauseante comincia a riempirmi le narici, provocandomi, inoltre, un violento conato di vomito. Mi porto istintivamente una mano a coprirmi la bocca notando poi in John la mia stessa reazione. Sherlock al contrario, pare sì disgustato quanto noi, ma se lo è, cerca di contenersi.

Riconosco quel tipo di tanfo, solo che proprio non riesco a immaginare da dove provenga se penso che la stalla sia inutilizzabile da tempo. O forse no.

Sto qui in attesa di una futura mossa da parte di uno dei miei due vicini di casa, e infatti poco dopo, è Sherlock a darsi da fare, portando le sue dita a tastare la superficie di quella porta mentre fa luce con lo schermo del suo cellulare. Pare a tutti gli effetti un passaggio nella parete, pur non essendo molto più alto della sottoscritta.

Con sorpresa di noi tre presenti e anche con un sobbalzo generale, scopriamo subito che l'asse di legno che avrebbe dovuto fungere da porta risulta essere completamente scardinata e perciò finisce per cadere con un tonfo, dritto ai nostri piedi dopo essere stata accompagnata a terra dalla presa salda del detective. Non era altro che una tavola di legno poggiata al muro così da coprire semplicemente il vuoto del passaggio.

«John», sussurra a un tratto Sherlock con occhi puntati in quell'ingresso dal fondo nero. «Quando te lo dico, devi correre nel convento», prosegue.

«Cosa? Come mai?»

«Cammei vaticani!!!».

Quel suo grido d'ordine prorompe come un tuono per tutta la stalla e succede tutto così velocemente. John si da all'immediata fuga dopo aver inteso alla perfezione la frase segreta usata dal suo amico detective come ogni qualvolta in cui c'è di mezzo una situazione di pericolo; un codice di guerra a cui John Watson, da bravo soldato, risponde senza farselo ripetere due volte, uscendo scattante dall'edificio per raggiungere l'interno del convento.

Ciò che avviene subito dopo non mi permette di assimilarlo appieno, in quanto mi vedo, tutt'ad un tratto, risucchiata nell'oscurità del varco creato nella parete, con mani che mi spingono ripetutamente ad avanzare lungo un'unica direzione senza riuscire tuttavia a capire di preciso verso quale punto. Poi, la voce dell'uomo, lo stesso al quale appartengono quelle stesse mani che premono insistenti sulla mia schiena, riserba anche a me il tono autoritario adottato contro il suo coinquilino.

«Corri, Annie! Corri! Non c'è un minuto da perdere!».

«Sherlock, dov'è che devo andare?», domando confusa, ma spronando i miei piedi a reagire sotto a quel suo volere.

«Qui dentro è tutto troppo basso per me, non riesco a muovermi facilmente, tu sarai più svelta. Dobbiamo prenderlo!».

«Ma chi?»

«Il diavolo!». A quella parola, non ci penso più su che già mi trovo a percorrere in fretta lo stretto corridoio tastando intanto con le braccia l'aria davanti a me come un cieco che non vede dove va.

In lontananza però, posso udire quel qualcuno muoversi velocemente facendomi indubbiamente accapponare la pelle ad ogni passo che metto, perché consapevole di poter essere sempre più vicina a raggiungerlo. Intanto, alle mie spalle, Sherlock mi segue facendo luce col suo telefono, ma arrancando goffamente, impedito com'è dal soffitto basso che perciò lo costringe a procedere a gambe piegate. Al contrario, la mia testa sfiora appena la parete che la sovrasta. E questo è quello che si dice uno di quei rari momenti in cui poter benedire la mia altezza ridotta, pur continuando a rimanere nella piena convinzione di non essere io quella sbagliata, giusto perché mi piace pensare siano quelli come Sherlock a essere troppo innaturalmente alti.

Mi permetto di volgere, un'unica volta soltanto, una fugace occhiata verso il giovane, il quale si appresta a dirmi a mo' di rassicurazione: «Forza, Annie! Non badare a me, io ti sono dietro!» invitandomi dunque a riprendere il timone della situazione per ben concentrarmi su quello che è il mio vero obiettivo e che continua a muoversi da qualche parte nel buio davanti a me. A nulla serve, infatti, il debole alone luminoso proveniente dalla mano del consulente.

