Cap 10
Avverto il suo respiro mentre si posiziona. E' praticamente in apnea. Non so come mai stia reagendo così, ma per la prima volta mi sembra che sia agitata.
Insicura. Lei è la migliore tra noi, in tutto, soprattutto nella capacità espressiva. Non capisco cos'abbia da temere. Come prevedevo, ha scelto una melodia struggente. La osservo mentre inclina la testa e poi si innalza ed esegue il suo primo doppio toe loop in maniera impeccabile. Monia annuisce.
La musica si movimenta un po' e anche le figure di Prisca si fanno più accese. Quando esegue l'angelo, le leggo una smorfia di dolore in viso. Mi si appannano gli occhiali, allora li tolgo mezzo secondo per asciugarli. E succede tutto davvero molto in fretta. Sento lo stridere della lama sul ghiaccio e un tonfo tremendo. Monia urla.
Prisca adesso è a terra, le compagne corrono verso di lei, io mi alzo in piedi, rimetto gli occhiali e cerco di capire cosa sia successo.
«La mia gamba», si lamenta Prisca, torcendosi sul ghiaccio.
«Non muoverti», le ordina Monia, che nel frattempo sembra aver ripreso il controllo. Lei, di voli interrotti, deve averne visti parecchi.
«Chiamate l'ambulanza», dice, dopo aver dato un'occhiata alla situazione. Prisca è in lacrime. E' la prima volta che la vedo piangere. Si tiene la gamba e singhiozza. Mi sento stringere il cuore per lei e sudo freddo. Poteva capitare a chiunque di noi.
«Lasciatele un po' d'aria, per piacere», urla Monia, e noi ci allontaniamo, ma nessuna riesce a staccare gli occhi dalla nostra compagna.
Quando l'ambulanza arriva, tiro un sospiro di sollievo. Facciamo strada agli infermieri, che caricano Prisca sulla barella. Nel frattempo, Monia le ha tolto i pattini.
«Ti raggiungo in ospedale, tesoro», dice Monia e intanto chiama in genitori di Prisca. Sono andati a fare spese nei paraggi, saranno da lei in un batter d'occhio.
Monia rimane per un attimo a fissare i pattini di Prisca abbandonati sul ghiaccio.
«Che disastro», sussurra, come se già conoscesse la gravità della situazione «che disastro», ripete.
Nessuna di noi riesce a dire nulla.
«Un vero disastro», commenta ancora, mettendosi le mani nei capelli «lei era l'unica... l'unica che...»
Lei era l'unica che poteva davvero farcela. Lo sappiamo tutte. Ma fa male sentirlo dire. A cinque mesi dalla gara, Prisca è tagliata fuori e noi siamo semplicemente delle ciliegine a contorno di una torta che ormai non c'è più.
Sono la prima ad allontanarmi. Non sono contenta che Prisca si sia fatta male. Non mi è piaciuto vederla piangere. Lei rimane comunque la migliore. Non ci sopportiamo, ma cadere sul ghiaccio e farsi così male è una cosa che nessun pattinatore augura a un rivale.
Le altre mi hanno seguito. Nessuna dice niente. Siamo tutte scosse. Tolgo i pattini e inizio ad asciugare la lama. Afferro il telefono per chiamare i miei genitori e chiedere di venirmi a prendere. I genitori di Prisca certo non mi accompagneranno a casa.
Ciao Laura. Oggi giorno di chiusura. Ti va di bere qualcosa con me?
Ho un sussulto. E' Geo. Mi ha mandato un messaggio.
Sono a Sesto San Giovanni, rispondo, sarò a casa troppo tardi... Devo ancora sentire i miei per venirmi a prendere
Passo io. Ci metto sicuramente di meno. Dove ti trovo?
Sono tentata di rifiutare: se la mamma sa che sono tornata a casa con un mezzo sconosciuto, sicuramente non sarà felice. Però, mi dico, potrebbe anche non venire mai a saperlo...
Stadio del ghiaccio. Ma sei sicuro che ti va di fare tanta strada?
Aspettami lì. Faccio il prima possibile.
Okay, Grazie.
Monia si è già cambiata. «Ragazze, siete tutte a posto con il passaggio?», ci chiede.
Annuisco con forza. Mi sento già complice di qualcosa di brutto.
«Allora ci vediamo domani alla solita ora. E speriamo che Prisca si rimetta», aggiunge, ma si vede che non ci crede nemmeno lei.
Corro in bagno per darmi una sistemata. Sono orribile. Disfo lo chignon e cerco di dare una forma ai capelli. Vorrei togliere gli occhiali, ma non è ancora abbastanza buio. Passo il lucidalabbra e spero che i miei occhi abbiano un bel colore accesso. So che sono castani, ma nessuno è mai riuscito a dirmi di più. Nessuno riesce a descrivere come vorrei il colore dei miei occhi.
Indosso un paio di leggins e una maglietta bianca con su scritto I need more Coffee. L'alternativa era quella di Superman e non mi sembrava il caso. Se avessi saputo che avrei visto Geo, mi sarei vestita meglio, accidenti.
Scendo le scale dello stadio del ghiaccio. Sono già andati via tutti. Amo il momento in cui cala il sole. Gli uccelli vorticano ancora sopra gli alberi e trillano note acute. Dicono che noi, con i disturbi visivi, avvertiamo molti più spostamenti delle persone normali. Una formica che cammina su un muretto. Granchi che affondano nell'acqua, tra gli scogli. E' così. Dev'essere perché non sono distratta dai colori.
Mi sento sempre più a mio agio, avvolta dalle tenebre. Quando inizia a fare un po' più buio, Geo arriva. Frena la sua moto appena lucidata e si toglie il casco. Okay, non lo ricordavo così bello. E non pensavo sarebbe venuto in moto.
«Tranquilla, ho portato un casco», mi rassicura. Deve aver visto la mia impressione incredula.
«Pensavo che...»
«Lo so, ti ho fatto una sorpresa»
Sembra soddisfatto di sé. Poi mi guarda e chiede: «Ho sbagliato?»
Non sono mai andata in moto. Non perché non mi piaccia, credo. Il fatto è che non ne ho mai avuta l'occasione.
«No, anzi. Però non andare troppo veloce», gli dico.
«Ai suoi ordini», risponde, con uno strano sorriso. E' bello, con i capelli sciolti. E' bello quando sorride. Salgo sulla moto e mi stringo a lui. Il casco mi va un po' grande.
«Tieniti forte, okay?»
«Okay», rispondo. E sono sicura che lui possa sentire il battito del mio cuore sulla sua schiena. Partiamo. Cosa sto facendo? Torno a casa in moto con un barista che forse ha il doppio dei miei anni. Non sopraticamente niente di lui, eppure amo l'odore che emana il suo giubbotto dipelle e amo che il mondo mi sfrecci davanti così in fretta, tanto che non ho paura di guardarlo, tanto che mi dimentico che non lo vedo come lo vedono tutti.
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