- Ore 20.03
- Sherlock Pov
«Sì, sì ci sto provando Sherlock!».
«Fa che sia un caso interessante, John, ti prego, abbiamo avuto solo clienti noiosi oggi», quasi lo supplico, sdraiato sul divano mentre trovo sollievo dai tre cerotti alla nicotina che ho applicato sul mio braccio sinistro.
«Ma dico, abbiamo appena risolto un caso già abbastanza assurdo, vuoi già trovarne un altro? Prendiamoci uno o due giorni di pausa fino a che non troviamo un cliente interessante», subito cerca di contraddirmi John dall'altro capo del salotto. Fortunatamente non sono del suo stesso parere.
«Stai scherzando? John, tu non immagini minimamente che cosa succeda nella mia mente quando non risolvo un caso. C'è il caos più totale, mille e mille pensieri che si sovrappongono l'un l'altro. Qui dentro è tutto come un treno che viaggia alla velocità della luce e tu mi dici di riposarmi? Riposare è noioso, anche il semplice fatto di respirare è noioso, ma voi gente normale questo non riuscite proprio a capirlo. Coraggio, deve pur esserci qualcosa!».
Lamento tutto il mio disappunto all'uomo, il quale riprende sbuffando a riarmeggiare con la tastiera del suo portatile. Alle volte mi chiedo sul serio come mai sia così complicato riuscire a capirmi. D'altronde, sono solo un sociopatico ad alta iperattività, non un alieno venuto da un altro pianeta.
«Dovresti andare su a chiederle scusa, comunque», mi chiede tutt'a un tratto John interrompendo il corso irrefrenabile dei miei pensieri.
«Di che diamine stai parlando?», domando accigliato. In tutta risposta, l'uomo solleva su di me un cipiglio rassegnato.
«Non mi dire... Te ne sto parlando da stamattina, Sherlock. La nuova inquilina, lo hai già rimosso? ... Quella povera ragazza che tu hai spaventato a morte soltanto perché ti annoiavi. Devi chiederle scusa», insiste ancora, gravando maggiormente sulla mia noia. Nulla può tuttavia contro il mio umore più grigio di questo cielo che si abbatte oggi su Londra, carico di nuvole gonfie.
Decido di non starlo più a sentire rigirandomi anzi dall'altra parte del divano. «Trovami un caso, John, e fa presto», penso però lo stesso a ricordagli.
«Potrebbe piacerti, magari...».
«John», lo rimbecco con voce soffocata dal cuscino su cui nascondo seccato la faccia.
«Una volta soltanto non potresti dirmi che ne trovi carina qualcuna? Davvero non guardi mai nient'altro di una donna se non il profumo che usa, il suo modo di curarsi le unghie o se abbia un cane o un gatto? Ribadisco, lei potrebbe piac-».
«JOHN!». Stavolta mi rimetto in piedi tanto repentinamente da far saltare all'aria dallo spavento ex medico militare e padrona di casa insieme. La signora Hudson appare sulla soglia come da copione, fra le mani venose l'ennesimo vassoio di tè bollente da me precedentemente richiesto. Il tè, precisamente Black, dal sapore corposo e deciso, è forse una delle poche sostante commestibili in grado di stimolare la mia mente ultra pretenziosa.
«Cucù! Cielo, Sherlock, ma perché non fa altro che urlare e urlare... Ecco il vostro tè ma senza biscotti».
Fulmino prepotentemente la donna con lo sguardo. «I biscotti sono la parte essenziale, signora Hudson».
«Bè, per una volta potrebbe farne a meno, dopotutto, vedo che a dolcezza è già messo piuttosto bene. Ricordate, inoltre, tutti e due che non sono la vostra personale governante, perciò ogni tanto cercate di mettere in ordine questo posto», getta pareri gratuiti battendo volutamente un po' più forte del dovuto l'intero servizio di porcellana sul ripiano della scrivania. John, assunta una finta aria innocente, corre subito a riempire la sua tazza.
Nel frangente però, tanto per accalappiarsi la complicità della padrona di casa, John Watson si diletta in una magistrale interpretazione del bravo quanto impiccione figlioletto assennato e ubbidiente. «Signora Hudson, glielo dica anche lei di chiedere scusa alla nuova arrivata».
Alzo gli occhi al cielo, cominciando a fare nervosamente su e giù per la stanza.
«Eccome se deve, giovanotto! Come prima impressione non è stata una delle migliori. Povera ragazza... Quella pistola sarà la prima cosa che ricorderà del vostro primo incontro».