I secondi scorrono accompagnandomi in questo lungo percorso, finché con uno dei miei ricorrenti passi falsi, manca poco che perda il controllo sulle mie gambe, capitombolando in avanti. Con l'aiuto di una dea bendata più che misericordiosa nei confronti di un disastro come me fatto a persona, scampo a questa mia piccola svista che viene poi allo stesso tempo eclissata del tutto, grazie al senso di sollievo che mi riempie tutta non appena una piccola macchia bianca si va via via allargando davanti alla mia visuale, facendo finalmente mia la consapevolezza di essere vicina più che mai alla fine di questo tunnel claustrofobico.

È così, che con Sherlock alle calcagna, riemergo dall'oscurità, oltrepassando un'altra sorta di passaggio segreto, lieta del cambio d'aria e soprattutto, della piena luce naturale che investe ora i miei occhi. Una diversa emozione, mi viene immediatamente incontro, ed è la sorpresa allorché mi rendo conto di trovarmi esattamente nella cucina del convento.

Adesso mi è tutto fin troppo chiaro. La soluzione del mistero si dipana nella mia mente come una matassa dapprima ingarbugliata e confusa, ora districata e che fa apparire il tutto più nitido e convincente.

Ma non è questo il momento per mettersi a pensare ed è ciò a cui bada subito Sherlock, scuotendomi con un: «Annie! Non fermarti!» che mi fa scattare in avanti verso la soglia della cucina. Non sto ad aspettare neppure la sua imminente uscita dal passaggio che già mi trovo fuori nel corridoio, pronta a riprendere – da dove si era interrotto – il mio folle inseguimento. Stavolta, il suono dei passi che nel basso cunicolo posso aver solo percepito per mezzo delle mie orecchie, con tutto quel nero a farmi da sfondo che non permetteva di mettere in chiaro anche l'individuo al quale quelli appartenevano, tutt'a un tratto li scorgo mentre, poco lontano da me, sostengono la corsa affannata di un tutto fuorché terrificante signore degli inferi.

La voce baritonale di Sherlock irrompe poi, dietro di me, a invocare per mezzo di un potente urlo di chiamata, il nome di John Watson il quale a comando, fa capolino dall'estremità opposta del corridoio, arrivando in nostro aiuto e cimentandosi anch'egli nella cattura del fuggiasco. Tuttavia, pur correndo adesso tutti e tre vicini e scattanti, quello continua a precederci di buona lega non mostrando nessunissima intenzione di volersi fermare.

Poi, all'improvviso, qualcosa che non mi aspetto: un frastuono che mi esplode dentro i timpani. Un colpo di pistola fatto esplodere al di sopra delle nostre teste a semplice scopo intimidatorio e seguito a ruota da un imperioso «Fermo o sparo!», che riesce come per magia, ad ottenere un'efficacia immediata nel far rallentare la nostra preda fino a farla bloccare del tutto.

«Metti le mani in alto e voltati lentamente!», prosegue Sherlock Holmes nei panni di un impeccabile agente di polizia con tanto di braccia stese ben dritte davanti a sé, a puntare la sua arma contro l'uomo che ancora ci dà le spalle.

Ci arrestiamo di colpo, avendo una volta per tutte raggiunto quello che è sempre stato un uomo in carne ed ossa, ma additato da fin troppi – compresa me – un essere dalla capacità innaturale di dileguarsi con un tic istantaneo.

«Voltati», si ripete Sherlock tenendo gli occhi fissi su quello. Poi, con il conseguente gesto lento e arrendevole del nostro uomo ormai messo alle strette, e col quale si appresta a mostrarsi per la prima volta a noi, non posso fare a meno di inorridire di fronte a tale spettacolo.

***

«Ma non possiamo tenerlo qui! È pur sempre un luogo sacro!», esclama la madre superiora in tono talmente agitato, che pare qualcuno sull'orlo di una crisi di nervi. Intanto, dietro di lei, tutte le altre religiose osservano la scena mostrando facce dalle espressioni che variano dalla sorpresa alla curiosità, oltre che qualcuna di loro che decide di starsene più in fondo rispetto al gruppetto, perché totalmente impaurita e allibita dal nuovo intruso. Quello – imbrattato dalla testa ai piedi di sporcizia e sudiciume – rimane in piedi e trattenuto dalla solida stretta di John Watson dopo essersi visto immobilizzare le mani dietro la schiena per mezzo di un paio di manette – a parere di Sherlock – "prese in prestito" dalla scrivania dell'ispettore Lestrade.

