54.| Burning it all.
Impossibile scordare quella notte di fine inverno, i nostri volti stanchi e quelle iridi che annegavano in un mare rosso sangue.
Lacrime e alcol stretti in un abbraccio patetico, apatico, indefinito.
L'automobile scivolava sull'asfalto con una straziante costanza, delle volte il mucchio di bottiglie di vetro vuote sui sedili posteriori tentennavano spezzando il silenzio dei nostri sguardi complici ma distanti.
Ubriachi marci, a vedere le linee bianche della strada sdoppiarsi e dopo poco ricongiungersi come le nostre vite.
Le nostre mani intrecciate al profumo di nicotina ed erba rimanevano immobili sul mio grembo, cercavano della stabilità.
Non parlarsi perché i nodi alla gola erano diventati catenacci, i sussurri silenzi.
La stazione radio saltava di frequenza in frequenza repentinamente cercando un po' di segnale oltre le fronde degli alberi tetri che si ripiegavano su di noi con i loro profili color petrolio, il cielo era di un blu sereno e profondo e si stagliava su quei campi deserti rischiarandoli con i raggi agentei del plenilunio.
Nel bagagliaio la tanica di benzina sussultava ad ogni buca presa per sbaglio, il liquido borbottava rumorosamente ed il mio cuore perdeva battiti.
Accostammo lasciando che i fanali illuminassero per l'ultima volta quei campi incolti che portavano in maniera indiretta allo Stabilimento, dopo quella sera avrei evitato quella fatiscente struttura che crollava a pezzi chiudendo così per sempre con il passato.
L'erba era alta e verde come le iridi del graffito che Justin aveva disegnato per me tempi addietro, camminarci dentro una tortura: nostri passi venivano costantemente accompagnati dal latrare di qualche animale ed i miei sussulti.
Eravamo arrivati al limite, pensai.
In tutti i sensi, in tutti i modi: ad un passo dall'ultima pasticca, dall'ultima lacrima, dall'ultimo litigio, ad un passo dalla paura di perdersi per poi continuare a cercarsi avendo di contro la sindrome di Stoccolma.
Il cancello della proprietà si delineò in un gioco di ombre a pochi passi da noi, i battenti spalancati grondavano ruggine intrisa d'acqua.
Justin rabbrividì, lo avvertii rallentare quel suo passo sicuro e stringere la mia mano nella sua con fare protettivo.
C'era poco da proteggersi, camminavamo con affianco i nostri fantasmi oramai da mesi.
Affondai le unghie nella sua carne e ricordai quante volte quel gesto fosse stato uno spudorato "rimani."
Che ci siamo sacrificati, presi schiaffi in faccia, gridati contro che era finita solo per rivederci ancora una volta insieme seppure sempre a pezzi belli e tristi come coriandoli, dopo la pioggia su strade vuote.
La prima che incontrammo fu Kristal, il profilo completamente in penombra divorato dalle fiamme del fuoco e il ghiaccio degli occhi che non accennava a sciogliersi.
Si guardava attorno superba, gli anfibi infangati e le calzamaglie bucate.
Mi vide e non proferì parola, si limitò a svuotare la bottiglia di Jack Daniel sui tronchi bagnati del grande falò che stava domando.
Le fiamme si alzarono voraci dalla pila di vecchi mobili, legna bagnata e cassette che sovrastava le nostre teste.
<<Dannazione.>> si sentì imprecare.
C'era Lucas che ci veniva incontro inciampando nei suoi stessi passi, con i suoi boccoli ribelli e quelle iridi del più caldo dei colori. Trafisse per un attimo lo sguardo assente di Kristal.
Un solo attimo.
Lo vidi deglutire e scuotere il capo in senso di diniego.
Ci venne incontro ignorandola completamente, lui che fino ad un mese fa moriva per lei.
<<C'era un cazzo di traffico, merda.>> bofonchiò a mo di scuse per il ritardo.
Da quanto tempo dunque Kristal era lì da sola?
Capii che si erano lasciati qualche secondo più tardi, dalle nocche rotte e il puzzo di alcol del moro e dalle spalle scoperte di lei.