A questo punto penso di averne pieno le tasche. «Sapete che vi dico? ... Esco! Ho bisogno d'aria. Signora Hudson, non si preoccupi dei biscotti, e tu John, cerca di trovare qualcosa di utile durante la mia assenza», infurio così tutta quanta la mia insofferenza, affrettandomi a recuperare cappotto e sciarpa.
«Ma... Sherlock! E va bene vai... Signora Hudson, lo conosce, è peggio di un bambino».
«Oh, non lo dica a me, sua madre dovrà spiegarmi molte cose in effetti».
Lascio i due ancora parlottanti tra di loro ed esco dall'appartamento.
Nell'attimo in cui mi ritrovo ad armeggiare nervosamente col bavero del mio cappotto, vado scontrandomi con quello che pare una sorta di involtino gigante, ma che ad una seconda osservazione scopro trattarsi della nuova inquilina del secondo piano, quella imbacuccata di tutto punto e per nulla dissimile da un esquimese: cappotto pesante, sciarpa di lana, cappello e guanti. Pivellina, posso desumere, oltre che esageratamente freddolosa.
«Ma che... ? Oh, scusi!», va farfugliando quella alla mia improvvisa comparsa, quindi si adopera a sparire dalla mia visuale ma non abbastanza in fretta da non permettermi di intravedere quel suo viso timoroso imporporarsi appena.
- Annie Pov
Accidenti a me. Sarei dovuta andarci cauta, ma a quanto pare, il rischio di ritrovarmelo davanti ogni qual volta mi vedrò costretta a scendere le scale resterà pur sempre inevitabile.
Percorro anche gli ultimi gradini incespicando appena per la fretta, finché, raggiunto il pian terreno, vado a fiondarmi contro l'ingresso spalancandolo con incredibile foga. La via umida, frizzante nel suo dinamico via vai di gente e di auto mi offre subito varie opportunità di fuga contro il mio vicino di casa che, so, essere sul punto di emergere dalla soglia da un momento all'altro. Portando la mia piccola figura a conformarsi insieme a tutte le altre che noto passarmi vicino, spero vivamente di riuscire nell'intento di confondere le mie tracce. Così, molto simile a una timida formichina che si accinge a incamminarsi tra giganti, mi vado immediatamente inserendo tra quei volti sconosciuti lasciando al caso il compito di guidarmi verso una qualsiasi direzione, ma che abbia come precisa meta soltanto una: pizza.
Proprio non so come mi sia venuto in mente di uscire di casa con un simile tempaccio. La fredda e pungente aria serale, infatti, quasi mi convince a tornarmene indietro, ripercorrere le scale – rischiando ancora una volta di incappare in Sherlock Holmes – e trascorrere l'ennesimo fine giornata accanto a uno scoppiettante fuocherello, una tazza di latte caldo e poi via di filata a letto, tanto per far fronte a una nuova mattinata all'insegna di chiassosi clienti e colazioni da servire.
Tutto molto appropriato se soltanto l'immagine allettante di una pizza fumante non mi apparisse come un'idea di gran lunga preferibile.
È questa fame morbosa di cibo italiano che adesso, senza sapere come, mi lascia sfidare tanto coraggiosamente l'asfalto fresco di pioggia e perciò scivoloso, sorvolando persino oltre quella che è la più grande pecca riguardante proprio il mio senso dell'orientamento. Un'immensa città per lo più sconosciuta come Londra di certo non aiuta. Fortunatamente, la tecnologia mi giunge in soccorso: Google maps mi ritorna fedele come in ogni occasione in cui, smarrita e persa chissà dove, da perfetta incapace quale sono, sento il bisogno di chiedere indicazioni.
Percorro il pressoché lungo marciapiede ospitante una schiera di altri ingressi abitativi tutti simili fra di loro in quello che è lo stile preponderante di tale via, stando ben attenta a guardarmi intanto le spalle nel caso in cui un certo spilungone riccioluto e incappottato abbia deciso di restarmi col fiato sul collo.
Baker Street, tra le vie più famose nel quartiere di Marylebone, come già constatato mediante un precedente ricerca virtuale, vanta di innumerevoli luoghi dediti all'intrattenimento gastronomico e non solo. Londra è, difatti, un tripudio incredibilmente vasto di culture, etnie, colori e odori, causa perciò della nascita sempre più avanzata di miriadi di locali commerciali tra i generi più disparati. Particolarmente ricca di punti di ristoro risulta esserne Blandford Street, via lungo la quale ristoranti, pub, caffetterie e tanto altro, si susseguono in larghissima quantità.