Dal canto mio, invece, me ne resto sotto la sicura ala protettrice di quello stesso sociopatico di detective, cercando in tutti i modi di non fissare per più di due secondi il viso per metà sfigurato da quello che sembra essere stata una ferita inferta con una dinamica parecchio violenta. Piuttosto, preferisco spostare lo sguardo a ben altro panorama comprendente un soffitto alto e decorato, oppure concentrarmi sul piccolo altarino che domina il fondo di questa piccola e semplice cappella. Esatto, cappella. E' qui dentro il posto scelto da Sherlock al fine di interrogare il malcapitato catturato, perché considerato come il più sicuro, nello sfortunato caso in cui, quello stesso voglia decidere di scappare dalle nostre grinfie e "smaterializzarsi" ancora una volta senza darci occasione di riacciuffarlo. Utile pure, come gabbia dentro la quale rinchiuderlo mentre aspettiamo l'arrivo della polizia. Non serve spiegare perciò il motivo di tanto malcontento venutosi a creare tra la congrega cattolica, e in particolare, nella nostra cliente, la reverenda madre.

Ma ancora una volta, come in tutte le occasioni in cui c'è di mezzo un consulente investigativo chiamato Sherlock Holmes, a nessuno è permesso di porre obiezioni.

«Dunque!», comincia così, Sherlock, volendo dare inizio, suppongo, alla dovuta spiegazione del caso. «Posso presentarvi il "diavolo"».

A quella dichiarazione, un sommesso «Oh» di stupore da parte delle donne presenti – eccetto me – si propaga a effetto domino per tutto l'ambiente.

Volgo riluttante, l'attenzione all'uomo sui quarant'anni il quale nonostante la situazione a suo svantaggio, se ne sta lì, silenzioso e imperturbabile, con quell'espressione quasi fiera, come se fosse addirittura contento di trovarsi sotto i riflettori.

Ciò nonostante, quel suo portamento dignitoso non potrà cambiare la bruttezza di un volto come il suo, oramai segnato per sempre. Un occhio soltanto, per la precisione quello destro, si muove da una parte all'altra per scrutare ogni suo singolo spettatore, e quando tocca anche a me subire quella sua fredda occhiata, non posso fare a meno di scostare volutamente lo sguardo altrove. Oltre a quello, direi, ciò che rende da vero impatto il viso dell'uomo, è una grossa cicatrice che scende in verticale a solcargli la parte sinistra, partendo dal secondo occhio nient'altro più che una cavità vuota e nera, fin giù, appena sotto la guancia.

Al mio fianco, Sherlock sposta il peso del suo corpo da una gamba all'altra per poi riprendere a parlare, «Signore, non avete più nulla da temere, perché il presunto artefice di tutte quelle inspiegabili apparizioni oltre che dell'aver appiccato l'incendio, è finalmente qui, davanti a noi».

«Che Dio sia lodato, allora!», prorompe la badessa, facendo un passo avanti rispetto alle sue consorelle. «Di grazia, dov'era nascosto in tutto questo tempo?»

«Una cosa alla volta, prego. Prima sarà meglio rivelare qualcos'altro che lei sa già».

Detto ciò, il ragazzo pensa in fretta a levarsi di dosso con entrambe le mani, contemporaneamente il collarino bianco e gli occhiali, facendo cadere ormai quella che era la sua maschera clericale.

Osservo poi le donne le quali scambiano, le une con le altre, sguardi sempre più smarriti. Subito, però, torno a rivolgermi a Sherlock.

«Col suo permesso reverenda, vorrei presentarmi alle sue consorelle. Io sono Sherlock Holmes, consulente investigativo, e quest'uomo è il mio assistente», spiega, puntando le dita flessuose verso l'ex soldato.

«John Watson, salve». Si appresta a presentarsi quello, senza allentare neppure di poco, la presa sul braccio del suo prigioniero.

