Capitolo 10: ATTESA E QUALCOSA DI PIÙ

La cena prevista poche ore più tardi si tiene in una sorta di sala comune al cui interno tre file parallele di lunghe panche fungono da tavolate per tutte le quattordici consorelle della congrega cattolica. Tre posticini sono stati riserbati al curioso gruppetto di turisti che, non potendo distaccarsi dalle altre commensali, cercano di adeguarsi all'atmosfera sacra e sommessa che impregna l'ambiente.

Sherlock, in particolare, trova la forza necessaria a spronare tutto il suo corpo, o meglio il suo organismo, a ingerire la zuppa di verdure miste che ci è stata servita da una delle suore che ho avuto modo di notare in giardino. La stessa donna che, chissà perché, ha lanciato quell'occhiata torva contro Benjamin l'apicoltore, e che adesso, a un tavolo di distanza dal nostro, continua a gettare attenzioni curiose verso Sherlock.

Pare che anche lui se ne sia reso conto, ma rimane troppo occupato a mandare giù – come un bambino disgustato – la sua ciotola di minestra.

In verità, non è poi così cattiva.

Terminata, infine, la frugale cena con una crostata di marmellata alle pesche che Sherlock pare addentare con ritrovato entusiasmo, siamo tutti liberi di ritirarci nei nostri alloggi, io e i miei due compagni mettendo prima ben in chiaro di darci appuntamento a mezzanotte in punto all'imboccatura delle scale del mio stesso piano.

Dopodiché, il tempo necessario a una breve dormita per poi essere liberi di procedere con un "tour spirituale" tutto nostro per le mura del convento.

Avendo avuto modo di ascoltare Sherlock e John e il loro progresso nella ricerca di prove, mi è parso di sentirli piuttosto fiduciosi della svolta che il caso è sempre più in procinto di prendere.

Alla spiegazione riguardo dapprima il loro giretto di perlustrazione in tutte le camere da letto delle consorelle – motivo di quell'inspiegabile e snervante lunga assenza di cui tanto mi sono lamentata – e del consecutivo ritrovamento di un mozzicone di sigaretta e di un accendino proprio in concomitanza del luogo colpito dall'incendio, ho potuto io poi ribattere, parlando della conversazione tenuta con sorella Cindy, nello specifico riferendo cosa le fosse rimasto più impresso dell'aspetto fisico del terrificante intruso. Il detective, allora, pare essersi animato di una fiamma tutta nuova, a causa della mia rivelazione sulla creatura avente un occhio soltanto oltre che sul dettaglio parecchio strambo dell'oscurità più totale nella quale era stata ritrovata la testimone. Il viso di Sherlock, soddisfatto che quasi anelava alla felicità, è rimasto immobile con le labbra dischiuse e gli occhi sbarrati, in un atteggiamento da individuo folgorato, e allo stesso tempo come contento di essere stato colpito da un fulmine. Dopodiché, mi è parso di capire che fosse ritornato alla sua tipica normalità facendomi persino cogliere un barlume di fierezza tramite un suo: «Ottimo» rivoltomi con un sorriso.

Sorriso che ancora non riesco a scacciare dalla mente, proprio adesso che questa dovrebbe spegnersi per un po' e ricaricarsi per poter far fronte a una notte che si prospetta essere movimentata.

Fisso il soffitto per un tempo indefinito finché non sento la necessità di cambiare posizione e di voltarmi quindi sul fianco destro. Le coperte che mi ostino a tirare fin sopra il mento non riescono a riscaldarmi come si deve. I miei piedi freddi così come la mia testa scalpitano di mandare avanti le lancette dell'orologio in modo da raggiungere il prima possibile Sherlock e John.

Decido di immaginare l'esito che sarà di questa notte, vale a dire se essa – come ci hanno sempre fatto credere – porterà consiglio o, se peggio, ci farà imbarcare in una missione pericolosa.

Faccio questo, tenendo gli occhi ben chiusi sperando di venir trascinata languidamente dalle braccia di Morfeo, ma ancora, per quanto io mi sforzi, quelli, ottusi e ribelli, si riaprono andando a soffermarsi su una qualsiasi direzione della stanza, in particolar modo verso la porta che ho deciso di tenere chiusa a chiave per semplice precauzione.

Sarò pure una fifona, ma qui c'è in ballo una creatura demoniaca che si diverte a spaventare le suore e a rubare panini dolci!