È proprio lì che adesso mi trovo diretta, cellulare stretto in una mano, pronto a mostrarmi, in maniera piuttosto esaustiva, il giusto percorso da intraprendere.
Mi basta procedere per circa cinque minuti buoni in direzione sud verso Crowford Street, e poi svoltare a sinistra una volta raggiunto lo specifico indirizzo a caratteri neri su sfondo bianco. Continuo a tentoni confondendomi tra i passanti, curiosa nell'osservare tutto ciò che mi capiti sotto gli occhi. Un'infinità di titoli tutti diversi capeggiano al di sopra di vetrine allestite, colorate, visitate con grande affluenza di gente, ed io che passo in rassegna ognuna di esse alla ricerca di qualcosa che mi faccia decidere di unirmi alla folla.
Poi, posta fra quello che pare un ristorante arabo con tanto di insegna dalle peculiari rifiniture rosse e dorate, ed un altro tutto vegetariano – quest'ultimo tinteggiato di un bel verde prato a indicarne la scelta culinaria – una scritta bianca che tanto semplicemente riporta "Da Angelo" viene inoltre impreziosita da una piccola bandiera tricolore. La mia bandiera, simbolo di un'origine che mi appartiene perché incisa in un cuore, ora palpitante di emozione.
Non sto a riflettere oltre che già mi accingo a varcare la soglia.
Il posto, caldo e accogliente, mi dà il benvenuto tramite un omone dagli occhi gentili e simpatici che, affabilmente come anche tanto animatamente, quasi come avesse riconosciuto in me una sua ipotetica compatriota, mi guida ad accomodarmi presso un tavolino di fianco ad una larga vetrata.
Ordino una pizza ai wurstel insieme a una coca cola, e, in men che non si dica, quella che sembra una squisita pizza napoletana mi viene servita in aggiunta a una candela accesa per mano di un giovanissimo cameriere. Dunque, seduta a questo tavolino, comincio ad addentare con vorace appetito un trancio filante di mozzarella mentre una semplice fiammella tremolante mi è di unica compagnia.
Vado avanti così, nonostante il disagio nel sentirmi un po' sola. Osservo intanto fuori, attraverso la vetrata per metà appannata di umidità; il flusso di gente pare essere inarrestabile, un fiume che scorre senza sosta lungo tutto il marciapiede.
Tutt'a un tratto però, chiusa in questa mia contemplazione, scorgo una sagoma scura e dall'andatura controllata sopraggiungere dalla parte opposta della via. Un uomo certamente e che pare guardi proprio me. Ciononostante, lo vedo fin da subito sparire dalla mia visuale, inducendomi a lasciarmi andare a un sospiro di puro sollievo.
Solo qualcuno a lui somigliante, mi dico.
Riprendo in mano coltello e forchetta giusto per tornare alla mia pizza quasi finita, quando, ancora, qualcosa mi induce a rimettermi in guardia.
Una voce, soltanto una voce in mezzo al fitto mormorio di clienti presenti nel ristorante, ma abbastanza familiare da rimettermi in allarme, così tanto da convincermi a portare subito i miei occhi a cercarne il suddetto proprietario.
Come da conferma, distolgo immediatamente lo sguardo per tuffarmi una seconda volta sulla mia pizza, in un patetico quanto codardo tentativo di celare la mia presenza.
«Ehi, Sherlock, ben tornato. Qual buon vento!», si esprime intanto allegro e vivace il possente proprietario italiano alla sola vista del giovane appena apparso sulla soglia del piccolo locale. Dalla foga di quel saluto sembrerebbe trattarsi del suo cliente prediletto.
Se solo sapesse della pistola e di quel suo lato folle e, ovviamente, pericoloso non avrebbe acconsentito a farlo entrare tanto facilmente.
«Giusto in tempo! Si è appena liberato questo tavolo, puoi accomodarti», lo informa dunque ancora l'uomo panciuto dall'altra parte del locale. Il secondo, tuttavia, pare darsi campo libero, fin troppo da sentirsi totalmente sovrano di sedersi dove più gli pare e piace, a scapito della postazione indicatagli dal suo interlocutore.
Non oso guardarlo mentre lo immagino venirmi incontro, e fortunatamente gli do le spalle, un pezzo di pizza che tengo librato in aria insieme a un respiro stupidamente trattenuto. Lo avverto all'improvviso vicino, una ventata di aria fresca profumata, che mi sorpassa diretto verso un tavolino poco distante dalla mia postazione.