Non mi rendo conto di quanto adesso, tutti gli occhi siano invece puntati su di me, come un pubblico pretenzioso nella fremente attesa di ascoltare anche la mia parte. Per questo mi appresto a esprimermi in un più che imbarazzato «Io sono Annie, la loro vicina di casa, salve di nuovo», abbassando poi lo sguardo al pavimento.

«Ma allora, siete sul serio degli investigatori!». A un tratto la voce un po' stridula di una di quelle donne ci sorprende, che scopro immediatamente appartenere a sorella Matilde. Dietro il suo sguardo eccitato per via delle tre nostre rivelazioni, posso tuttavia, leggere un velato senso di delusione. Così, non posso fare altro se non sorridere alla ragazza, mostrandole un cenno di scuse col capo. Imbarazzata, ritorno a fissare le mie scarpe e a udire quello che comincia subito dopo a dire la badessa.

«Molto bene. Mie care sorelle, mi ha doluto avervi tenuto all'oscuro di tutta quanta la faccenda, ma con l'appoggio del signor Sherlock Holmes ho ritenuto opportuno mettere su questa messinscena e permettere in questo modo il procedere dell'indagine. Perdonatemi, ma è stato necessario e a quanto pare ci è risultato utile!

Come ci è arrivato, signor Holmes?»

«Oh, bè, escludendo, ovviamente, la storiella della creatura demoniaca con poteri sovrannaturali! Naturalmente non ci ho mai creduto, solo un'idiota ci sarebbe cascato».

«Sherlock...» Lo riprende John pronunciando il suo nome a denti stretti. A me invece, viene spontaneo ridacchiarci su.

Subito però, l'altro riprende senza affatto curarsene.

«Partiamo con ordine. Uno dei primi indizi utili a far sì che un'iniziale dinamica si delineasse nella mia mente, è stato un semplice accendino a gas, rinvenuto nel luogo toccato dall'incendio. Mi è bastato solo quello per capire, innanzitutto, la causa di quest'ultimo e di conseguenza, la probabile identità del colpevole». Il detective si concede qualche secondo di pausa per un'attenta osservazione, diretta all'uomo da un occhio solo. Lo guarda con occhi ridotti a due fessure nell'atto concentrato di fare congetture solo a lui conosciute. Dunque, rotto quel contatto visivo, lo vedo pronto a riagganciarsi al filo del suo discorso. «Ma questa è un'altra faccenda e non ha motivo di essere spiegata adesso. Tornando a noi e agli strambi eventi che si sono susseguiti come conseguenza all'incendio della vecchia stalla, vorrei che porgeste la vostra attenzione su quanto rubato dalle cucine in più di un'occasione, e in particolare la scorsa notte, con la scomparsa di altri panini dolci in aggiunta a una bottiglia di liquore fatto in casa. Ebbene, pur già consapevole di trovarmi davanti un essere umano in carne e ossa a celarsi dietro queste azioni truffaldine, ammetto anche di essere incappato in un, seppur piccolo, dubbio, riguardo all'implicazione nei furti, di una delle stesse residenti del convento, questo dopo aver seguito da vicino la vicenda di una di voi che si aggirava per il corridoio buio in preda a un episodio di sonnambulismo. Vi sprono a tenere bene a mente la parola buio.

A tutti gli effetti il sonnambulismo è un semplice disturbo del sonno che se c'è, può, e anzi, deve manifestarsi molto più frequentemente di quanto si pensi; raramente si impone come un episodio a sé stante, specie se chi ne viene colpito subisce un forte trauma o stress. È questo che mi ha portato a sviare il mio modo di pensare, associando perciò la donna a tutti quei piccoli e all'apparenza insignificanti furti perpetrati puntualmente al chiaro di luna. 

Ora, ripescate la parola buio e riflettete su questa, per un attimo. È esattamente in quella circostanza, nella più totale oscurità, che la vostra consorella sonnambula fu ritrovata urlante la notte in cui ammise di essere entrata in contatto con il terrificante mostro. Così, ho dedotto avesse semplicemente inventato tutto, perché sotto effetto del sonnambulismo, e che una volta resasi conto di trovarsi in cucina non sapendo neppure come esserci arrivata, avesse avuto timore che qualcuna delle altre scoprisse il suo piccolo segreto. Altra ipotesi vede la stessa donna ancora sotto effetto del sonno e che, suggestionata dall'evento sfortunato abbattutosi sull'ala ovest solo pochi giorni prima, immagina di vedere qualcuno o qualcosa di spettrale, quando in realtà può non aver visto proprio un bel niente.