Tornando a me, porto avanti questo, seppur vano, tentativo di cedere al sonno, restando lo stesso sdraiata sul fianco nell'ascolto del silenzio che mi circonda.

Silenzio che, tuttavia, smette di essere tale perché in un certo momento, e in una maniera tale da farmi rizzare i capelli, sento uno scalpiccio di passi avvicinarsi alla mia porta, e cosa più inquietante, fermarsi proprio dietro di essa.

Mi faccio scivolare piano piano sempre più sotto le coperte che oramai coprono il mio corpo per intero, come a proteggermi da ogni mostro cattivo o uomo nero dei quali i bambini hanno tanto paura. Il coraggio viene definitivamente meno insieme al mio povero cuore che sento uscirmi convulsamente dal petto.

Rimango così, rannicchiata in posizione fetale, cullandomi appena per attutire il senso di smarrimento e terrore, mentre con gli occhi chiusi e le orecchie aperte, cerco di captare un lieve segnale che mi indichi l'allontanamento di quei passi. Ancora un minuto o forse due o anche meno, che il silenzio viene un'altra volta spezzato dal riecheggiare dei passi, ma stavolta che si riattivano per lasciare finalmente sgombra l'altra parte del passaggio. In un punto non proprio lontano, il leggero tonfo di una porta che si chiude fa ancora e ancora saltare all'aria i miei nervi già tesi come corde di violino.

A questo punto non sono più in grado di resistere al caldo opprimente delle coperte, che in un batti baleno mi tiro su a sedere, scalciando via da me ogni lembo di tessuto per lasciar traspirare la mia pelle incredibilmente sudata. Il respiro affannato di certo non aiuta a raffreddarmi.

E se quel qualcuno fermo alla mia porta abbia preso di mira una delle consorelle? ... Entrando nella camera della sfortunata e facendo Dio solo sa che cosa?

Con questi interrogativi a ronzarmi per la testa scendo dal letto senza far rumore, e in punta di piedi mi reco a recuperare scarpe e cappotto da un angolino buio nell'armadio. A farmi da guida c'è solo il pallido riflesso lunare che irrompe dalle due finestre.

Armeggio con la borsa a tracolla decidendo poi di lasciarla lì dov'era e di portarmi dietro solo e soltanto il mio cellulare. Se sarò costretta a difendermi, voglio farlo senza intralci. Anche se in casi simili una mazza da baseball sarebbe ben accetta.

Trascorro i frammenti di tempo a venire, pietrificata dalla paura mentre una lotta interiore infuria dentro di me. Ecco qui la vocina della mia metà la quale a suon di coscienza e anche un bel po' di codardia cerca di indurmi a tornarmene a letto, colpevolizzandomi di aver immaginato tutto o, per lo più, di aver sbagliato nel dedurre correttamente quanto accaduto lì fuori.

Chi mi dice che non sia stata realmente una delle donne del convento ancora in piedi ad aver percorso il corridoio facendosi poi prendere da un qualche capriccio e parandosi davanti alla porta per ficcanasare?

Già! Questo è quello che il mio grillo parlante interiore insiste a blaterare al vento. La verità è che dal momento in cui sono entrata a far parte della vita di un uomo come Sherlock Holmes – che per alcuni tende a passare come un uomo di dubbia moralità – l'integrità dello stesso grillo parlante che è in me sembra essersi compromessa, risultando, di conseguenza, sempre meno convincente del solito.

Senza più alcun indugio, sprono le mie gambe non più molli come gelatina ad avvicinarsi alla porta e a impugnare dapprima la maniglia con una mano, dunque a far scattare la serratura con l'altra.

È fatta, mi dico. Adesso o mai più.

Chissà come mai mi aspetto di sentire uno di quei tetri cigolii che di norma accompagnano le porte in ogni film horror che mi sia capitato di vedere, ma la mia, al contrario, vanta di cardini ben oleati.

Mi accorgo immediatamente della fioca luce che fa capolino a fasci regolari dalle poche finestre che si intervallano lungo tutta la parete a me frontale, lasciando al buio più totale solo il settore che comprende l'inizio delle scale e l'angolo ad esse subito dopo attiguo. Ciò nonostante, l'atmosfera generale non è tra le più festose. Diciamo che lascia molto all'immaginazione, e la presenza luminescente di un fantasma che emerge dall'ombra non sarebbe da escludere in nessun caso.

La testa che inizialmente faccio sbucare appena dall'uscio la spingo un po' più oltre muovendola da destra verso sinistra e viceversa, ogni volta con l'oscuro presentimento di trovarmi vis-à-vis con un'entità paranormale.