Nonostante questo mio bel tentativo riuscito di eclissarmi alla sua attenzione, mi rendo conto ben presto di non potervi continuare all'infinito. Così, il menu, unico strumento a mia più immediata disposizione in grado di garantirmi un improvvisato escamotage, fa sì di portare avanti questa mia operazione atta a curiosare di soppiatto lo strambo vicino.
Nascosta al di qua del sottile libretto plastificato, lo sbircio togliersi di dosso sciarpa e cappotto, con movimenti automatici e precisi, per poi accomodarsi tutto solo accanto alla sua vetrata gettando inoltre a intervalli irregolari occhiate al di fuori di essa.
Riecco ancora una volta l'omone che si rivolge a Sherlock dicendogli: «Allora, amico mio, il solito? Ricorda, tutto quello che vuoi, offre la casa».
Mi scopro a pensare un beato lui. Non riesco tuttavia ad udire la risposta dell'altro.
«Sei sicuro di non desiderare nient'altro che il mio tavolo?», gli si rivolge nuovamente l'uomo. La visuale mi viene ingombrata interamente dall'italiano.
Resto in ascolto.
«No, ti ringrazio, va bene così», afferma Sherlock Holmes con tono sorprendentemente gentile e sorridente.
Chi altri si recherebbe in un ristorante per non bere neppure un bicchier d'acqua? Mi chiedo.
Dopodiché, rimasto completamente solo, comincia ad armeggiare col suo cellulare.
Dal canto mio, menù a farmi da barriera, continuo indisturbata ad addentare la mia pizza, mentre il mio vicino di casa se ne sta ancora lì con solo un tavolo che ci divide, a osservare il piccolo schermo illuminato. Ma solo per poco, poiché decide di rimetterselo nella tasca interna della sua giacca scura assumendo un'espressione stizzita e delusa.
Non capisco il motivo per cui dovrei preoccuparmene, ma non posso non ammettere che mi faccia una certa pena vederlo lì, solo e, per qualche ragione, amareggiato. Se però mi fermo a pensare a quanto accaduto questa mattina, la voglia naturale di scappare il più lontano possibile da lui si fa inavvertitamente più forte.
Intenzionata a terminare comunque la mia cena, oltre che a non farmi scoprire, non mi accorgo del ragazzo smilzo e biondo che, arrivato tanto silenziosamente al mio fianco, mi domanda se preferisco dell'altro. Sobbalzo appena eppure quel tanto che basta a mandare all'aria barriera cartacea ed ogni mio più buon proposito di restarmene nascosta.
«Ehm... Grazie, ma va bene così», mi trovo costretta a rispondergli esprimendomi in un sorriso per nulla sincero. Nell'attimo che intercorre il mio più totale imbarazzo, un paio di occhi glaciali vedo inchiodati dritti nei miei, ed è così che un violento cambiamento di temperatura comincia a farsi strada sia dentro che fuori. Caldo cocente si abbatte tutt'intorno. Fiamme brucianti sento avvamparmi la faccia pulsante che immagino già tremendamente rossa e sudata.
Vado per questo spezzando un contatto visivo tanto tremendamente nocivo, aggiungendo un frettoloso: «Il conto, per favore», riferito al giovane cameriere, questo indubbiamente basito dalla mia, forse, eccessiva reazione.
Dopodiché, privata di ogni mia qualsivoglia difesa, decido di tuffarmi con la testa nella mia borsa fingendo, piuttosto goffamente, di cercarvi qualcosa; solo una piccola distrazione atta ad attendere il ritorno del ragazzo insieme alla dovuta somma da pagare.
Pochi secondi ed ecco che già una banconota finisce dritta sul bancone del locale, mentre ricevo lo scontrino in aggiunta al resto da un più che sorridente addetto alla cassa, e altrettanto in fretta mi dileguo dal quel posto, a mio dire, soffocante.
Non aspetto neppure di degnare di un'ultima attenzione il diretto responsabile di tanto mio subbuglio interiore, che già mi ritrovo all'esterno, grata di poter godere di aria fresca ristoratrice. Mi rimetto dunque in marcia. Destinazione: 221B di Baker Street. Inspiro a pieni polmoni lasciando il mio viso – dalle sembianze di un pomodoro gigante – libero di sbollentarsi, rinunciando persino a berretto e sciarpa di lana. Quindi concedo alla mia sola memoria il compito di guidarmi pur senza il prezioso ausilio virtuale del navigatore – avendo precedentemente constatato la semplicità del percorso.