E ora, arriviamo a stamani. La mia cliente, la madre superiora, annuncia che i furti in cucina non sono terminati, nonostante la sua consorella sonnambula fosse rimasta per tutto il resto della nottata nel suo letto e sorvegliata perennemente per sua stessa mano. Capirete, dunque, come io sia stato indotto a fare un passo indietro e a riconsiderare l'ipotesi – decisamente più plausibile – che qualcuno, stavolta estraneo al convento, si fosse introdotto nel maniero nascondendosi al suo stesso interno. Avevo già additato – sebbene erroneamente – come possibile sospettato, il vostro apicoltore, Benjamin, avendo constatato in seguito che la sua unica pecca fosse quella...»

«Sherlock!». A questo punto non sono in grado di trattenere la mia lingua, intuendo la brutta piega che il suo discorso è più che in procinto di prendere.

«Sherlock... ehm... avevamo già messo in chiaro l'innocenza del signor Benjamin, ricordi?». Rivolgo quindi, al giovane un'occhiata più che eloquente che spero riesca a comprendere appieno.

«Hmm? Certo, Annie, infatti se tu non mi avessi interrotto, avrei spiegato per bene tutte quante le incredibili scoperte. Ci stavo arrivando. Cominciamo dal ritrovamento di un profilat...»

«Sherlock!»

«Che c'è?», mi chiede lui chiaramente disorientato. Ma dico, proprio non ci arriva?

«Perché non vai subito al dunque? L'indizio più importante che ci ha fatto arrivare qui dove siamo adesso... L'accendino... e le lettere incise sopra, C. K. . Forza!».

Lo incito con tono che non ammette proteste. Intanto, volgo lo sguardo fra il gruppetto di suore riuscendo a trovarci il paio di occhi che speravo di incrociare, occhi che mi guardano a loro volta con un'inaspettata gratitudine intrinseca, unita a un sorriso appena accennato ma gentile. Un tipo di riconoscimento che di certo non mi sarei aspettata di ottenere dalla suora dai modi inizialmente duri e scostanti e che amoreggiava, senza un minimo di rispetto nei riguardi della sua veste, con il bell'apicoltore. Ma a parte questo, chi sono io, chi è Sherlock o chiunque altro per giudicare una debolezza altrui? Debolezza che so, messa all'attenzione di Sherlock, si sarebbe trasformata in un vero e proprio cataclisma.

Al mio fianco il detective continua a fissarmi con sconcerto, colpito da un altro di quei suoi attacchi di mummificazione istantanea.

«Sherlock...», lo richiamo a me, ma senza molto successo. Solo dopo averlo strattonato un po' per un braccio pare ridestarsi.

«Eh?»

«L'accendino. Coraggio. Spiega a noi tutti, il ruolo rivestito dalle due iniziali incise sull'accendino».

«In verità vorrei tenerlo per la fine, un po' come un effetto sorpresa, no?».

Lo guardo ora ed è come non riconoscerlo, a causa dei suoi modi fattisi un tantino agitati che trapelano dal suo corpo, a iniziare dalle palpebre che continua a tenere fisse su di me e da una sorta di tic nervoso che ha colpito la sua mano destra, tenuta stesa lungo il fianco e che non fa altro che picchiettare con l'indice magro sul tessuto del cappotto. Sembra così insicuro, come se non avesse il pieno controllo di tutta quanta la situazione. O forse sto solo giocando troppo con la fantasia, del resto è o non è Sherlock Holmes?

«Allora, signor Holmes?» Lo esorta la cliente con fare pretenzioso. «Che cos'hanno di importante quelle due lettere?»

«Sì», inizia Sherlock schiarendosi la voce con un finto colpetto di tosse e poi sorridendo meccanicamente alla donna. «Ho supposto debbano trattarsi di due iniziali, rispettivamente di un nome e di un cognome».

«E ha già la soluzione tra le mani?», insiste la religiosa.

Lascio quella per tornare ad alzare gli occhi sull'uomo.