Il silenzio rimane ancora l'unico elemento presente, tanto che inizio sul serio a pensare di aver immaginato tutto. Mi lascio sfuggire, quindi, un lungo sospiro di sollievo, vero toccasana per il mio corpo fin troppo scosso, sentendomi poi libera di portare per un attimo i miei pensieri a svagarsi su immagini decisamente più piacevoli. La figura del consulente investigativo si proietta davanti ai miei occhi pur senza desiderarlo davvero. Nella mia mente l'uomo è lì seduto sulla sua poltrona accanto al camino in Baker Street, polpastrelli congiunti sotto il mento sbarbato ed occhi chiusi ma come sempre in costante vigilanza.

Mi ritrovo a sorridere, ebete che non sono altro. Ma come ho già detto, è pur sempre un'immagine piacevole e molto rassicurante che mi fa venir voglia di averci a che fare al più presto, perché in fondo, anticipare il nostro incontro di qualche ora, so bene che per un nottambulo del calibro di Sherlock, non potrebbe rivelarsi un grosso problema.

Mi osservo un'ultima volta intorno circospetta, impugno poi il mio cellulare a mo' di torcia e a passo affrettato mi dirigo senza fermarmi mai, diretta al secondo piano.

- Sherlock Pov

Allontano il mio viso dal piccolo campo di osservazione, che appare sullo schermo del microscopio digitale, occupato per intero dall'immagine zoomata del mozzicone di sigaretta che giace malamente ripiegato su se stesso. Alla mia sinistra, il secondo indizio, anch'esso già esaminato con minuzia e riposto nuovamente nell'apposita busta trasparente, non fa che attirare più volte la mia attenzione, perché custode di un enigma ancora da risolvere.

Il mio orologio da polso segna cinque minuti alle ventidue, e mai come adesso ho desiderato farmi un viaggetto nel futuro per poter accedere direttamente alla mezzanotte. Non è come trovarmi in Baker Street e avere a portata di mano tutto ciò di cui potrei necessitare, senza tralasciare il fatto di possedere piena libertà in ogni mia azione, che sia entrare o uscire dal mio appartamento a tutte le ore del giorno, o potermi aggirare per le vie di Londra senza timore di essere ostacolato in una qualsivoglia indagine. Invece, adesso, sono costretto a restarmene rintanato in questa squallida stanzetta, senza la pistola di John a distrarmi con i suoi proiettili conficcati nella parete o senza nient'altro su cui mettere le mani e allenare la mente, questo non soltanto a causa del mio oltremodo generoso gesto altruistico di aver concesso qualche ora di riposo a John e a Annie, ma pure perché trattandosi di una missione in incognito sarebbe bene evitare di farci scoprire a gironzolare da qualche donna di chiesa impicciona ancora non del tutto addormentata.

A un tratto, troppo stufo e irrequieto per la snervante attesa ancora da sopportare, mi do un brusco slancio all'indietro con la sedia, battendo poi forte i piedi sul pavimento come a voler confermare al mondo intero il mio stato indispettito. Alla fine le gambe decidono il resto conducendomi alla finestra.

Il paesaggio che osservo da qui tace. Il cielo trapunto di poche stelle è ricoperto a tratti da un velo grigiastro di nubi, chiara previsione di un'imminente pioggia. Per nulla capace di trattenere le mie mani, afferro la maniglia dell'imposta e dopo uno scatto secco questa si va spalancando, così da lasciare il mio viso esposto alle fresche ondate di questa purissima aria di campagna. Inspiro ed espiro lentamente, inebriandomi delle tante fragranze differenti che non ho problemi ad assimilare nei polmoni. Per di più, questa parte del maniero, che è la stessa facciata comprendente l'ala ovest, mi permette una più che azzeccata panoramica della zona nel caso in cui il famigerato diavolo voglia farmi l'onore di rifarsi vivo, magari per un secondo incendio.

Pian piano comincia a farsi strada dentro di me la seria convinzione di aver trovato una degna distrazione alla noia, ma solo fin quando due flebili colpetti alla porta mi inducono a voltarmi verso di essa. Stranamente vengo colto di sorpresa. Non accetto, tuttavia, di restarmene impalato a fissare l'ingresso, che già ho diviso la breve distanza che mi separava da quello. Prima di provvedere ad aprire, bisbiglio un precauzionale: «John?» da cui subito ne segue un altrettanto mormorato: «Sono io, Annie».