Immersa come sono nel traffico di esseri umani, tra i quali capeggia una moltitudine immane di turisti, una voce, in mezzo a tutte le altre, pensa a staccarsi. Un persistente Ehi viene urlato a gran tono da qualche parte dietro di me, finché qualcos'altro di più tangibile sopraggiunge ad avvinghiarmi a sé per un braccio e a obbligarmi a voltarmi. Raggelante è la sorpresa nel ritrovarmi ancora una volta il viso pallido e circospetto dell'uomo dagli occhi arcigni, a pochi centimetri dalla mia testa. Egli, infatti, s'impunta testardo oltre l'incomprensibile mettendomi addosso una paura tremenda.
Perché mi guarda in quel modo?
Perché non dice una parola?
Cos'avrà che non va questo ragazzo?
«Non crede di aver dimenticato qualcosa?», chiede quasi retoricamente sfoggiando inoltre un colpevole sorriso sollevando appena un angolo della bocca. La mano sinistra, che va insinuandosi nella tasca del cappotto, ci rimane per qualche secondo ma senza riemergerne del tutto.
Una lampadina sento illuminarsi nel cervello, e che va proiettando dentro di esso l'immagine fresca di giornata di un uomo in pigiama e vestaglia, troppo occupato a prendere a proiettili la parete del suo polveroso salotto.
Pistola, grande abbastanza per starci in una tasca di un così particolare cappotto, unico oggetto prediletto dal suddetto folle per mettermi paura una seconda volta.
Dopotutto, sembra lo faccia apposta, e per un maniaco come tale mi pare rientri nella sua normalità.
Opto dunque per la fuoriuscita della stessa pistola già adocchiata in mattinata, e non perdo altro tempo per darmi alla fuga.
Distratto intanto da quel suo scovare pistole a caso, Holmes perde definitivamente presa dal mio giubbotto, alzando con scatto fulmineo il capo corvino.
Mi allontano dal giovane con fare frettoloso, per quel che una calca di gente in costante via vai possa permettermi di fare. Balbetto poco educati "Mi scusi" e "Permesso" ai fin troppi corpi che trovo a otturarmi il passaggio, allo stesso tempo gettando occhiate preoccupate al mio seguito. Ciononostante, continuo imperturbabile il mio eccedere a tratti rallentato, proseguendo dritto davanti a me.
Per un attimo il rombo di una motocicletta sfrecciante mi dilania i timpani, momento cruciale anche a causa dell'ombra nefasta che vedo accanirsi su di me e sbarrarmi la strada. Vengo obbligata a fermarmi con una brusca frenata.
«Come... ?», mi chiedo trafelata come mai prima d'ora dinanzi al muro fatto di carne e ossa contro cui manca davvero poco abbia una colluttazione.
«Il marciapiedi qui di fronte è decisamente meno affollato», spiega l'uomo in sciarpa e cappotto con sua rigida saccenza, indicando quel suo piccolo trucchetto appena attuato.
Certamente non può essersi librato in aria e sovrastato tutti gli altri esseri umani qui presenti.
Mi limito semplicemente a osservare la via. «Oh, vedo». Un lieve sorriso arriva tutt'a un tratto a incresparmi le labbra a seconda dell'idea sempre più concreta che mi frulla ora per la testa. Un'occhiata fugace verso il semaforo addetto ai pedoni, quello colorato di un bel verde brillante ma, che immagino, ancora per poco.
Afferro al volo questa nuova occasione mettendo in azione le gambe. Scatto via così come una qualsiasi preda farebbe dal suo cacciatore, incurante di sguardi e mormorii scorbutici di un paio di ragazze intente come me ad attraversare la strada.
Devo essere parecchio sconvolta se una della due mi rinfaccia persino una poco carina smorfia di scherno, ma non m'importa, perché pochi secondi dopo riecco il traffico di mezzi di trasporto cominciare a rifluire, lasciando a Sherlock Holmes più alcuna possibilità di attraversamento. Clacson di automobili affatto inclini a concedere precedenza costringono l'uomo a tirarsi indietro.
Elargisco dunque al suddetto dall'altra parte della via un muto cenno di pura strafottenza, sinceramente sollevata per questo mio, spero duraturo, vantaggio appena guadagnato. Riprendo sin da subito con la fuga, intenzionata più che mai a scappare dal pericoloso vicino di casa.