«Ma certo. Innanzitutto ci è ormai chiaro che l'uomo qui presente abbia appiccato l'incendio per mezzo di quell'accendino, il suo accendino, e che quelle iniziali debbano appartenergli in qualche modo, ma il modello è un vero pezzo d'antiquariato motivo per cui pensiamo possano anche riferirsi a un membro della sua famiglia».

«Quindi, mi sta dicendo che non conosce ancora la sua identità?».

In quel momento un ghigno divertito fuoriesce dalla bocca del nostro prigioniero. Sembra proprio spassarsela mentre schernisce il mio pazzo vicino di casa.

Intanto Sherlock riprende: «Bè... non ne sono sicuro, insomma, solo congetture al momento... io...».

Ancora, non sono capace di restarmene zitta, avendo, una volta per tutte intuito cosa realmente sta succedendo alla mente geniale del consulente. È praticamente in tilt, e finalmente mi rendo conto del perché. In fondo è ciò di cui volevo parlargli una volta abbandonata la sua camera da letto e sceso di furia le scale col giornale sottobraccio.

«Il signor Holmes cerca di dire che c'è una grossa possibilità possa trattarsi di Harvie Caspar Keller, un noto criminale scappato alle forze dell'ordine circa una settimana fa. Sherlock ne aveva sentito parlare in televisione qualche giorno prima che lei venisse a Londra a consultarlo, ma avrebbe voluto avere ulteriori prove a riguardo, perciò intendeva aspettare l'arrivo della polizia. Tutto qui». Sorrido alla badessa e a tutte le altre suore, ma ancor più nei riguardi di Sherlock il quale mi fissa ora con labbra semiaperte e un'espressione di pura sorpresa stampatagli in viso.

«Aspettate! Sì, ora lo riconosco anch'io! Ho letto di lui sul giornale di ieri, c'era anche una foto che lo ritraeva... Ma, ora che ci penso, anche il giornale è sparito dalla mia scrivania».

Trattengo un sorrisino come pure un finto rimprovero nei confronti di Sherlock, vero responsabile di quel piccolo furto, nonostante io sia ben consapevole che senza quel quotidiano rubato e trovato sul suo letto, ora non potrei essere qui accanto a lui a salvarlo da una situazione di così grande impaccio. Mi è più che evidente, ormai, come non si sia mai scomodato a dare una sbirciatina a quelle pagine che credeva, come sempre, essere intrise soltanto di noiosi gossip e politica.

Adesso che il controllo si è impossessato di me, decido di rivolgere l'attenzione al criminale, la cui fotografia non riuscirebbe mai fino in fondo a eguagliare la bruttezza del volto sfigurato se comparato con quanto mi appare adesso dal vivo. Prendo in mano il coraggio senza curarmi di pensare a tutti i presenti concentrati su di me.

«Visto il momento, perché non chiedere conferma direttamente a lui? Lo ammetta... È questo il suo nome?»

«Ah! Cambierà qualcosa se vi dico di sì? Me ne staro al fresco per un bel po' comunque».

La voce dell'uomo si rivela per la prima volta a noi, un inglese perfetto, nonostante quell'articolo parlasse di origini tedesche.

«Perciò quel C. K. sta per... Caspar Keller?», s'intromette ora John guardando il suo prigioniero con una nota di avversione nello sguardo.

«Mio nonno, e sì, quell'accendino apparteneva proprio a lui», conferma, piuttosto affabile e tranquillo per un pluriomicida come lui. «E prima di finire in gattabuia preferirei riaverla».

«Ottimo!», esclama Sherlock d'improvviso, con un battito soddisfatto di mani. Pare si sia rimpossessato di una certa sicurezza, quella che tanto lo contraddistingue. «Prima di quello però, vorrei terminare la mia spiegazione riguardante la sua entrata in scena piuttosto ben riuscita nel convento. Mi corregga se sbaglio. Dunque, lei è un galeotto riuscito come ben pochi abbiano mai fatto, ad eludere i ferrei controlli in atto in una grande ed efficiente metropoli quale Londra. Ma il fatto che ci sia riuscito mi costringe a porgerle le mie più sincere congratulazioni, devo ammetterlo. Poi, Iver Heath. Tralasciando tutti i preamboli sul come ci è arrivato, partiamo dalla notte in cui tutto ha avuto inizio. Ovviamente, scalare il cancello che c'è all'ingresso credo si stato un gioco da ragazzi, ma penso che l'unica cosa di cui, certamente, non poteva sapere è che dovesse imbattersi in un cane. Dico bene?»