«Che ci fai qui?», chiedo alla ragazza ancor prima di spalancare del tutto la soglia e di poterla quindi notare immersa nell'oscurità mentre stringe il suo telefono nella mano destra, dalla quale il debole bagliore di luce bianca del piccolo schermo va a contornare solo un'esigua parte del suo corpo.

«Il tuo orologio batte già la mezzanotte?», continuo a domandarle cercando di apparirle ironico, ma quelli che in realtà non sono altro che i miei soliti modi bruschi provocano in lei un leggero sussulto. Rilasso così i miei tratti facciali e la invito ad entrare facendomi da parte.

«Sapevo di trovarti sveglio». Mi dice intimidita dal sottoscritto. Richiudo la porta e mi volto a guardarla infilando le mani nelle tasche dei pantaloni.

«Sì. Non vantarti però di averci preso con una deduzione, non conta se già conosci le mie abitudini».

Annie non fa una piega dedicando invece la sua attenzione a vagare per la stanza, per poi subito tornare a incrociare i miei occhi, stavolta, esprimendosi con un sorriso beffardo. «E invece sono esattamente le abitudini ad aiutarci a comprendere i comportamenti della gente, a... dedurre le loro azioni», comincia la donna. Lascio che continui perché incuriosito. «Non è forse vero che il mondo intero va avanti come un enorme treno con stessi orari ogni giorno sempre da rispettare? Ognuno di noi è solito fare la stessa cosa ogni giorno, che sia prendere lo stesso autobus per recarsi al lavoro o sparare alla parete puntualmente quando si è annoiati, e ancora, non dormire e non mangiare tutte quelle volte che si è troppo impegnati a risolvere un caso, che sia quello, in un convento di campagna».

Quella sua aria ribelle e da perfetta maestrina alle prese con il suo bel discorsetto che sembra a tutti gli effetti frutto di una precedente preparazione, è intenzionata a prendersi gioco di me.

«Ho il dovere di correggerti: non sono così prevedibile, ricordi? ... Ho mangiato l'intruglio verde di verdure».

«Oh, ma solo per tenere fede al tuo travestimento! Come da tua abitudine non l'avresti fatto. Devi ammetterlo, Sherlock, per quanto tu possa essere diverso da chiunque altro essere umano, rimarrai il solito ordinario, e la mia deduzione, tanto per chiarire, era tale perché ho imparato a conoscere la tua vita».

«Ma...». Ingoio le parole ancor prima di pensarle. Inutile proseguire oltre. Questa nanerottola italiana mi farà impazzire.

«Quindi, io conosco le tue abitudini, ergo, mi riesce facile dedurre le tue mosse, esattamente come fai anche tu».

Sospiro frustrato e faccio per tornare alla mia precedente postazione di lavoro, quando di nuovo quella voce dall'accento tanto inconfondibile mi rimanda alla sua attenzione.

«Stavi per dire qualcosa prima?». Chiede con irritante strafottenza. Sembra che il mio tentennamento l'abbia divertita eccome. 

«È ovvio». Mi lascio sfuggire in tono gelido senza neanche degnarmi di guardarla, «Ero in procinto di ordinarti di tornartene in camera tua». Delucido poi con noncuranza.

«Capisco...». Ribatte lei palesemente delusa dalla mia risposta. «Credevo solo avessi esaurito le parole con le quali poter contraddire il mio discorso». Riprende in seguito, accompagnando il tutto con una risatina finalizzata a sdrammatizzare l'intera situazione. Ciononostante, quel suo tentativo non fa altro che incrementare il mio stato di impazienza e perciò la mia voglia pari a zero di replicare.

Riesco finalmente a raggiungere la sedia e ad accomodarmici, fingendo di essere troppo impegnato con quello che ho davanti.

«Ti ho disturbato, vero?». Ben presto il cambio repentino di tono da parte di Annie sortisce l'effetto contrario a quello che invece avrei sperato di ottenere. Se fosse andata via senza fare considerazioni di alcun genere, in quanto, semplicemente accortasi di essermi di troppo nel mio operato, ora non sarei qui a sentirmi in dovere di guardarla, con questo inaspettato moto di colpevolezza che mi attanaglia il petto.

Una linea piatta di quelle che dovrebbero stare a significare un sorriso piuttosto finto fa accrescere ancora il disagio che provo nel guardarla.