Vado avanti così per interi minuti apparentemente lunghi, tant'è che a ogni mio passo paiono far accrescere di volta in volta la breve distanza che ancora mi separa dal mio appartamento.
Mi lascio dietro ancora un paio di semafori affollati e attraversamenti pedonali, e poi di nuovo, tanta di quella vita pulsante e contagiosa di cui ogni singolo angolo londinese sembra essere impregnata.
Sempre più spesso mi chiedo sul serio se io, semplice ragazza giunta qui a Londra da un paese sperduto dell'Italia, sarei mai capace di sopportarne tanta dinamicità e confusione allo stesso tempo. Non una risposta mi giunge a tale pressante dilemma, al contrario di un violento strattone che m'induce a lasciarmi risucchiare da qualche parte in un vicolo stretto e appartato.
Frustrata da tutto questo continuo sballottare, cerco subito libertà di movimento urlando e scalciando furiosamente. «Lasciami! Lasciami!!!».
«Sarà fatto».
Il proprietario di quell'ormai familiare voce cavernosa mi alita vicino – puro velluto per le mie orecchie – rimuovendo di punto in bianco le sue dita arpionanti come artigli affilati.
Ed è in questo stesso forsennato momento che, a causa di un lieve sbilanciamento dato dalle mie gambe scalpitanti a voto, l'equilibrio viene definitivamente meno, facendo perciò ripiombare un'altra volta le mani del giovane, forti e dalla presa salda, ad afferrarmi per la vita, e permettermi così di scampare a una bella botta dolorosa che altrimenti mi sarebbe toccata. A questo punto, non so se essergli grata oppure no, dopotutto, se non mi avesse braccata con una pistola in tasca per le vie sovraffollate di Londra non avrei mai neppure rischiato di finire dritta col sedere a terra.
«Direi che sia il momento di rialzarsi, no?».
Di nuovo, tali parole pronunciate in tono cupo e incredibilmente profondo mi spronano a rimettermi in allerta. Con mio grande stupore però, scopro un'inaspettata gentilezza unita a un tocco delicato che preme sulla mia schiena, quando Sherlock Holmes aiuta a rimettermi in piedi mediante una spintarella decisa ed efficace.
Non poco è l'imbarazzo che accompagna questo nuovo momento, ma il timore verso quest'uomo non accenna ad abbandonarmi. Un mix di contrastanti emozioni m'investe senza darmi possibilità di decidere realmente da che parte sottostare e, in aggiunta, un silenzio assordante ricopre il tutto a mo' di una pesante cappa sulle nostre due teste.
«Cosa vuole da me?» La domanda mi sfugge senza più alcun controllo, esponendola mentre metto due passi all'indietro. Il giovane dal suo canto, alto e impettito nella sua aitante figura, si esprime in null'altro che un'occhiata sottile, algida, tanto simile a quello di uno psicopatico della peggior specie.
Ancora, vengo indotta a scappare dalle sue infide grinfie, ma un gesto fulmineo mi riporta nuovamente all'attenti: la mano pallida e affusolata scattata a rintanarsi all'interno della tasca di quel lungo ed eccentrico cappotto, va ad impugnare qualcosa che di lì a poco, potrei scommetterci, andrà a sfoderare contro la povera sottoscritta.
Simile a una molla, balzo ulteriormente all'indietro, avendo ormai chiara la sua già precedente intenzione.
«No! Non lo faccia, la prego!».
Sherlock Holmes mi osserva tuttavia in atteggiamento oltremodo curioso, come se a tutti gli effetti avesse davanti un buffone in tutina colorata con tanto di tenda e naso rosso oltre che una recitazione scadente.
Nonostante l'incomprensibile espressione del giovane, non demordo alla vista della mano già quasi del tutto fuori dalla tasca. Un urlo vado già diffondendo per tutto lo stretto vicolo, accompagnato da un tremante e molto vicino a un pianto isterico: «La scongiuro, non mi faccia del male!».
Il cuore, se possibile, pompante tre volte di più del normale, minaccia di uscirmi dal petto mentre il cervello manda impulsi ai miei arti che tuttavia non arrivano.
La paralisi m'investe per intero, obbligando a restarmene ferma, impossibilitata a una più che dovuta fuga. Invece, con gli occhi chiusi e le mani strette a pugno attendo e attendo, allorché un aroma fortemente speziato – decisamente afrodisiaco – mi giunge a riempire le narici. Mi dico sia colpa del vento e di un qualche profumo trasportato nell'aria. Un uomo – quasi certamente – con un certo buon gusto nella scelta della giusta profumazione da indossare. Questo, finché mi accorgo di quanto in realtà vicino debba trovarsi l'uomo in questione.