«Già! Un vero bestione», asserisce subito Keller, gonfiando più del dovuto l'enfasi alla parola "bestione". Mi chiedo cosa avrebbe detto il dolce Eden a tale appellativo.

«Perfetto! Mi permetta di continuare. Come già spiegato dalla mia cliente, la notte dell'incendio lei ha affermato di aver udito l'abbaiare del cane solo un momento prima che scorgesse le prime fiamme nascere dal rogo, ma di aver poco dopo constatato l'assenza di alcun intruso per il giardino. Ebbene, io stesso, come anche i miei due compagni, abbiamo potuto analizzare da vicino il classico comportamento dell'animale, il quale per l'appunto, ci ha abbaiati contro una volta soltanto durante il nostro primo incontro, diventando solo un momento dopo, affabile e molto affettuoso.

Se quella notte, il cane avesse percepito appieno la sua presenza intrusa nel giardino, dubito che la reverenda madre non si sarebbe accorta di nulla. Come minino, il cane da guardia avrebbe seguito le sue tracce fino a rincorrerla del tutto, invece...». A questo punto del racconto, Sherlock si concede una pausa voltando il capo verso il carcerato. Gli si rivolge quindi, con: «Chi ha visto nell'esatto momento in cui il cane ha abbaiato, sicuramente avendo captato la sua presenza?».

L'uomo allora corruga fortemente la fronte in un evidente tentativo di riportare alla mente quel particolare ricordo.

«Ora che vi vedo tutte vestite in quel modo...», inizia lanciando un cenno con la testa dai capelli diradati e tagliati corti, «... Ne ho visto una come voi quella notte. Sì! Una suora che passava di lì, credo rientrasse nel convento, però ora che mi ci fai pensare, detective, non dall'ingresso principale. Era scomparsa dietro...»

«Da una finestra sul retro. Esattamente. La donna in questione non avrebbe potuto entrare o uscire dal portone principale, non avrebbe potuto farlo senza chiavi se queste, nelle mani della badessa. Una finestra al piano terra era più che sufficiente».

A quella rivelazione, un medesimo parlottio riempie la cappella. Tutte quante le suore si stanno chiedendo chi, delle suddette, eccetto ovviamente una, può aver mai osato infrangere il coprifuoco del convento, per lo più esattamente quella ormai famosa notte.

Fortunatamente è Sherlock a interrompere quel fastidioso brusio, portando avanti, senza curarsene troppo, la risoluzione del caso. «Una volta che si è reso conto che quella sorta di contrattempo avrebbe potuto essergli utile, se l'è svignata raggirando l'area, lontano quindi dall'attenzione diretta del cane, il quale, abbiamo appurato essere tornato nella sua cuccia resosi ormai conto che quei rumori di passi uditi non erano altro che appartenenti a qualcuno di sua conoscenza. E ora, ecco che ci giunge il momento dell'incendio. Non avendo altra scelta se non quella di cercare di trovare un modo veloce e soprattutto, silenzioso, ha pensato solo a una soluzione: il suo accendino che lancia contro la parete della vecchia stalla, quella per sua incredibile coincidenza, fatta interamente di legno al contrario della solida pietra che costituisce tutto il resto del maniero. Tutto quello che mi resta da dire non può che essere lasciato all'immaginazione perché fin troppo semplice da intuire».

«Il... il detenuto si nasconde da qualche parte nei dintorni fin quando l'incendio non attira al di fuori del convento le sue abitanti, le quali accorrono, indubbiamente senza badare di chiudersi la porta d'ingresso dietro di loro, così da permettere all'intruso di sgattaiolare dentro senza essere visto. Semplice». È John a portare avanti il seguito. «Proprio così. Un trucchetto scontato», concorda dopo, Sherlock.

«Sarà pure banale ma ve l'ho fatta sotto il naso per tutti questi giorni!», strilla l'uomo in manette cercando di riscattare il suo operato.

«Si calmi, non ho ancora finito». Lo ammonisce però il detective tornando a osservare dritto davanti a se, verso le religiose. «Nessuna di voi si chiede dove abbia pernottato esattamente questo criminale?»