Delusione. Questo è il vero significato che leggo sul suo volto leggermente arrossato per via della timidezza, sua onnipresente compagna di vita, che solo in certi momenti è in grado di eclissare. Non è questo il caso – mi rendo conto – a causa della durezza riserbatale, e che quasi sicuramente non avrebbe dovuto meritare.

Tante, troppe volte sono stato capace di deluderla, eppure eccola ancora qui, in grado di reggere i miei malumori persino meglio di quanto abbia mai fatto lo stesso John Watson, oltre alle mie parole affilate che chissà come mai, hanno lo straordinario effetto di tenerla legata a me in un modo che tutt'ora stento a credere. Potrei giudicare questo suo tipo di attaccamento riducendolo a un comportamento strambo o insensato, eppure l'unico giudizio che mi sento di dargli è indubbiamente legato alla parola pazzia.

Annie continua a fissarmi nella perenne attesa di una mia qualsiasi reazione, la quale non tarda ad arrivare, solo che in un modo tutto innaturale che mi porta a dubitare, come già successo in precedenza, della mia sanità mentale.

«Ho bisogno del parere di un secondo cervello e quello di John non è disponibile». Mi esprimo così tendendo nella sua direzione la busta di plastica con all'interno il piccolo accendino a gas. Lo sventolo insistentemente affinché lei riesca a convincersi, nonostante io sia già sicuro della sua decisione.

Del resto, non è forse vero che una delle tanti abitudini proprie di Annie sia quella di adempiere con una certa frequenza ad ogni mio capriccio?

Non lo ammetterebbe mai, ma la verità è che sarebbe disposta a seguirmi a occhi chiusi pur di assecondare quel suo incessante desiderio di evasione dalla sua noiosa oltre che malinconica esistenza.  

Deduzione da parte mia ben riuscita grazie a Annie che, come da copione o da sua "abitudine", abbandona la sua maschera funeralesca per indossarne un'altra tutta luccichii e salti di gioia – questi ultimi mi sono solamente dati da immaginare per via del contegno quasi da soldato che la contraddistingue, pur essendo consapevole che se avesse abbassato le sue difese ne avrebbe fatto uno proprio davanti ai miei occhi.

«Tu cosa puoi dirmi?», mi interroga, dunque, la mia vicina di casa afferrando la prova dalla mia mano e cominciando a studiarla con grande bramosia, girando e rigirando l'involucro plastificato tra le dita lunghe e sottili. Le sue unghie smaltate di un cupo color prugna risaltano con prepotenza sulla trasparenza della bustina conserva prove.

«È un accendino che ha fatto la storia, direi». Inizio a spiegarle a braccia conserte, «Si tratta di un tipo prodotto sin dagli anni cinquanta, modello Ronson Adonis MK1, un autentico pezzo di epoca. Incendio a parte, quell'accendino è enormemente rovinato come tu stessa potrai notare dagli innumerevoli graffi e qualche ammaccatura, quindi possiamo trarne la conclusione che non si tratti solo di un semplice pezzo d'antiquariato comprato chissà dove per scopi collezionistici, bensì che il suo proprietario ne faceva un più che frequente uso da più di cinquant'anni».

«Non potrebbe essere stata comprata così com'è adesso, graffi e ammaccature inclusi? Perché sostieni che quell'accendino sia stato usato dallo stesso proprietario per tutto questo tempo?»

«Riesci a immaginare quanti modelli di accendini simili a questo vengano venduti sui più disparati siti virtuali?... A bizzeffe, ma per un qualsiasi amante del collezionismo neppure un oggetto così consumato dall'uso e dal tempo sarebbe appetibile, inoltre facendo ricerche ho constatato che nessun tipo di accendino identico a quello rientra fra le foto ritraenti accendini a gas in vendita o comunque già accalappiati dai clienti. Per il tuo secondo interrogativo puoi risponderti da te solo se presti attenzione a quelle-».

«C. K. ... Che significano?».

Sorrido a quella sua rapida osservazione mettendo da parte la mia avversione nell'essere interrotto. C.K., due sole lettere appuntate, incise sulla parte inferiore dell'accendino.

«Sono propenso a credere si tratti di due iniziali di un nome e di un cognome».

«Relative al proprietario!», esclama Annie.

«O a un parente di quel qualcuno. L'incisione di iniziali su oggetti personali era una cosa molto frequente nel passato, oggi non lo fa quasi più nessuno».

«Sicuro! Un accendino risalente ad una cinquantina di anni fa che porta le iniziali del suo proprietario e che in seguito passa nelle mani di un altro».

