Capitolo 11: MISTERI NOTTURNI
- Annie Pov
- Mezzanotte e un quarto
Riprendo i dovuti contatti con la realtà non appena mi arrivano alle orecchie delle voci concitate ma sommesse, che meglio aiutano la mia coscienza a strapparmi dalle insistenti braccia del sonno, o da un momento di semplice incoscienza come stato successivo a uno svenimento. Questo mi è del tutto ancora da chiarire per via dell'iniziale senso di smarrimento che di norma segue un risveglio, ma ancor più che mi è preso una volta resami conto di trovarmi su di un letto senza ricordare come esserci finita.
Piuttosto riluttante, cerco di emergere in definitiva da questo dolce torpore che ancora mi obbliga a tenere gli occhi chiusi, nel contempo, restandomene volutamente immobile nell'ascolto di quelle voci a me fin troppo familiari.
«Sul serio non vuoi dirmi com'è andata, eh?». Sussurra una delle due.
«Mio Dio! Tanto finirà che non ci crederai comunque!», sbraita l'altra voce con un tono decisamente più alto, e perciò incurante della situazione.
Mi riferisco alla mia, dove fingendo di dormire ancora, mi sto in realtà scervellando per ricordare seppur solo piccoli sprazzi che mi aiutino a chiarire ciò che è accaduto in precedenza.
Se cammino a ritroso con la memoria posso vedermi seduta a una sedia con Sherlock al mio fianco impegnati nel nostro dibattito sul "Tu credi in Dio?".
Bene, ma poi?
Ho perso i sensi?
Caduta in un sonno profondo? Non sulla sedia, spero.
«E va bene. Annie mi racconterà tutto quando si sveglierà». Sento dire a John dopo essersi seduto; lo intuisco dal rumore di una sedia che viene spostata appena.
«Se ci tieni», afferma subito dopo uno Sherlock Holmes del tutto impassibile.
Il tepore che nel frattempo mi avvolge non riesce a spronarmi a uscire allo scoperto per poter così annunciare ai due uomini il mio risveglio. Come dettaglio aggiuntivo, un aroma fortemente speziato e dolce allo stesso tempo, continua a riempire le mie narici fin dal momento in cui ho ripreso conoscenza.
Sembra a tutti gli effetti un profumo da...
Non mi fermo neanche più a pensare che con uno scatto inatteso mi alzo su a sedere facendomi così piombare addosso due occhiate attonite da parte di Sherlock Holmes e John Watson.
Come strappata dall'effetto di un potente incantesimo narcotizzante, un flash mi riporta con la mente agli ultimi attimi di lucidità passati insieme a Sherlock, rammentando, in questo modo, di essermi esposta forse un po' troppo incautamente ai sentimenti, coinvolgendo lo stesso ragazzo.
La fragranza del suo profumo e in generale quella sensazione di pulito che emanava dalla sua camicia nera contro la quale ci avevo appiccicato il naso, mi induce a ricordare tutto quanto, soprattutto perché quella è la stessa profumazione che avverto anche adesso. Ovviamente non proprio nella maniera più allegra e tranquilla per via dell'odioso senso di colpa derivante dalla vergogna che ora provo nel rivedermi accollata al corpo di Sherlock.
Ma dico, che mi è saltato in mente? Addormentarmi perfino!
Incurante delle due facce che continuano a guardarmi e del: «Ah, rieccoti tra noi!» pronunciato da John, faccio scivolare i miei occhi un po' più giù, sul lungo cappotto scuro sotto cui sono stata tenuta al caldo e al sicuro dalla misteriosa presenza che ancora perseguita il convento. Osservandolo dunque, disteso sulle mie gambe, mi sembra quasi di riuscire a immaginare la sensazione che avrei potuto provare nel sentire il tocco di due mani calde sfiorarmi il corpo e coprirmi premurosamente con quella che poteva passare dapprima per una semplice coperta, ma che constato adesso si tratti niente meno di un costoso Belfast Milford.
«Annie, è tutto okay?». Domanda poi John.
«Sì! Tutto okay». Mi appresto a rispondere stropicciandomi gli occhi. Poi salto giù dal letto, decisamente imbarazzata. Mi rendo conto di indossare ancora trench e scarpe, particolari che mi fanno sospirare di sollievo perché capisco di non aver scomodato oltre il detective o un qualsiasi altro chicchessia, nel mettermi a letto.
Sorrido ai due uomini spostando di poco lo sguardo su Sherlock il quale, con mia meraviglia, si ritrova incapace di mantenere il contatto, sfuggendo perciò ai miei occhi e preferendo invece voltarsi verso il suo tavolo da lavoro.
Solo John pare non curarsi di quel gesto, senza ombra di dubbio perché fin troppo abituato alle stranezze del consulente. Approfitto così di quel momento di assenza visiva del detective per prendermi la libertà di stiracchiarmi le braccia, che allungo sopra la testa.
Dopodiché, mi guardo un po' intorno alla ricerca dei miei occhiali che trovo subito sul comodino alle mie spalle. Altro particolare che mi fa pensare alle mani delicate di Sherlock che mi sfilano le lenti dal viso. Un sorrisino mi increspa le labbra e non lo abbandono neppure nel momento in cui mi rivolgo a John: «Quanto ho dormito?»
«Oh, non ne sono sicuro, ma da quanto dice Sherlock, più o meno un paio d'ore. Io vi ho raggiunti circa dieci minuti fa», mi risponde il medico con suo solito buon umore.
