Cap 24
«La cena sarà pronta tra poco», ribatte Rossella, e mi guarda con quell'espressione di chi la sa lunga, che mi fa tanto arrabbiare.
Mi aggrappo alla scala di corda e inizio a salire lentamente. Mi accorgo che ho il fiatone, e non è per la fatica. La paura di trovare Paolo sul divanetto con Ester mi fa impazzire.
Magari lei ha in mano i miei dvd di Audrey, o fruga tra le mie cose. Peggio ancora, magari sta frugando in quelle di Paolo. Ci sono certi fumetti che ha disegnato suo padre e che lui ha mostrato solo a me. Non voglio che lei metta piede qui dentro. Arrivata all'entrata annuso l'aria: conosco il profumo di Ester, se fosse qui ne sentirei la scia. Vengo investita da un odore di carne rancida, e cipolle.
«Che schifo», esclamo, e mi viene da vomitare «ma che cavolo è?»
Paolo è seduto sul tappeto e sta cenando.
«Kebab», mi dice, con la bocca piena, «ne vuoi un po'?»
Ha ancora la tuta da lavoro e i capelli pieni di polvere.
«Non mangerei quella roba neanche se mi pagassi», rispondo e mi guardo intorno. I miei dvd sono a posto. I modellini dei supereroi hanno le stesse posizioni che gli ho dato io l'ultima volta. Il divano è tutto in disordine, però. C'è il cuscino per terra.
Mi siedo di fronte a lui e lo fisso mentre mangia. Paolo non ci fa caso: capita spesso che preferisca mangiare lì da solo cibo d'asporto, davanti alla tv, piuttosto che cenare con sua madre.
Si sta sporcando la maglietta. Gli passo un tovagliolo.
«Grazie», mi dice e sorride.
Non sembra si senta in colpa. Si sentirebbe proprio un po' in colpa, se avesse portato Ester qui. Almeno spero.
Non vedo l'ora che finisca quel kebab. Finalmente ingurgita l'ultimo boccone e lo accompagna con un gran sorso di aranciata. Non finisce più, quel sorso. Lo guardo ancora mentre inclina la testa e la bottiglia e beve senza prendere fiato. Mi piace, Paolo. Qualsiasi cosa fa, la fa con una tale naturalezza da lasciarti completamente stordita. Forse è questo che piace anche alle altre ragazze. Con lui potresti ruttare o dire parolacce, o scaccolarti, che non farebbe una piega. Almeno, con me.
Finisce di bere e mi fissa, soddisfatto e rilassato. Sta per chiedermi qualcosa, ma decido di porre fine alla mia agonia.
«Ester è stata qui?»
«Cosa?»
Abbasso lo sguardo e stringo i pugni. Devo mantenere la calma.
«Hai portato Ester nella nostra casa sull'albero?»
Fa un'espressione indecifrabile e stringe la bottiglia di aranciata. Dicono che il corpo parli prima delle parole. Lui ne è la dimostrazione esatta. Si sente in colpa. Sento le orecchie che mi fischiano e improvvisamente mi rendo conto che non voglio sapere. Preferisco una bugia. Paolo, ti prego, dimmi una bugia.
«Non l'ho portata qui, ma come ti viene in mente?», risponde, e sarà passato un secondo dalla mia domanda, ma a me sembra mezzo secolo.
«Non è stata qui, ieri sera?»
Lui sospira.
«E' stata qui, ma non qui sopra», risponde, alla fine.
«Ero con lei, ha citofonato a casa, siamo stati un po' con Annibale, poi lei mi ha chiesto di vedere la casa sull'albero e io ho rifiutato. L'ho fatta solo dondolare un po' sulle scale di corda... Niente di più»
Ogni sua parola mi colpisce come se qualcuno mi stesse punzecchiando con un puntello. Ho il fiato corto. Immagino Ester andare avanti e indietro sulla scala. Però non è stata qui.
«Ti piace Ester?», chiedo.
Lui alza le spalle.
«Ma sì, lo sai... E' carina e simpatica...»
«Volevi portarla qui?»
«No! O forse sì, per un attimo mi è anche saltato in mente...»
Spalanco la bocca e faccio un'espressione offesa.