«Io opterei per un figlio o un nipote, naturalmente prettamente maschi».

«Ovviamente perché possiede un accendino». Ribadisce con una nota sarcastica.

«Devi però ammettere che le probabilità sono maggiori». Osservo.

«Come vuoi... Questo significa che la firma del possibile colpevole dell'incendio è ora nelle nostre mani!».

«Mai saltare a delle conclusioni, però sì, se siamo così fortunati da avere due persone consanguinee e perciò con lo stesso cognome, potremmo indagare ad esempio sul possibile collegamento esistente tra le due lettere e l'identità di quel Benjamin e dell'ancora misterioso giardiniere».

«L'apicoltore?». Domanda incuriosita.

«Sì, è esatto, mi spiace se provi una certa... attrazione per quell'uomo....».

«Attrazione?! Sherlock, dove vuoi arrivare?». Hmm... Qualcuno comincia a surriscaldarsi.

«Non eri tu che lo guardavi facendogli gli occhi dolci?». Insisto tentando di mantenere un atteggiamento serio e distaccato.

«Io... No!». Esitazione? «Ma che dici! Senti, e tu allora? ... Chi era quello interessato alle sue api?»

«Appunto, api. Il mio interesse è puramente verso quegli insetti, eri tu quella interessata a fraternizzare col nemico».

«Nemico? Oh, mio Dio, Sherlock... Perché ce l'hai tanto con lui?»

«Per via di quella!». Punto il dito contro il mozzicone di sigaretta incriminata che ancora rimane sotto esame del mio telescopio digitale.

Annie volta il capo, confusa, muovendosi di un passo in avanti verso il piccolo tavolo rettangolare, per poi chinarsi sul quadrante dello strumento e osservarne curiosa l'immagine che vi è rappresentata. Osservo a sua volta lei, una bambina alle prese con un nuovo giocattolo, i capelli che le ricadono con onde scompigliate sulla schiena, di un rosso tendente al ramato e che alla luce fioca delle piccole due lampade poste ai lati del letto si fanno dorate. Dopo, sposta la sua attenzione sulla seconda sigaretta presa ore prima dal pacchetto di Benjamin e che dal mio rientro in camera ho lasciato lì vicino.

«Sembrano uguali». La sento mormorare riguardo al confronto tra quella e ciò che rimane invece dell'altra rinvenuta tra l'erba del giardino, e per il quale risultano essere assolutamente identiche.

«Lo sono». Affermo. «Sai, ho scritto una monografia su ben 243 tipi differenti di tabacco, dovresti leggerla».

«Quindi ciò ti induce a pensare che Benjamin sia in qualche modo invischiato nell'incendio». Ribatte prontamente dandomi ancora le spalle, e del tutto incurante del mio consiglio di lettura.

«Ne avrò la conferma dopo che avremo portato avanti le nostre ricerche sul suo nome per intero. A quello potresti pensarci tu, siete amici ormai». Ironizzo, causando in lei un repentino scatto che la fa voltare verso di me.

«"Mai saltare a conclusioni affrettate", eh?». Mi canzona. In breve si ritrova a cancellare del tutto la già ridotta distanza che intercorreva tra lei e la mia sedia, obbligandomi a guardare più su, verso i suoi occhi azzurri colmi di un'indecifrabile emozione.

Irritazione e risentimento misti a una bella dose di pura esasperazione non fanno che accentuare un ritratto nel complesso spassoso del suo viso che si va a poco a poco avvampando.

«Chi ti dice che non abbia semplicemente fumato la sua sigaretta mentre era in quei pressi, ma non per questo che sia stato lui ad appiccare il fuoco?»

«Ha un'amante», sputo fuori come niente.

Alla mia constatazione, Annie sbarra di colpo gli occhi per la sorpresa, lasciando le labbra leggermente dischiuse. Se ne resta in quella posizione solo il tempo necessario a poter riarmarsi di una nuova domanda.

«Questo da cosa lo deduci?». Chiede, abbassando lo sguardo verso un punto imprecisato del pavimento, facile segno che mi fa capire la gravità del suo imbarazzo a causa del suo più che evidente interesse per quell'uomo. «Non ho notato una fede quindi, a meno che non se la levi una volta uscito di casa, potrebbe darsi che non sia sposato...».