Non ricordo una serata trascorsa tutti assieme in cui lui non si fosse premurato di cedere il cappotto a Kristal, lo faceva spontaneamente anche quando fondamentalmente non ce n'era bisogno.
<<mi dai una mano con la roba da prendere nel bagagliaio?>> Justin si rivolse all'amico spezzando il silenzio.
Entrambi evitarono lo sguardo perso di Kristal e così realizzai che tutti sapevano eccetto me.
Ci lasciarono sole, completamente sole.
Ne rollammo due nervosamente, ognuna persa nei suoi complessi sedute di fianco al fuoco con qualche alcolico oramai caldo e viscido da buttare giù.
<<C'hai niente da raccontare?>> buttai fuori d'istinto, in tono concitato.
Avrei aiutato se avessi saputo.
La accesi e inspirai a fondo, osservando le stelle disegnarsi in cielo un po' come quella notte a Miami in cui io e Justin ci guardammo negli occhi per la prima volta, un po' come quando decisi che sarei rimasta tipo per sempre.
Non rispose, scosse il capo indicando con l'indice le sue iridi arrossate dal pianto.
Non avrebbe avuto forza di parlarne.
Cacciò una nuvola di fumo, la soffiò sui miei occhi stanchi che di scatto richiusi.
<<Chiuderai con questa merda, promesso.>> sussurrò al mio orecchio, sentii il caldo alito lungo il mio collo sapere di alcol e d'erba come sempre e la sua mano insediarsi sotto gli strati di indumenti di cui mi ero coperta.
Sfiorò le costole, il pizzo del reggiseno.
Lei sapeva dove tenevo la roba, dove tenevo le pasticche di scorta per nasconderle a Juss.
Aveva le mani fredde, le lunghe unghie laccate di nero mi graffiarono eppure non la respinsi.
Estrapolò la bustina di scorta e stette per un po' a guardarla, era uno sguardo carico d'odio.
<<Scusami, è anche colpa mia.>> aveva le lacrime agli occhi, affondò le mani nei capelli ossigenati tirandoseli indietro rassegnata.
Lei che non piangeva mai, lei che ne scioglieva in bocca come se fossero caramelle, lei che più di me ne aveva fatto una ragione di vita.
La abbracciai.
Fu probabilmente l'unica volta in cui lo feci, in cui sentii fra le mie braccia quell'involucro di calze a rete e vestiti striminziti.
Quel relitto di ragazza aveva perso tutto a causa delle droghe, eppure paradossalmente non avendo una famiglia queste erano l'unica presenza fissa.
<<C'hai degli occhi stupendi dovresti smetterla con l'erba, valorizzarli di più e perdere l'abitudine di contornarli con questa matita così doppia.>> commentai specchiandomi in quelle pupille dilatate, le sfiorai il volto perdendomi per un secondo in quella imperfezione onnipresente che si portava dietro.
C'avevo un groppo alla gola ogni volta che chiudeva le palpebre sotto al mio tocco.
Aveva fame di tenerezza.
<<E poi immaginaci, cazzo felici e ripulite con i figli nostri che corrono per casa, ed il lavoro e le paranoie per sbarcare il lunario, e una vita di quelle normali senza dipendenze affettive e di altra specie, ed essere finalmente donne con la giacca ed il volto riposato, pieno di rughe ma riposato, ed io che ti chiamo e che ti vengo a trovare per un caffè e casa tua che è un disordine, la mia ancora peggio.
Eppure una casa che non sia in periferia, un lavoro che non sia umiliante e una stabilità cercata così a lungo.>>
La voce mi si incrinò, in quegli occhi volevo leggerci questo futuro il che sembrava paradossale, irraggiungibile in quel momento.
Perché in quel momento eravamo sempre noi, due improbabilità viventi: le cannette sempre accese come i sedicenni, il sabato sera chiuse nei locali dentro i bicchieri colmi di liquidi fosforescenti sciolte sostanze, l'incapacità di gestire traumi e la volontà di non fare un cazzo, il puzzo di alcol sempre addosso, i rave sul tetto dello Stabilimento, i corpi collassati di amici che in vena alle feste si ignettavano la più stronza di tutte le droghe e lei che di giorno con il lavoro part time lavava cessi.