«L'ho solo pensato, poi non è successo», continua lui «so che questo posto è anche per metà tuo»
Almeno è sincero. Io a lui di Geo non ho detto nulla. Non sa che gli ho mezzo promesso che avrebbe visto la casa. Però mi stanno salendo le lacrime agli occhi e in un primo momento non capisco perché, ma poi sento la mia voce dire: «Non è per metà mio. E' nostro. Questo posto è... Nostro».
«Laura...», mormora Paolo e allunga un braccio. Faccio per scansarmi, ma lui mi attira a sé e mi stringe. Per un attimo mi abbandono a quell'abbraccio.
«Puzzi di cipolla, che schifo», dico appena mi sento in imbarazzo.
«Laura...», mi ignora lui, e sento che il suo respiro si fa più forte.
Mi scanso.
«Ti piace in quel modo, Ester? La baceresti?»
Non si aspettava questa domanda. Gira la testa dall'altra parte.
«Rispondimi, Paolo»
«Perché vuoi parlare di questo, adesso?», protesta.
Mi alzo in piedi.
«E' già successo?»
«No», risponde lui «ma ci siamo andati vicini»
«Quindi ti piace in quel modo!»
«Laura, si può sapere che ti prende? Perché fai tutte queste domande?»
«Sto solo cercando di capire se devo aver paura di ritrovarmela qui, tra i piedi, un giorno di questi»
«Ci siamo fatti una promessa. E' vero, eravamo piccoli e scemi, ma non ho intenzione di infrangerla. Qui entreremo solo io e te. D'accordo?»
Annuisco.
«Credi che possa diventare la tua ragazza?»
«Chi?»
«Ester»
«Potrebbe essere, sì», dice Paolo, e colgo un tono di sfida nella sua voce «prima o poi, succederà con qualcuno, no?»
Rimango in silenzio. Ha ragione lui. Cosa pretendo? Che stia sempre lì ad aspettare i miei comodi?
«E tu? Hai già baciato Geo?»
Anche io non mi aspettavo che me lo chiedesse. Cerco un appiglio, un modo per non rispondere, ma la smorfia che ho in faccia mi tradisce e tutto quello che posso fare è sorridere. Brava, imbecille. Bel modo di dirglielo. In fin dei conti è il mio migliore amico, perché non dovrebbe saperlo? Perché mi sembra di averlo tradito?
«Perfetto», mormora lui. Abbassa lo sguardo e fissa il cartoccio vuoto del Kebab.
Un attimo prima mi stava abbracciando e consolando, adesso si è fatto di pietra e mi sembra di sentire le sue maledizioni. Ma perché fa così? Non dovremmo essere amici che si confidano tutto?
«Paolo...», dico, cercando la sua attenzione «te l'avrei detto... Stavo solo aspettando il momento giusto...»
Alza lo sguardo su di me e mi lancia un'occhiata di ghiaccio.
«Dimmi qualcosa, per favore», sussurro.
Non sopporto il suo silenzio. Non mi piace quello che ci sta succedendo.
Prende il sacchetto dell'immondizia e ci infila la carta e la bottiglia di aranciata. Mi passa davanti come se non ci fossi. Sulla soglia, rimane un attimo immobile, poi si volta e mi dice: «Chissà, forse potremmo creare un divisorio. Così nessuno deve rinunciare a niente»
Sto per ribattere, ma lui si sta già calando di sotto. Vorrei richiamarlo, ma la voce mi uscirebbe strozzata dal pianto e se lui mi sentisse piangere tornerebbe indietro, lo so. Non mi ha mai lasciata da sola. Mi guardo intorno e per la prima volta il luogo della nostra infanzia mi sembra brutto e sporco. Vorrei sedermi sul divanetto per calmarmi, ma avrebbe il suo odore. Vorrei andare da Annibale, ma temo che anche lui si sia fermato lì. Dobbiamo sbollire entrambi. Non è facile pensare che dovrò dividere Paolo con un'altra. E' difficile ammettere che io stessa adesso, mi rifugerei volentieri anche tra le braccia di qualcun altro. Guardo la nostra foto, quella appesa sopra alla televisione. Era il giorno dell'inaugurazione di questa casa. Ci teniamo per mano e sorridiamo all'obbiettivo. Io ho il ginocchio sbucciato, perché il primo tentativo di salire quassù era fallito miseramente. Paolo era corso in mio aiuto e aveva voluto disinfettare lui la ferità.
«Non posso stare senza di te», bisbiglio. E mi rendo conto di quanto queste parole mi facciano paura.
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