Molto vicino, troppo.
Spalanco gli occhi a Sherlock Holmes, il quale, a soli due passi da me, brandisce in tutta nonchalance il tutto fuorché misterioso oggetto colpevole di tanta mia assurda apprensione.
«Ehi, questa è mia!», starnazzo mutando fin troppo in fretta il mio umore e strappandogli di mano altrettanto veloce la piccola agenda tascabile di mia proprietà.
Il ragazzo volgendomi una maschera dipinta di tanta imperturbabilità come pure di un bel po' di noia, alza i tacchi per poi decidere di voltarmi le spalle, non prima però di leggermi nella mente e rispondere a uno fra i miei più pressanti interrogativi, «Le è scivolata via dalla borsa mentre era troppo indaffarata a celare la sua presenza dietro quel menù».
Un irrigidimento istantaneo mi coglie adesso, permettendomi di riavvertire quella fiamma rovente farsi strada dalla pianta dei piedi fin su alla cima della mia chioma già di per sé fulva. Vergogna, insieme a un istinto sempre più crescente di sparire e riavvolgere il nastro del tempo per mutare il suo corso. Vorrei non essere mai uscita di casa, tanto per cominciare.
I passi dell'uomo, nel frattempo rimessosi in moto, riecheggiano a contatto dell'asfalto scivoloso, lasciandomi qui, immobile, senza riuscire a pronunciare parole per lo meno connesse tra di loro o più semplicemente atte a ringraziare il mio vicino di casa "salvatore di agende tascabili".
Mi è concessa la sola panoramica del suo lungo cappotto che, fluttuante al suo seguito, ne conferisce un ancor maggiore fascino, ma solo per poco, data la sua imminente scomparsa dal vicolo.
Rimasta sola, agenda premuta lungo il fianco, mi sorprendo a sorridere. Sorrido alla maniera di un'ebete, una perfetta idiota come non lo sono mai stata prima.
Adocchio la mia agenda, dalla copertina multicolor, ma solo per poter scaricare su di essa tutta quanta l'umiliazione da me subita. C'è mancato davvero poco che mandassi alla forca un perfetto sconosciuto e tutto solo a causa di un'invisibile pistola che la mia mente vigliacca ha voluto che immaginassi.
Chiusa in tali scomodi pensieri, un gruppetto di amici schiamazzanti si fa strada verso di me, allorché decido di rimettermi in marcia, stavolta intenzionata più che mai a tornarmene nella sicurezza confortante delle mie quattro mura domestiche, e nascondermi poi sotto le coperte pronta a smaltire in solitudine lo sfortunato quanto oltremodo imbarazzante equivoco.
Riemersa alla vita frenetica, mi trascino a fatica, come prosciugata da ogni mia ultima energia, mischiando la mia minuta figura al contesto generale saturo di luci artificiali, chiacchiericcio di gente, black cab continuamente ingombri di clienti bisognosi di passaggi o di semplici tour guidati, e, ancora, suoni tra cui vere e proprie musichette orecchiabili che sento vibrare allegre nelle orecchie. Una in particolar modo vi spicca reclamando la mia piena attenzione: un motivetto di note soavi e sempre più ravvicinato, che scopro provenire da un esiguo pubblico andatosi a creare poco più avanti di questo stesso marciapiede.
Mi faccio strada nel mezzo per meglio assistere a tale bravura musicale. Le dita lunghe, agili ed esperte, sfiorano delicate, eppure allo stesso tempo così prorompenti di sentimento, i tasti bianchi e neri di quella piccola tastiera. L'incanto è tutto ciò che ne deriva, ed io, spettatrice non così tanto passiva, ascolto e ripeto fra me e me la dolce e complessa melodia partorita tanto magistralmente dall'uomo dalla barba ingrigita e gli occhi spenti. Nonostante la sua musica fluisca dolce, puro incantesimo per chiunque l'ascolti, gli occhi dell'uomo se ne restano cupi, custodi di un'anima sofferente e silente di mali che neppure uno strumento creatore di emozioni, belle o meno che siano, permettono di dissolvere.
Non del tutto, mi dico, perché la musica alle volte può salvare delle vite e, forse, quest'uomo dalla vita irrimediabilmente segnata dai drammi della miseria può riuscire a trarne conforto. Conforto che si riduce a niente più di una manciata di spiccioli racimolati grazie alla gente che rimane ad ascoltarlo ammaliata.