Finalmente ho ottenuto la giusta conferma al mio quesito: Sherlock è stato il solo ed unico a depormi sul suo letto, oltre che a farmi da veglia tutto il tempo.
«Così poco! Eppure mi sento talmente riposata. Dovevo essere parecchio stanca», gli dico ridacchiandoci su al fine di celare il mio nervosismo.
«Non dirlo a me. Sono piombato come un sasso non appena la mia testa ha toccato il cuscino». Racconta l'uomo sogghignando divertito. «Ero nella stanza attigua». Spiega, dunque.
«Oh, no, a me è toccato rigirarmi in continuazione fra le coperte, motivo per cui ho deciso di raggiungere il vostro piano prima dell'ora stabilita». Termino, notando d'improvviso in John un repentino cambiamento nella sua espressione facciale. Sembra quasi scettico, a giudicare dagli occhi sempre più ridotti a due fessure, dalla fronte aggrottata e dalle labbra sottili chiuse e distese in un sorriso tipicamente di chi crede di saperla lunga.
Spero vivamente non stia macchinando strane congetture su me e Sherlock chiusi nella stessa stanza nell'atto di fare chissà che cosa.
Decido bene di passare alla difensiva sperando solo che funzioni.
«Sherlock stava quasi per cacciarmi via, maleducato che non è altro».
Ciò ha l'immediato effetto di chiamare in causa il ragazzo che prontamente afferra il mio amo al volo, «Come potevo non desiderarlo! Non hai fatto altro che farneticarmi all'orecchio al pari di una mosca».
«Sarà, ma alla fine ho ceduto al sonno».
«Sherlock deve aver avuto un effetto piuttosto... soporifero, eh, Annie?», s'intromette il biondo ex medico militare, celando in quell'innocente battuta un'insinuazione piuttosto rimarcata e schietta.
Attendo le mie gote farsi roventi, finché è Sherlock a bloccare quel momento.
«Sono proprio curioso di scoprire quanti te ne sono rimasti in mente». Dice questo, acquisendo una posa autoritaria, incrociando le braccia al petto e raddrizzando la schiena in atteggiamento impettito; poi prende a guardarmi insistentemente. Lo guardo di rimando, senza però comprendere il significato delle sue parole. Anche John prende a guardarlo al mio stesso modo, vale a dire con un grande punto interrogativo stampato in faccia.
«Wow! A quanto pare ce n'è un'altra di maleducata tra noi, non sai neppure di cosa sto parlando». Prosegue Sherlock a suon di critica, ma l'unica cosa alla quale sono in grado di pensare è che più che essermi addormentata devo essere svenuta, magari dopo aver subito un duro colpo alla testa, perché, davvero, non ho idea di cosa stia blaterando.
«Mi spiace, ma la qui presente "maleducata" non ricorda nulla». Rivelo sarcastica.
«È più che logico. Ti sei addormentata verso la trentaduesima»
«Trentaduesima di cosa, Sherlock?», domanda un John sconcertato.
«La trentaduesima tipologia di tabacco». Spiega allora, compiaciuto, il detective rivolto al suo amico. Poi, indirizza un'altra volta l'attenzione verso la sottoscritta. Stavolta sembra più rilassato con tanto di mani nelle tasche dei pantaloni, che aiutano a conferirgli un'aria più sbarazzina.
«Ricordi? Hai insistito che ti elencassi tutti i 243 tipi di tabacco scritti nel mio blog, ma sei collassata sulla sedia alla trentaduesima, per essere precisi. Ho impedito che crollassi a faccia in giù».
Faccio seguire un breve momento di silenzio riflessivo, giungendo infine, in base allo sguardo fisso e alquanto eloquente di Sherlock Holmes, a una sola conclusione.
«Quello che so per certo è il fatto di non ricordare affatto di avertelo chiesto. Hai fatto tutto da solo, e sai benissimo che quando ti ci metti non la smetti più. Sei... logorroico». Gli ribatto da perfetta complice.
«Allora puoi pure scordarti di voler diventare una brava investigatrice».
«Non è questo ciò voglio, infatti». Continuo scostante, fingendogli pure una smorfia di antipatia.
«Ehi, ehi, ehi, da bravi, bambini, non riscaldatevi troppo». Ci ammonisce il medico parandosi tra me e Sherlock come a voler difendere entrambi l'uno dall'altra.
«Ha cominciato lei, John, hai sentito anche tu che mi ha dato del "maleducato"». Si lamenta il moro.
«Be', tecnicamente tu volevi cacciarmi via! ... Questo non è da maleducati?», insisto puntandogli l'indice contro.
«Ma per favore!». Esclama quello alzando gli occhi al cielo.
«Oh, e va bene! Svegliate tutto il convento! ... Prendetevi pure a morsi! Io non vi dividerò, sia chiaro!». Urla rassegnato il povero John Watson, dirigendosi a passo affrettato e soprattutto nervoso, verso la finestra. Ora ci dà le spalle.
«Non ne vale la pena». Prosegue a lagnarsi, indisturbato, Sherlock, con tono sprezzante. Unica differenza, un sorriso accennato che mi dedica, dietro cui si sforza con tutto se stesso di non cedere a una vera e propria risata.
«Lo stesso vale per me». Confermo a mia volta, parandomi una mano sulle labbra perché al contrario del ragazzo, sono incapace di trattenermi del tutto dal ridergli in faccia.