Generazione allo sbando.
<<Chi mai vorrebbe un disastro come me per moglie.>>
Lo diceva con gli occhi che le luccicavano di speranza, che infondo ci sperava di non dover più cercare fra la metro e gli angoli dimenticati di periferia roba da comprare a poco prezzo.
Estrasse tuttavia dalla tasca interna del suo bomber i filtri, le bustine e le cartine e con il volto curioso da bimba le gettò fra le fiamme del falò.
In viso la stessa espressione del piccolo di turno che lancia la monetine di spalle a Fontana di Trevi.
Ad esitare non aveva esitato, ciò mi colpì poiché per lei privarsi delle sostanze era come levarsi il pane dalla bocca.
Alzò lo sguardo oltre il divampare delle fiamme ed incontrò quello torvo e severo di Lucas.
Vidi le pupille di lei esitare un attimo eppure poi indugiare fino a che lui non si sentì perso.
Lei sapeva di dover scegliere quale dipendenza portare avanti nella sua vita, ed io inconsciamente sapevo che Lucas l'aveva posta davanti ad un bivio.
Che scegli me o scegli te.
E l'aveva forse ferita, ma chi come lei conosce il dolore come solo metro di giudizio non può che reagire e ragionare in base a quello.
Era il dolore la fonte dei problemi in Kris, il non saperlo gestire, l'essere stata sua schiava per anni e Lucas...
Lui era l'unica nota dolce in un susseguirsi di stridori.
Lucas e la sua famiglia altolocata, i suoi modi premurosi, la sua timidezza la sensibilità.
L'antidoto. La via di fuga.
<<Cazzo mi guarda? Vorrei scopare quegli occhi.>> mugugnò Kris mangiucchiandosi un'unghia.
Soffrii molto il percepire Justin distante quella sera, eppure forse doveva andare così.
In seguito capii che il legame instauratosi fra di noi all'epoca era talmente tanto viscerale dal risultare nocivo.
Soffrire era soffrire insieme, gioire era gioire insieme.
Non marginalmente ma completamente, le emozioni dell'uno devastavano l'altro.
Un rapporto in simbiosi, per cui o si andava forte perché uno dei due voleva così o si ci perdeva completamente perché uno dei due si era perso.
Non sapevamo cosa volesse dire obiettività o lucidità, nessuno dei due sapeva fare il passo in dietro per moderare l'altro.
<<Quei due non parlavano così da un pezzo, eh?.>> Chad mi colse in fragrante con il suo odore di buono e le fossette scavate da un sorriso.
Il suo abbraccio un toccasana.
Guardava con quegli occhi vispi James e Justin parlare a pochi metri da noi, sotto i cornicioni dell'entrata dello Stabilimento divisi dal resto da un alto muro di fiamme.
Parlavano animosamente, Justin finalmente rideva con una persona che non fossi io.
Il modo in cui si portava indietro i capelli biondo cenere, il maglione nero in cui scompariva e i braccialetti d'oro sui polsi di inchiostro che accarezzavano la pelle.
Mi bagnai come una ragazzina ai primi anni di liceo, mi bagnai perché rividi Justin prima di tutta quella merda.
James non lo vedevo da un pezzo, da quella sera in cui mi confessò quel suo malessere interiore.
Sapevo era andato da uno psicoterapista, aveva provato a migliorare e forse c'era riuscito al contrario mio.
Sapevo anche che aveva chiuso con i suoi, che s'era ritrovato in strada da un giorno all'altro senza soldi nè speranza.
<<E noi? Noi quando torneremo davanti ad un caffè di Starbucks?>> chiesi incrociando lo sguardo miele di Chad e poi quello caloroso di Alicia.
Chad mi mancava.
Paradossalmente in quei mesi fu la prima chiamata la mattina, la casa aperta il sabato sera eppure mancava il resto.
Il poter parlare della quotidianità, le risate isteriche, lui che "ti porto a fare shopping.", lui che "se lo vedo lo ammazzo.", tornare a casa sbronzi con lui che tiene i capelli indietro quando ti viene voglia di sbroccare.
Paradossalmente nella presenza di Alicia trovavo qualcosa di sbagliato, con Chad non ebbi il coraggio di parlarne.