Quanto dev'essere riposante non essere me. Eppure, guardando questa ragazza, non riesco a darle colpe che non ha, almeno non quanto quell'idiota di Anderson, tanto per citarne uno. Sì, a lui lo farei presente molto volentieri e di sicuro non ne soffrirei affatto se venissi colpito da un eventuale colpo di coscienza.

Quello che Annie ha detto sulla mancanza di una fede nuziale sull'anulare di quel Benjamin è vero, ma lo è pure il sottile segno lasciato da quello stesso anello, più chiaro, in netto contrasto con la pelle scura, quella chiaramente frutto di lampade abbronzanti.

Chi prendiamo in giro? Semai dovesse capitarci di incontrare un inglese così abbronzato in questa stagione ci sarà solo una spiegazione.

Ma tornando a me, la famosa sottile striscia potrebbe voler intendere l'abitudine del ragazzo di fare le lampade con indosso la sua fede che viene poi levata via senza un apparente motivo al di fuori del tetto coniugale. Prendendo in considerazione l'incoerenza di un gesto simile in un lavoro come il suo, niente affatto faticoso o che comunque non comporta necessariamente il doversi sporcare le mani, l'infedeltà è la deduzione più plausibile.

Tengo a far osservare ad Annie queste spicciole osservazioni, notando la sua faccia addolcire i tratti prima corrucciati, fino a rilassarsi completamente. Pare essersi capacitata della questione, tanto da farle ammettere un disinteressato: «Non era il mio tipo» accompagnato da un'alzata di spalle di indifferenza.

«Ma davvero?». La canzono incrociando le braccia.

«Certo». Ribadisce. «Non vado matta per i palestrati, e poi, a dirla tutta, le api non sono tra gli insetti che prediligo». Dice, infine, portando distrattamente lo sguardo alla finestra aperta, rabbrividendo appena per via della brezza fredda proveniente dall'esterno. Inoltre tiene chiusi con una mano i due lembi del leggero trench che ha indosso. In automatico mi reco a chiudere le imposte.

«Non dovevi preoccuparti...». Balbetta di conseguenza Annie come a scusarsi.

«Avevo freddo anch'io», taglio corto.

Al breve momento di silenzio che ne segue, e a conferma di una Annie per nulla intenzionata a lasciarmi qui da solo, vedo la ragazza trascinarsi dietro una sedia recuperata da un angolino e venire a sedersi di fianco a me.

Nessuno dei due pensa ad aprir bocca, ma ancora una volta le parole della mia vicina sferzano l'aria per prime: «Un'indagine in un convento! Chi l'avrebbe mai detto».

«Già...». Confermo, tornando al mio PC.

«Hai mai creduto in Dio?».

La sua domanda mi lascia interdetto. «Credevo avessi capito cosa ne penso»

«Sì... Be', ecco, infatti intendevo se tu avessi sempre avuto lo stesso modo di vedere la cosa».

«Per quanto io ricordi, sì». Asserisco, deciso.

Ne segue un altro di quei silenzi, stavolta intriso di una certa pesantezza.

«A volte mi chiedo se ne valga davvero la pena». Riattacca poco dopo, fissando il piccolo crocefisso che sovrasta le nostre teste perché appeso in alto sulla parete frontale. Credo di sapere dove voglia andare a parare, ma neppure la mia lingua velenosa trova giusto portare avanti il discorso al posto suo. È ovvio che debba essere lei a volerlo fare. «Mi vergogno ad ammetterlo proprio in un luogo come questo, però... sì, insomma, so che c'è gente che sta peggio, ma mentirei se dicessi di non aver mai dubitato della sua presenza. L'ho persino odiato, incolpandolo di avermi tolto tutto a me più caro. Ho sempre continuato a ripetere a me stessa perché? È questo ciò che mi fa più rabbia... Non poter avere un perché valido alla loro morte.

Perché loro e perché proprio allora?

Ecco, forse commetto un errore madornale, ma mi riesce sempre più difficile credere in un essere superiore, caritatevole e buono che, tuttavia, raramente, è in grado di prevalere sul male».

Detto ciò, la ragazza si interrompe per affrettarsi a recuperare una piccola lacrima che si appresta a scorrerle lungo la guancia. Quello che accade in seguito non riesco in alcun modo a impedirlo. Il mio corpo, traditore, che sembra volersi fare beffe di me, rimane impedito, totalmente succube della macchia ramata che si abbatte dolcemente su di esso. Mi faccio, cioè, testimone passivo mentre permetto alla testa di Annie di ricadere a rallentatore sulla mia spalla sinistra, dove vi rimane poggiata leggermente senza metterci troppa pressione. In un certo senso, questo suo tentativo di rimanere in qualche modo distaccata da me non risulta funzionare al meglio, per via del - seppur lieve – contatto che riesce lo stesso a frastornarmi i sensi. E questo è un male.