Soddisfatta, posso ammettere l'esito più che riuscito di questa nostra breve commedia, messa su appositamente per deviare i più che inquietanti pensieri dalla testa del caro John Watson. Ancora una volta, mi sento di dover essere riconoscente a quel sociopatico di Sherlock Holmes, che grazie alla sua prontezza di spirito ha capito ancor prima di me di dover dare una svolta alla situazione prima che quella degenerasse in un'altra indubbiamente imbarazzante. Un po' devo ammetterlo però, è stato divertente.
«Piuttosto, cosa facciamo adesso?», chiedo evasiva, tornando a rivolgermi a Sherlock. L'uomo mi lancia un occhiolino, ahimè, attraente, con cui mi fa chiaro l'avviso di aver ormai messo un punto al nostro spettacolino, e chissà, anche per congratularsi della mia bravura da attrice. Quindi, riprende a dialogare come suo solito.
«Siamo pronti per la perlustrazione, non ci resta che armarci di torce e...».
«Sherlock! Dovresti venire a dare un'occhiata». Lo interrompe a un tratto John, dimentico ora del suo precedente scatto di esasperazione.
Sherlock raggiunge l'amico alla finestra in pochissime falcate, e ci rimane fin quando non lo osservo correre verso il letto, afferrare il suo cappotto e sorpassarmi in una scia di quel suo profumo, in preda a un nuovo moto di frenesia.
«Sherlock!», cerca di richiamarlo John, ma invano a causa del suo giovane coinquilino appena fiondatosi oltre la porta della camera.
Me ne sto qui, impalata, con l'ex soldato che comincia a ballonzolare per la stanza alla forsennata ricerca di qualcosa, finché non me lo ritrovo davanti che mi incita ad accettare una delle due torce che mi porge.
«Andiamo, Annie. Meglio raggiungerlo prima che si dilegui. Sai com'è fatto». Dice questo conservando la sua pistola in qualche parte dietro la cintura dei pantaloni, ben nascosta sotto la giacca. Ci affrettiamo quindi, a seguirlo a ruota fuori nel buio del corridoio, facendoci luce con le rispettive torce puntate dritte davanti a noi.
Intanto, non molto lontano, la figura di Sherlock procede diretta alle scale, senza prodigarsi di attenderci.
Ora è capace persino di vedere al buio?
Comunque sia, io e John continuiamo a corrergli dietro quanto più silenziosamente possibile; la sua grande ombra proiettata poco più avanti dalla luce delle torce, ci conduce dritti al piano terra e più nello specifico, verso l'estremità del corridoio deserto. Il suono di una chiave che viene inserita e girata nella toppa mi arriva alle orecchie, seguito da una folata di aria fresca che avverto entrare dalla porta d'ingresso lasciata aperta per metà da Sherlock. Una volta all'esterno, troviamo il ragazzo lì, fermo ai piedi dei tre scalini, assorto nell'osservarsi intorno.
Ammetto di non averci capito ancora niente, per questo chiedo spiegazione a John, «Cosa ci facciamo qui?»
«Credo che lo scopriremo presto». Risponde senza staccare gli occhi dalla schiena del suo amico.
«Come ha fatto ad aprire la porta d'ingresso?»
«Ah, già, ha chiesto le chiavi alla badessa. Ovviamente lei ne è al corrente».
Per lo meno non le ha rubate, penso tra me e me.
Soddisfatta come pure un po' incerta, prendo a scrutare con una certa ansia il giardino che ci accerchia. Il buio ricopre tutto al pari di un enorme mantello, facendo così annullare la bellezza del posto visto invece alla luce del sole. Ora, un alone di mistero permea questo luogo di preghiera, incrementato, certamente, dalla serie di eventi inspiegabili che sono andati manifestandosi.
Un silenzio quasi spettrale accomuna il tutto.
«Forza, andiamo. Annie, dammi la tua torcia, tu resta vicino a John». Mi ordina Sherlock tutt'a un tratto, tendendo il palmo della mano verso di me. Lo assecondo senza farmelo ripetere, e mi faccio, dunque, più vicina a John. Il nostro tour investigativo è ora iniziato, capeggiato da uno Sherlock Holmes che sembra a tutti gli effetti sicuro di dove guidare i suoi due compagni, questi completamente ignari della meta verso la quale tendono i suoi passi.
Cominciamo con l'imboccare a sinistra il sentiero che serpeggia in mezzo al praterello fiorito e che dopo aver svoltato l'angolo, ci porta dritto al retro del maniero.
Gli alberi e i tanti cespugli che ora appaiono scuri e tristi, danno tutta l'impressione di apparire come nascondigli ideali per dei piccoli mostriciattoli notturni che come folletti maligni sono pronti a saltarci addosso e usare le loro unghiette affilate per avvinghiarsi ai nostri vestiti. La mia più che innata immaginazione mi spinge a cercare – per un bisogno di protezione – sia pure un leggero contatto con John, tramite il suo braccio libero dalla torcia.
Intanto, come unica eccezione al silenzio che ci copre, lo scalpiccio dei nostri passi sul pavimento in pietra liscia del viottolo, testimoniano la presenza delle tre uniche anime viventi. Teoria che viene ben presto a mutare quando mi vedo costretta a fermarmi di punto in bianco dietro alla sagoma di Sherlock, contro cui ci mancava tanto così ci sbattessi il naso. Mi sto riferendo alla creatura pelosa e scodinzolante oltre ogni limite che ci viene incontro e che altro non è se non Eden, il cagnolone simpaticone. La mascotte del convento si fa strada fra le gambe di tutti i qui presenti, senza sapersi decidere contro chi soffermarsi di più per sperare di ottenere qualche carezza extra. Ancor prima di potergli dire un «Ciao» mi ritrovo entrambe le mani madide di saliva visto che la sua lingua ha preso a leccarle come un posseduto. Nonostante ciò, la tenerezza che provo nei confronti degli animali mi impedisce di sottrarmi a quel gesto di puro affetto.