Mai.
Lei sempre un passo dietro lui, una sintonia che non riuscivo a cogliere.
<<Amore.>>
Sentii le mani di Justin lungo la mia vita, si accoccolò nell'incavo del mio collo e lasciò baci lenti.
Con le mani desiderose scese giù, lungo la vita dei miei jeans e afferrò di istinto la mia carne.
<<Andrà tutto bene.>> mormorò succhiando forte il mio collo.
Lui era fatto così, amava possedermi ovunque senza pudore.
Ed io?
Io mi lasciavo possedere dalle sue labbra che più di me conoscevano le mie debolezze ed il piacere.
Ed io che già mi immaginavo il dopo, in quella sera di vento e fuliggine un dopo ce lo vedevo ed era un dopo carico di serenità.
Mi trovai tutti gli occhi addosso, come spilli appuntiti, la mano intrecciata in quella di Chad ed il corpo tutt'uno con la pelle di Justin.
Mi percepii amata.
Da tutti.
Finalmente.
Accerchiammo il grande falò senza dire una parola, avevamo le iridi arrossate concentrate su quell'ammasso di fiamme danzanti.
Chad affianco a me con il cartone pieno zeppo delle prove incriminanti, pieno zeppo del passato di Juss.
Quel passato che non ci dava tregua, che ci rendeva vulnerabili e arrabbiati con tutto e tutti ma soprattutto con noi stessi.
<<Fai tu.>> sussurrò Justin mordicchiando il mio lobo, nascondendo poi il viso altrove fra i miei capelli sciolti.
Provava vergogna per quel passato e forse per tale ragione fu poi difficile convincerlo a farci pace.
Ricordo ancora lo sguardo miele di Chad carico di lacrime scorrere sulle mie dita tremanti ed indecise.
Un attimo dopo vidi i fogli di carta bruciare.
I nominativi di quelle decine di ragazze ferite purificarsi su quella catasta di legna per poi scomparire nel nulla.
Nessuno avrebbe saputo.
Non più.
Sarebbe stato un grande, grosso segreto riflesso sulle mura ammuffite dello Stabilimento.
Sfiorai titubante il registratore, già immaginavo la voce di Janet carbonizzarsi e lasciare il posto ad un rumore confuso, ad un "bz" meccanico.
Esitai.
Incrociai lo sguardo limpido di Kristal, le labbra si mossero repentine ed io le seguii.
"Taglia."
"Taglia con il passato"
Non glielo chiesi mai, eppure sono certa disse questo.
Il respiro spezzato di Juss fece il resto, mi convinse a lasciar andare il dolore.
Perché del dolore dovevamo disfarci, non era Kristal la sola ad esserne schiava.
Che in quel pacco c'era il dolore di tutti: il dolore di lui, di Janet, di centinaia di ragazze e ragazzi che dell'adolescenza avevano conosciuto un lato amaro.
Becero.
Lo lanciai nelle fiamme e pensai d'essermi disfatta di tutto, eravamo liberi.
Finiva lì il capitolo più doloroso della mia vita, ero stata capace di porre un punto.
L'ultimo doloroso punto di inchiostro nero in un susseguirsi di paragrafi fitti di disperazione.
Non era così.
Avvertii un freddo insolito recidermi il collo e poi un dolore fulmineo.
Breve.
Colsi con lo sguardo un guizzo di luce argentea volare via dal mio petto.
Non realizzai.
Sfiorai il collo di getto incontrando le mani morbide di Justin, irremovibili.
Capii.
<<Nooooooo.>>
Mi lanciai fra le fiamme esterrefatta, sporcando mani e vestiti, respirai cenere e distruzione ancora una volta.
Come sempre.
Per salvare quella parte di lui a cui egli stesso attentava.
Scavai fra la legna arsa, sola mentre grida mi intimavano di retrocedere.
Non bastava.
Era del resto piacevole sentire le lacrime venire asciugate dal calore del fuoco a pochi passi da me.
<<Non capisci?>> percepii le mani del biondo sulle mie spalle, scuotermi violentemente
<<andava fatto.>> singhiozzò sdraiandosi affianco a me a pochi passi dall'autodistruzione.