Successivamente, dopo cioè il breve episodio mirato a inebetirmi, permetto a Annie di continuare questa sua sorta di confessione che appare a tutti gli effetti come una valvola di sfogo ai suoi drammi interiori; probabilmente la mia spalla contribuisce a darle un sostegno di qualche genere. 

«Ti sei mai chiesto perché nel mondo accade tutto questo, Sherlock? Perché la gente uccide?».

Inutile spiegare come questi suoi pochi quesiti mi lascino ancora una volta ostacolato nel pensare lucidamente, e so bene quanto io detesti non avere delle risposte.

Mi faccio, comunque sia, forza per sostenere adeguatamente il macigno di cui ogni singolo interrogativo sembra pesare: «Non credo di essere la persona più adatta a spiegarlo». Un sorriso spontaneo e autocritico nasce sulle mie labbra per quanto sto pensando di aggiungere. «Non ho una risposta a tutto, come vedi, e forse, neanche Dio ce ne ha una abbastanza valida. Il male che io vedo manifestarsi nelle forme più differenti rimarrà per sempre uno dei misteri più grandi su cui continuerò a interrogarmi e al contempo ad averci a che fare finché avrò vita. Vedi, io... Io cerco solo di dare un aiuto pragmatico laddove Dio – se ce n'è davvero uno – fallisce. Ecco, credo di pensarla così».

Ora, Annie solleva di poco la testa lievemente profumata di uno shampoo fruttato, ritrovandosi a pochi centimetri dal mio viso. Mi guarda attentamente in faccia, penetrandomi con le sue pupille che fanno su e giù come a voler imprimere ogni mia singola caratteristica, sfidando spavalda la sua timidezza. Mi riserba, inoltre, un grande e sincero sorriso. La mia risposta sembra aver sortito in lei un effetto benefico, può darsi e magari, alimentato ancora di più dalla mia spalla che ancora le concede quel contatto fisico non poi chissà quanto intimo, eppure particolarmente profondo e confidenziale.

A un tratto, un sonoro sbadiglio proveniente dalla mia seconda assistente, e che viene attutito ben presto perché coperto dalla sua mano, è l'ultima cosa che sento proferire dalle sue labbra, insieme a un sussurrato: «Grazie per quello che fai», e poi a un altro ancor meno distinto: «Non cambiare mai».

Si addormenta così, rannicchiata al mio fianco con la testa che preme ora completamente nell'incavo del mio collo. Il suo respiro che mi solletica la zona più esposta sotto il colletto aperto della mia camicia, e questa strana e nuova sensazione di calma unita al momento di stallo e all'atmosfera ovattata e soffusa, creata dalla fioca luce delle due lampade, mi fanno sentire leggero come una nuvola sospesa in aria rispetto a tutto ciò che mi sta intorno.

Mi inebrio, nei minuti a venire, di tanta irreale spensieratezza, abbandonando persino il rumore caotico che assidua nella mia mente, ma solo fin quando la mia fredda ragione non riacquista il sopravvento.

Allora, senza indugiare oltre, mi protendo verso la ragazza facendo passare il mio braccio sinistro a cingerle la schiena, quindi mi servo poi della destra per afferrarle le gambe. Mi faccio leva sui miei arti e con uno slancio secco mi rimetto in piedi. Un mugugno incomprensibile viene fuori dalle sue labbra, ma per il resto il sonno ha preso la meglio. Mi faccio strada verso il letto vicino, adagiandola supina sulle coperte ancora intatte. La guardo adesso come se la vedessi per la prima volta. Indossa un paio di jeans, scarpe ginniche e una felpa che non le ho mai visto prima; è stropicciata in più punti, perciò deduco l'abbia usata per dormire, o almeno cercare di farlo, prima di salire da me. I suoi occhiali le pendono appena da un lato così decido di levarglieli e spostarli sul comò, quindi mi reco verso il piccolo armadio di legno a recuperare il mio cappotto. Nel coprire quel corpo minuto tocco appena la pelle liscia e bianca come latte del suo viso.

Non so perché penso e faccio tutto questo. Sta di fatto che una volta averle "rimboccato" alla bell'e meglio il mio cappotto, torno alla mia sedia a continuare la mia veglia.   

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