«Perfetto. Possiamo passare oltre, e John, spegni la torcia». Decide ancora Sherlock con aria autoritaria prima di voltarsi e riprendere a camminare a luce spenta. Io e John ci scambiamo un'occhiata fugace per poi imitare il nostro compagno.
«A cuccia, Eden, devi restare qui a fare la guardia». Mi rivolgo al cane con un sorriso mentre rimetto in moto le mie gambe, lasciandolo lì, accanto alla sua cuccia, che segue tutti noi con gli occhi imploranti di chi avrebbe preferito di gran lunga una buona compagnia e tante coccole.
Un poco più avanti, sotto quella che mi pare essere la parte di mura sfregiata dall'incendio e verso la quale siamo diretti, dei movimenti sospetti nel buio ci fanno arretrare d'istinto. Non ho la possibilità di rendermi conto di questa nuova situazione perché una mano calda e dalla presa salda mi trascina via con essa verso il basso. Ogni mio tentativo di replicare viene smorzato subito dall'uomo col cappotto che a pochi centimetri dal mio viso si tiene il dito indice sulle labbra con il chiaro scopo di intimarmi di tacere.
A questo punto non posso che accettare quella condizione, con il cuore che ha preso a scalpitarmi nel petto per via del momento adrenalinico che ci ha sorpresi.
Il buio dentro cui sono immerse quelle che appaiono come due figure, viene smorzato un po' dal tenue bagliore della luna non del tutto piena e che per questo va a illuminare un'esigua parte di quel quadretto. Dalla mia postazione, o meglio, dalla scomoda posizione acquattata che mi obbliga a sostenermi con le ginocchia in un crescendo di fastidio dolorante, scorgo ora le vere identità delle due ombre: a giudicare dall'abito lungo e scuro deve trattarsi di una delle tante suore facente parte della congrega religiosa, e poi... di un uomo il cui aspetto generale, ma ancor più qualcosa nel mio istinto, mi induce ad associarlo solo ad uno in particolare. Benjamin.
Ed ecco nascere in me un nuovo grande interrogativo: che cosa ci fanno una suora e un apicoltore in piena notte al di fuori di un convento, precisamente, nascosti nella zona più remota dell'edificio, aggiungendoci inoltre, nell'esatto luogo reduce di un inspiegabile incendio? Se solo riuscissi anche a sentirli!
Poi, nell'esatto istante... Magia!... O più semplicemente, uno dei soliti trucchetti tecnologici di Sherlock. Mi avvicino maggiormente a lui, maledicendo intanto le mie gambe malferme che quasi mi fanno perdere l'equilibrio rischiando di finirgli addosso, e mi lascio incuriosire dal piccolo schermo telefonico che il ragazzo stringe in una mano, mentre con l'altra si porta all'orecchio una cuffietta nera.
Per quanto io possa tollerare le sue stranezze non credo sia il momento migliore per ascoltare della musica. Ma... aspetta... Ci si mette anche John, adesso?, rifletto, osservando il medico che affianca Sherlock armeggiare con il secondo auricolare e ascoltarne, concentrato, il suono proveniente dall'interno.
Insomma, qualsiasi cosa stia succedendo, non perdo un altro attimo di più a incollare il mio orecchio sinistro a quello destro del detective, catturando nella mia testa quell'audio per nulla somigliante a una melodia.
Voci, delle voci dai toni appena percepibili che non riesco a comprendere anche a causa dell'occhiata perplessa di Sherlock che mi trovo a subire e che a tutti gli effetti sembra voglia rimproverarmi per l'eccessiva vicinanza.
Chissà se lo pensava pure quando si è trovato la mia testa posata sulla sua spalla...
Imbarazzata, mi tiro subito indietro rinunciando a quel breve contatto. Passo così, il tempo a venire seguendo i due interlocutori, cercando di captare in quei loro lontani bisbigli delle parole di senso compiuto, finché in un dato momento, vedo i miei compagni, Sherlock e John, farmi cenno di seguirli.
Continuiamo a spostarci acquattati tra l'erba, ripercorrendo lo stesso viottolo dell'andata, fin quando, una volta averci lasciati alle spalle l'uomo e la donna, imito i due uomini che mi precedono, nel rimettermi in piedi, per un momento trovando qualche difficoltà a comandare le gambe incredibilmente atrofizzate. Con ciò, però, mi sento finalmente libera e parecchio in dovere verso me stessa, di chiedere spiegazioni.
«Posso sapere a che cosa ho appena assistito? Eravate sintonizzati con le loro voci? Se è sì, come avete fatto?»
«Un'innocua microspia GSM, più comunemente detta ambientale, piazzata stamane sulla facciata bruciacchiata del convento quando ne ho avuto l'occasione». Spiega tranquillo l'uomo dagli occhi di ghiaccio, continuando a camminarmi davanti, impettito e affiancato da John.
Un rametto sottile s'intromette nei miei passi quasi volesse farmi apposta inciampare. Stavolta non funziona.