«Certo che ce lo chiediamo!» Ribadisce invece la ormai familiare voce autoritaria della donna più anziana di tutta la congrega.

«È sempre stato sotto il nostro naso, in realtà. Vedete, l'ala ovest era, il cardine intorno al quale continuava a girare l'intera nostra indagine e non solo a causa dell'incendio. Doveva ovviamente esserci un modo per far sì che l'uomo potesse entrare e uscire liberamente dal convento, ma avrebbe dovuto cercare un posto tranquillo e sicuro dove potersi nascondere senza alcun intralcio. Le stanze del convento, per la maggior parte già occupate da voi consorelle non gli avrebbero garantito nulla, io stesso ho potuto constatare l'inesistenza di luoghi nascosti, pratici per permettere a un fuggitivo di dileguarsi all'interno senza rischi di essere scoperto.

Gli unici due posti ammissibili a questa possibilità rimanevano questa cappella e, naturalmente, la vecchia stalla tuttavia ben chiusa da un pesante lucchetto, quest'ultimo mai stato neanche sfiorato dalle mani dell'uomo.

Ho escluso fin da subito l'idea di questa piccola cappella, d'altronde, dove mai avrebbe potuto nascondersi considerando l'assenza di nascondigli pratici? ... Senza contare il fattore più importante e cioè, il rischio che con l'essere frequentata abitualmente, qualcuna di voi avrebbe potuto scoprirlo. Una volta esclusa questa, non rimaneva che la stalla, unica struttura non ancora visitata. Ci troverete tutto quello che rimane dei suoi furti tra i quali, mi rincresce dirlo, una quantità considerevole di altre... tracce. >>

Mi permetto ancora una volta di posare lo sguardo su Caspar Keller, che a quell'ultima constatazione del consulente, si permette di sogghignare malefico. Ora è certamente chiaro il significato di quell'odore nauseante che ho avvertito tanto forte nei pressi di quello che era il suo giaciglio.

«Ma come ci è arrivato lì dentro? Era chiusa dall'esterno, allora come... ?»

«Un portale; un angusto ma pratico passaggio di collegamento tra la stalla e il convento. Credo che sia stato una vera e propria manna dal cielo scoprirlo, per lei, Keller. Mi meraviglia soltanto che voi abitanti non ne abbiate mai conosciuto l'esistenza».

Mi volto in direzione della badessa la quale scambia un muto cenno di conferma con tutte le altre donne intorno a lei. Tuttavia, nessuna di loro sembra avere una risposta valida.

«Troverete il suddetto passaggio nella vostra cucina, è lì che si trova, coperto da un pannello in legno, quello racchiuso a sua volta nel piccolo armadio a muro che tenete inutilizzato. È grazie a quello se la notte del suo primo avvistamento ad opera di sorella Cindy, è stato capace di smaterializzarsi nel nulla senza essere scoperto. Il buio gli ha agevolato il compito».

«Un momento, Signor Holmes! ... Se si riferisce a quel pannello, bè, tutte ne eravamo al corrente, ma nessuno ci aveva mai spiegato a cosa servisse. Fin dal nostro arrivo in questa struttura quel pannello è sempre stato tenuto sigillato...»

«Ora non più», asserisce Sherlock sorridendo sornione, chiaro riferimento al tentativo ben riuscito di Keller dell'aver riaperto il passaggio senza lasciare tracce visibili.

Un silenzio cala, adesso che finalmente tutta quanta la verità è venuta a galla, interrotto però, in un certo istante dai suoni insistenti e sempre più crescenti di una sirena che ci giungono alle orecchie. Lo stesso Keller non pare più tanto sicuro di riavere a che fare con le forze dell'ordine.

«E ora, qualcuna di voi sarebbe così gentile da correre incontro agli agenti di polizia? Sono sicuro che il signor Keller sarà ben lieto di riaverci a che fare», riprende quasi subito Sherlock Holmes, stavolta con tono basso.

«Molto bene. Sorella Matilde, cara, potresti condurre qui i signori?»

«Corro». Ubbidisce la ragazza dal velo bianco che le fluttua dietro mentre apre la piccola porta di questo piccolo edificio, lasciando il resto di noi presenti ad attendere il su ritorno. 

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