Perciò, sì, la musica ci fa andare avanti, nel mio caso tuttavia, null'altro che un vuoto crudele di vite spezzate per sempre m'induce a ricordare.
Riemergo dalla cattiva spirale di memorie, affrettandomi a recuperare un paio di pound dal mio portafoglio. Decido di adoperarmi per qualcosa di buono seguendo l'esempio dei molti qui presenti: un esiguo contributo atto a regalare un'ennesima speranza, che immagino tramutarsi poi in un pasto caldo per far fronte alla difficile sopravvivenza dell'uomo pianista.
Dopo aver fatto dunque finire la piccola moneta nella custodia lasciata aperta appositamente per il suo elemosinare, lascio indietro l'anziano barbone insieme alla dolce melodia che tanto sa di un amore trovato e destinato a durare nel tempo. Esattamente come introduce il titolo da me riconosciuto, un fiume di limpide emozioni continuerà a scorrere irrefrenabile dentro l'anima dell'amante decantata.
In breve, la scia di note, portavoce di emozione e sentimento, si riduce notevolmente di tono man mano che la breve distanza verso casa si va accorciando fino ad azzerarsi del tutto.
Il 221B mi si figura davanti, apro la porta d'ingresso e respiro l'odore ormai familiare della mia nuova casa.
A quanto pare la signora Hudson ha cucinato qualcosa di dolce, l'ambiente è impregnato di un profumo decisamente invitante, e quasi come avesse avvertito la mia presenza, ella stessa appare ad un tratto sulla soglia del suo appartamento.
«Ah, buonasera cara! Ti va di entrare a mangiare dei biscotti, li ho appena sfornati, sono caldi», m'invita accomodante la donna, la mano destra ricoperta da un guantone a fiori gialli e bianchi.
«Se proprio insiste, accetto», acconsento con un riconoscente sorriso.
Accedo così nella piccola cucina impregnata di odori che spaziano dal cioccolato al limone, un lieve sentore di arancia e, chissà, zenzero insieme a una spolverata di zucchero a velo.
Tutto questo mi fa venir voglia di dilettarmi nella preparazione di dolci.
Mentre mi porto a vagare lungo tutti i numerosi ingredienti ancora allineati su di un piano di lavoro, occupato ulteriormente da ciotole e barattoli, blocco lo scorrere di tutti i cinque sensi percettivi non appena scorgo la presenza dell'uomo riccioluto e dalla carnagione cadaverica rincantucciato su di una sedia pieghevole, nell'innocente atto di sgranocchiare un biscotto al cioccolato. Ha l'aria rilassata, direi quasi da bambino. In un certo senso mi fa tenerezza con quel biscotto in mano.
Non posso credere di averlo pensato.
«Ehm... Salve...», mi ritrovo più che mai timida ed esitante, così tanto da distogliere fin da subito lo sguardo dal giovane, il quale pare non avere affatto voglia di riavere a che fare con una come me. Il suo sguardo risulta essere assente e lontano chissà dove.
Mi volto a rifugiarmi sul viso rugoso ma abbellito da un leggerissimo strato di make up dell'allegra Martha Hudson, rivolgendole un maldestro e balbettante: «Non sapevo avesse ospiti, probabilmente sono di troppo...».
«Oh, no, tesoro! Non ti permetto di pensarlo neanche. Perché non vai ad accomodarti accanto a Sherlock? Sai, stamattina non ha dato proprio una bella impressione di sé con quella pistola in mano, ma sono fiduciosa che diventerete buoni amici!», pensa ad allietare con quanta dirompente gioia la signora Hudson, simile a una bambina la mattina di Natale.
Dal suo canto, l'enigmatico Sherlock Holmes ancora non accenna a dare segni di vita, standosene lì a fissare il vuoto, finché con uno scatto fulmineo sorprende me e padrona di casa. Mi si avvicina dunque con fare sicuro e penetrante, dandomi ancora la possibilità di riavvertire il suo buono e marcato profumo.
«Buonanotte», augura dunque sbrigativo. Poi, un ultimo cenno rivolto all'anziana signora, per vederlo infine superarmi in un alito di vento e dileguarsi di gran fretta.
Nella stanza l'imbarazzo del silenzio giunge a ricoprire il tutto mentre la signora Hudson mi guarda per un attimo confusa e, so anche bene, carica di domande da pormi, allorché senza neppure chiederle il permesso, mi siedo dove un attimo fa c'era Sherlock Holmes e aspetto che sia lei a parlare per prima.
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