«Okay... E cosa ci facevano quei due là fuori?». Insisto a interrogare l'uomo, ricevendo soltanto, e stavolta da John, uno sbotto di risolino divertito.
«Voi due mi nascondete qualcosa!». Faccio loro presente, pur tuttavia senza ottenere nient'altro. Inizio a sentirmi un'estranea a tutti gli effetti, oltre che terribilmente mortificata per via di quei loro due strani modi di comportarsi.
Tornati all'interno del convento e dopo aver richiuso a chiave il pesante portone, Sherlock torna a riaccendere la sua torcia, venendo dunque seguito allo stesso modo da John. Il corridoio immerso nell'oscurità, è reso, se possibile ancor più spettrale, da tutte quelle statuette religiose che con i loro volti pallidi e senza vita danno l'impressione di osservarci come tanti giudici indagatori.
Una porta ci compare davanti solo pochi metri più in là nel bel mezzo del corridoio e subito viene violata da Sherlock e quel suo mazzo di chiavi preso in prestito.
La stanza dentro la quale siamo catapultati è spaziosa e profumata di un persistente deodorante per ambienti. Dalla presenza di una scrivania e di una libreria, quella, occupata da vari volumi, pochi schedari e altre scartoffie, mi dico dovrà per forza trattarsi di un ufficio, il solo ed unico di tutto il convento e di conseguenza di proprietà dell'unica autorità che potrebbe alloggiare all'interno di una congrega di sorelle: la madre superiora.
La prima azione che noto di Sherlock è quella di appropriarsi di quello che sembra un giornale ripiegato su se stesso, sul ripiano della scrivania, e che con noncuranza si rifila nella tasca interna del cappotto.
«Sherlock, questo è rubare». Lo riprende John.
«Io lo chiamo prendere in prestito. Siamo fuori dal mondo qui dentro». Accampa come scusa. «Molto bene», esordisce poi, chiamando me e John al suo comando. «Il nostro prossimo obiettivo sarà quello di ricercare ogni qualsivoglia informazione sugli unici due estranei agli abitanti del convento, sto parlando del nostro caro apicoltore donnaiolo». Volge dunque lo sguardo verso la sottoscritta come a volermi dare colpe che non ho, «... e dell'ancora sconosciuto giardiniere. Dovremo concentrarci, in particolar modo, sui loro nomi per intero, e già che ci siamo, vediamo di comparare le due iniziali incise sull'accendino anche con i nomi di tutte le consorelle. Forza!».
Con ciò dà il via alle ricerche. Di getto, il nostro trio si dirige direttamente verso la piccola libreria come delle falene attratte dalla luce. Del resto, è l'unico posto dove si spera possano trovarsi tutti i documenti necessari.
Resto affiancata a John la cui torcia illumina gli scaffali scuri, e scorro quindi, le dita sui titoli dei vari schedari.
Come previsto, Sherlock è già seduto alla piccola poltrona girevole, intento nella lettura di uno di quelli. Così, senza pensarci due volte, afferro anch'io uno schedario portandomelo sulla superficie liscia della scrivania, venendo seguita subito da John che pensa nuovamente a fare luce per entrambi.
Comincio a far scorrere gli occhi sui diversi fogli di risma stampati o fotocopiati, riguardanti registri di somme di denaro entranti o uscenti che siano; insomma, tutto quello che sta a rappresentare il bilancio finanziario del convento. Con un colpo secco richiudo il raccoglitore per poterlo poi rimettere al suo posto e passare quindi al seguente, finché un trionfante e sussurrato: «Trovato!» da parte di John Watson fa sussultare me e sollevare verso di lui la testa riccioluta di Sherlock. Rimango per questo, ferma alla mia postazione con ancora il mio schedario tra le mani, curiosa di conoscere gli sviluppi.
«Questo è l'elenco di tutte le donne entrate a far parte della congrega, nomi e cognomi originari inclusi». Spiega il medico. «Sherlock, quali erano le iniziali?»
«C. K.». Risponde l'altro.
«Okay. Controllo io».
Sia io che Sherlock siamo d'accordo nel lasciare a John quel compito e di rimetterci subito entrambi al lavoro.
Una manciata di minuti dopo, quasi mi scappa fuori un teatralissimo Eureca! a causa della scoperta in cui mi sono imbattuta spulciando tra le scrupolose annotazioni riguardo alla produzione e la vendita di miele.
«Qualcosa di utile?», pretende di sapere il detective allungando il collo muscoloso verso le mie pagine.
«Sembra di sì. Mi dispiace deludere i tuoi sospetti però, perché il signor Benjamin Darrel Price sembra proprio non avere niente a che fare con il misterioso C. K.». Lo informo con tono di sfida. L'uomo al contrario non sembra fare una piega, anzi ribatte dicendo: «Così come anche il giardiniere, un certo Stephan Wood che non abbiamo ancora avuto occasione di vederlo per via dei suoi due giorni feriali che cadono di sabato e di domenica. E tu, John?», chiama poi in causa l'amico.
«Ehm... No. Niente. Nessuna delle suore pare sia imparentata con quel C. K.». Dichiara quello.
«Avete per caso un piano B?», sollecito allora i due. È Sherlock ad aprire bocca.
«Può darsi, Annie, e anche se così non fosse, non pensare io abbia abbandonato i miei sospetti sul tu "amichetto delle api"».
«Sei più ottuso di un mulo!», gli sbraito contro ricevendo all'istante da John un «Ssh!» di ammonimento, a cui tuttavia non dedico molta attenzione.
«Quando te lo dimostrerò anche tu non sarai più tanto ottusa come adesso». Mi rinfaccia Sherlock dal lato opposto del tavolo.
«Ma davvero? Mi illumini, signor Holmes!».
«Vi prego, non ricominciate!», continua ad ammonirci un John nuovamente seccato dai nostri battibecchi i quali stavolta non hanno niente di finto. L'esortazione di John non serve a nulla se non ad annullare completamente il silenzio che c'era prima. Nello stesso momento Sherlock si è rimesso in piedi e tenendo una mano nella tasca esterna del cappotto, mi si avvicina come un'ombra scura. Accostatosi a due passi da me prende a farmi sventolare davanti agli occhi una di quelle bustine salva prove già notate in precedenza, come quelle contenenti il mozzicone di sigaretta o il piccolo accendino a gas. Unica pecca di questa è il bislacco contenuto di cui mi rendo conto poco dopo averlo osservato attentamente, e che perciò mi appresto a scacciare via con un violento colpo della mano.
«Sherlock, che schifo!», commento, urlando anche forse più del dovuto.
«Oh, non fare la santarellina!».
«Io?! Mi aberra solo il fatto che tu abbia un preservativo usato nella tasca del tuo cappotto!», gli faccio presente, ancora scettica e schifata.
«È chiuso qui dentro come puoi ben vedere e se ti fa sentire meglio, non credere sia stato tanto avventato dall'averlo tirato fuori per esaminarlo!».
«Volete fare silenzio! Dannazione!». Stavolta il rimprovero di John viene accompagnato da una specie di ringhio che riesce stranamente ad ammutolirci. «Ah! Finalmente!».
Segue un momento carico di imbarazzo generale a cui si aggrega, stranamente, anche Sherlock. Ciò nonostante, non significa io debba sorvolare anche su questa nuova faccenda.
«Okay, sentiamo, a chi apparterrebbe quel... coso?», riprendo, calmando i nervi e usando un tono più moderato.
«Fallo tu il dovuto collegamento. Parlavamo di Benjamin».
«Come sei arrivato alla conclusione si tratti proprio del suo?», proseguo con un sospiro di esasperazione.
«E va bene, ti concedo un indizio: la suora».
«Cosa? No, dai... vuoi dire che...». Non mi serve finire che Sherlock conferma tutto quanto tramite un cenno affermativo del capo. «Intendi proprio con la donna che abbiamo visto poco fa sul retro, vero?», domando più incredula che mai.
«Sì, proprio così». Dice, ora, incredibilmente calmo.
«Quindi, sarebbero amanti, giusto?». Ribadisco ancora un bel po' diffidente.
«Pare di sì, ovviamente non mi è servito dedurlo solo da questo...». Indica l'oggetto sollevando di poco la bustina. «... che abbiamo rinvenuto sulla scena dell'incendio insieme all'accendino e alla sigaretta. È da quello che io e John abbiamo ascoltato per mezzo degli auricolari che mi ha dato la conferma finale. Per il resto... Bè, credo che lo avremo visto con i nostri stessi occhi se fossimo rimasti ancora lì».
«Che mi dici della sigaretta identica a quelle delle quali Benjamin fa uso?»
«Oh, bè... Niente di che, potrebbe averla semplicemente fumata una delle scorse notti mentre aspettava la donna, o dopo... Insomma, non credo di ritenere più essenziale questa faccenda. Io dico di andarcene di qui».
Decide a un tratto, quest'uomo così tanto stravagante e incoerente, dapprima ricacciandosi in tasca la sua prova oramai niente più che spazzatura, per poi dirigersi verso John, superarlo con quelle sue lunghe gambe che tanto gli invidio, e infine raggiungere la porta d'uscita. Lo osservo in tutto il suo fascino elegante sfoggiato con perfetta nonchalance perché egli stesso neanche conscio di possederlo, ma non per questo meno d'impatto. Non mi rendo conto dell'occhiata insistente del diretto interessato oltre che della voce di John Watson il quale al fianco dell'altro mi sollecita a seguirli fuori di qui.
Sarà tutta questa storia, sarà il solo immaginare quel Benjamin in atteggiamenti intimi niente meno che con una suora, sarà, forse, il lungo cappotto di Sherlock Holmes, che svolazzante, lo fa apparire una sorta di mantello per supereroi. Sta di fatto, comunque, come il passare sempre più tempo con un uomo apparentemente impossibile da sopportare, riderci, litigarci e riappacificarci ritornando poi al punto zero come se niente fosse mai accaduto, mi lascia ogni volta uno strano e indecifrabile senso allo stomaco che si manifesta in calore o, il più delle volte, in subbuglio più totale.
Una volta rigirata la chiave nella serratura dell'ufficio, ci rimettiamo in marcia verso le scale, costantemente attrezzati di torce. Secondo Sherlock, un più accurato giro di perlustrazione stavolta all'interno del convento, sarà efficace per il ritrovamento di ulteriori indizi. Così, decidiamo di imbarcarci verso i dormitori per poter curiosare anche in quelle zone ancora per noi del tutto sconosciute.
Procediamo mettendo i primi passi sugli scalini, John precedendo me e Sherlock, quest'ultimo che meglio mi favorisce la salita grazie alla sua torcia. A un certo punto però, un rumore indefinito ci fa trasalire, accompagnato da una voce femminile che sferza il silenzio tombale: «Chi c'è? C'è qualcuno lì?», domanda la nuova arrivata con tono insicuro, quasi tremante.
Il punto di provenienza della voce non sembra essere troppo distante, ragion per cui Sherlock intima in fretta e furia il suo coinquilino a mettere via la torcia facendo quindi anche lui la stessa cosa. Qui, in questa oscurità lenita appena dall'alone lunare proveniente da un paio di finestre, sento il calore di una mano avvinghiarsi sul mio polso e trascinarmi giù dai primi tre o quattro gradini, per raggiungere a tentoni quella che sembra una nicchia sul sotto scala. Sento poi John e il tessuto del suo giubbino sfregarmi contro, nell'atto di nascondersi quanto più rasente a questa parete dove restiamo accollati stretti come sardine. Dei passi concitati si avvicinano ancora e ancora, arrivando a bloccarsi del tutto, a breve distanza dalla scalinata e di conseguenza dal nostro nascondiglio.
Rannicchiati sotto questo spazio, posso scorgere un pezzo di tessuto nero venir fuori dalla visuale bloccata dalle scale. Il mio cuore infuria ormai nel petto, simile a un tamburo tribale mentre il respiro si è andato via via attenuando in automatico come se avesse troppa paura di arsi sentire.
A entrambi i miei fianchi, il detective e il suo blogger sono tesi come statue marmoree. Tuttavia basta davvero poco per spezzare quel sottilissimo – e fragile – filo invisibile che fa sì di tenerci lontani dalla vista di quella donna.
Un fragore metallico si espande in modo fin troppo improvviso e si propaga rimbombando nell'aria, senza alcuna possibilità da parte mia, o di John o di Sherlock di fermarlo.
Un'esclamazione di terrore viene fuori dalla giovane donna, seguita da un: «So che sei lì sotto! Fatti vedere!» pronunciato con voce rotta ma che in un certo senso, rivela un coraggio da vendere.
Quegli stessi piedi che hanno retrocesso di un passo in seguito al rumore causato dalla pistola di John, quella, cascatagli a terra per una stupida fatalità, si rimettono in moto avanzando direttamente verso l'apertura di questo sotto scala, sfidando ogni rischio e paura.
A questo punto, mi convinco, non ci resta altro da fare che uscire allo scoperto, ed è esattamente ciò a cui pensa anche Sherlock, solo che in un modo del tutto differente a quello che avrei mai potuto immaginare, quindi tornando ad artigliarmi il braccio sinistro e spingendomi verso l'esterno del passaggio. Non comprendo né il come né il perché, eppure mi basta il contatto tangibile del corpo del ragazzo dal lungo cappotto, a lasciarmi guidare senza bisogno di negargli ogni suo qualsiasi proposito. Non potrei sperare di replicare neanche se lo volessi davvero, in quanto, mi ritrovo tutt'a un tratto, immobilizzata dalle sue mani che mi tengono ben ferma per le spalle. Sarebbe bene correggermi da sola: ingabbiata è il termine giusto. La sua stretta forte che pare non ammettere alcun tentativo di ribellione da parte mia, si va via via allentandosi ma solo per potersi permettere di scivolare lungo i miei fianchi, posarmi una mano dietro la schiena e infine, attirarmi verso di lui. Con le mani chiuse a pugno faccio pressione sul suo petto tonico al fine di creare almeno un minimo di resistenza, ma la verità è solo una, assoluta e innegabile; la mia mente non riesce a pensare a nient'altro che non comprendano le labbra morbide di Sherlock incollate alle mie pur nonostante in quello che è un bacio casto e ben moderato. Forse, fin troppo frigido e forzato, a pensarci bene.
«Oh, mio Dio! Scusate, io...». Le parole della donna irrompono un'altra volta per il corridoio raggiungendo le mie orecchie, a dispetto del vortice di emozioni che sconquassano, secondo dopo secondo, i miei sensi.
Ma pur trattandosi di un momento, e per quanto possa avvicinarsi a un qualcosa d'incredibile e perfetto oltre l'inverosimile, è, com'è giusto che sia, solo un momento, fugace e terminale. Prima ancora di potermi dibattere, Sherlock molla la presa – e il pieno controllo – su di me, voltarsi contro la suora.
«Oh, ehm...». Comincia a balbettare Sherlock, prendendomi alla sprovvista.
Volgo lo sguardo verso John, rimasto tutto il tempo nascosto nell'ombra ma che posso immaginarlo senza problemi, totalmente esterrefatto con tanto di bocca a formare una o. Imbarazzata, torno subito a guardare il detective.
«Io... cioè, noi...». Farfuglia ancora come da perfetto imbranato che non sa assolutamente quale scusa accampare.
Che sta succedendo?
«Vergognatevi! Padre Scott, dico bene? E lei, signorina...»
«Vergogna a noi?», ribadisce di punto in bianco l'altro, mutando velocemente tono di voce. Quella si è fatta grave e incredibilmente accusatrice.
«È una casa di Dio, lei dovrebbe capirlo meglio di chiunque altr...»
«Anche lei!». Le sbraita contro il consulente. Poi tira fuori dal cappotto la torcia, il cui fascio di luce va a illuminare per intero il volto della donna. Ora posso vederla chiaramente, riconoscendo in quei suoi tratti spigolosi, la famosa ragazza "dell'occhiata assassina" rivolta a Benjamin l'apicoltore, oltre che di tutte quelle piuttosto insistenti riserbate a Sherlock durante l'intera cena. Classico esempio per cui, con il senno di poi, si capiscono molte cose. «Sarà meglio guardarci negli occhi, sorella... ?»
«Julie». Continua quella, strizzando gli occhi per via della forte luce che le colpisce il volto, pur senza tirarsi indietro nel sostenere, coraggiosamente, lo sguardo da maniaco dell'uomo che la guarda con prepotenza. Ciò nonostante mi è facile leggere nei suoi occhi scuri, un velo di conscia colpevolezza. Infatti, non manca poco che si dilegui dalla nostra vista, salendo la scalinata come una pazza sfrenata.
Dopodiché, ancora silenzio, uno di quelli carichi all'inverosimile di parole da far fuoriuscire.
La torcia tenuta da Sherlock illumina ora il pavimento, quasi volesse apposta non vedere la mia espressione di disappunto che gli sto rivolgendo.
Ma lui è Sherlock Holmes, rifletto. Perché dovrebbe temermi?
John, venuto fuori come un'ombra, parla per primo.
«Maledizione, mi spiace per la pistola».
«Va tutto bene. La suora è sistemata». Dice il secondo uomo con una calma che gli invidio parecchio. «Vogliamo proseguire?»
Ormai sono tutta un vulcano incandescente che non riesco più a controllare.
«Che diamine ti è saltato in mente?», esplodo, orientata verso Sherlock Holmes. «Come hai osato? Avresti potuto avvisarmi, almeno!».
«Oh... già... Bè, ma sai, l'ho fatto per tutti noi, Annie, non potevo permettere che ci vedesse gironzolare. Ci avrebbe fatto scoprire, magari parlandone con qualcuna», cerca di accampare in aria, con un'aria affatto mortificata o scombussolata per il torto provocatomi. «La gente è disposta a tacere quando sente minacciati i suoi segreti. Occhio per occhio, no?»
«È un ricatto bello e buono». Replico mentre mi faccio più vicina a lui. «Senza contare di non aver pensato neanche per mezzo secondo a quello che avrei potuto provare io!».
«Oh, andiamo, mi stavi semplicemente facendo da complice, sei la mia assist...»
«No, Annie, ferma!».
L'avvertimento di John non è altro che un sussurro lontano se messo in confronto con quanto si agita convulsamente nella mia testa, che non mi lascia pensare con giusta razionalità quanto sto per fare.
La mano che sollevo sopra di me senza alcun controllo e con quanta forza carica di astio possa mai essere intrisa, va a colpire con uno schiocco secco la guancia sinistra del consulente investigativo.
Il momento che ne segue, vede i nostri tre differenti respiri restare in bilico, quasi bloccati in una perenne attesa di ciò che potrebbe seguirne. Posso affermare che il mio, va accelerando a ogni contrazione del diaframma e sembra possedere tutta l'intenzione di non rallentare.
L'uomo che mi sta difronte non fa una piega. La mano che impugna la torcia distesa lungo il fianco e quell'espressione di totale sottomissione al mio gesto così avventato.
Non per questo sbagliato, tiene a precisarmi la mia mente.
A ogni modo, non ci sto qui a rifletterci oltre che mi appresto ad aggirare il corpo rigido di Sherlock come fosse un ostacolo, dileguandomi subito.
Riesco a sentire il caro buon John riprendere vita e sbraitare contro il suo compagno, udendo cose del tipo «Cosa aspetti?» oppure «L'hai fatta grossa, Sherlock, devi chiederle scusa! ... Adesso! »
Continuo a risalire le due rampe di scale lasciandomi alle spalle i due che ancora confabulano su di me, mentre lacrime calde cominciano a scorrermi irrefrenabili. I miei piedi scattano ad ogni gradino nonostante il buio che mi impedisce di avere una chiara visuale sotto di me.
Non m'importa.
Semplicemente corro, corro e corro ancora, maledicendo me stessa per aver accettato tanto passivamente quel bacio. Mi tengo stretta al corrimano aspettandomi una caduta da un momento all'altro, ma pare che il buio sia dalla parte delle mie gambe scoordinate.
Supero anche l'ultimo gradino, sospirando di sollievo non appena mi si apre davanti il lungo corridoio che mi porterà dritto nella mia stanza, sotto le coperte, il luogo più sicuro dove dare finalmente sfogo a tutto quanto mi pesa sul petto e quel nodo che continua a soffocarmi in gola.
Ma la fortuna che, si dice aiuti gli audaci, pare abbia voluto ancora una volta darmi la giusta dimostrazione di quanto proprio io non rientri esattamente in quella categoria.
Un brivido di puro terrore mi percorre lungo la schiena come un artiglio freddo che mi solletica penetrando direttamente l'interno della spina dorsale. Il cuore manca un battito, o almeno così mi è parso in base alla velocità supersonica con la quale ha preso a battere.
L'interno del mio corpo è ormai tutto un concerto di tamburi martellanti.
Le gambe rigettano allo stesso tempo, ogni più lieve impulso inviato dal cervello.
C'è solo un modo per poter rispondere a questa paura dettata dalla presenza spettrale che emerge dall'oscurità e che si staglia alla debole luce della luna, proiettando sulla parete un'ombra che vedo avvicinarsi sempre di più verso la mia figura pietrificata.
Getto un urlo talmente forte e altrettanto agghiacciante con cui, ne sono convinta, do sfogo anche a tutto il resto del caos che alberga dentro di me.
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