I suoi capelli persi nel grigio della cenere, le mani sugli occhi per cercare di sfuggire ai mostri della psiche.
Registrazione di Janet.
Non ho mai meritato un quarto del dolore che Justin m'ha procurato.
È stata la mia prima volta.
Il giorno dopo lo sapevano già i suoi amici.
Il mio primo amore.
Il giorno dopo non valevo un cazzo.
Paradossale no?
Sono stata umiliata, derisa e schernita nel corso degli anni per la sua infedeltà.
Non riuscivo a farne a meno.
Con lui era tutto un respingersi per poi ritrovarsi fra lenzuola di letto, così infuocate di notte eppure così fredde di giorno.
Diceva che dovevo restare.
Che ero il suo punto di rifermento, uno dei tanti.
Eppure un punto di riferimento.
Che a separarci si sentiva la coscienza sporca e faceva incubi eppure a restare non era capace.
Diceva che ero la più bella della scuola, che c'era uno stacco netto fra me e le altre e che dovevo necessariamente distinguermi eppure il giorno dopo quella affianco era sul sedile posteriore della sua macchina.
Iniziai a soffrire di una lievissima forma di anoressia, fu poi lui con i suoi acidissimi complimenti a riportarmi sulla giusta strada.
Divenni acida a mia volta.
Da sballato mi diceva ti amo, durante le corse in auto mi sfoggiava come un trofeo provando piacere se indossavo le gonne più corte e provocavo invidia nei suoi amici e nemici.
Diceva che dovevo capirlo, che non dovevo cedere alle lamentele dei miei, restargli accanto eppure appena poteva mi voltava le spalle nei club lasciandomi sola con un cocktail in mano e la nottata ancora lunga avanti.
Ed io?
Io rimanevo lì immobile ad aspettarlo, mentre tornavo a casa in taxi, poi ci pensavo e sbroccavo al cesso tutto l'alcol e la rassegnazione.
Non me ne andavo perché poi alle 4.00 scriveva "ti amo", ci credevo ed il giorno dopo mi portava in trionfo fra i corridoi di scuola, baciandomi forte davanti a tutti.
Rivendicando la proprietà.
A Miami m'aveva chiesto di stare, di andare con lui.
Già mi immaginavo che qualcosa era cambiato, ero stata con altri nel mentre eppure fra tutti i tira e molla lui era l'unico ad avere il mio cuore.
Non so cosa cazzo gli hai fatto tu a Miami ma l'hai cambiato.
Me l'hai rubato.
Non lo riconoscevo più.
Ero di nuovo svergognata ed esposta, ancora tradita, ancora una volta usata e lasciata lì in un cantuccio.
Il resto della storia, la conosciamo entrambe.
Il mio dolore, quello lo conosco solo io.
Vorrei potermi sentire male nell'avergli dato una voce, perché è questo che sto facendo svergognando Justin ai tuoi occhi ma la realtà è che dovevo liberarmene.
Parlare e svuotarmi.
Finalmente ferire e non essere ferita.
Perché io ci sono, ci sarò sempre nella vostra fottuta vita.
Prepotentemente.
Perché il vostro amore implicava anche la mia presenza: io ero nel retro del suo primo sguardo rivolto a te, sulle labbra di lui del vostro primo bacio ci stava ancora il mio sapore, nella sua mente ,seppure in un cantuccio, ci stava la mia persona mentre a Miami conversava con te, sotto i suoi palmi ho bruciato io e quindi non c'è solo la tua cenere.
Perché di lui ho nel petto conficcate le spine.
Quelle spine del suo periodo peggiore che tu non hai mai avuto modo di vivere.
Quelle spine con cui mi sono seviziata perché lo amavo.
Al tuo petto invece ci sta la collana che gli regalai io.
"Bizzle."
Quella rimane intatta, indistruttibile, un pezzo di passato.
Rimane quel Justin che ho amato inciso nell'argento.
La hai tu adesso perché lui vuole che tu abbia ogni sua parte di sé.
Hai tutte le sue versioni e in quelle versioni frammenti di me.
Penso sia giusto che tu abbia anche me, perché sono stata parte integrante di lui.
Ho voluto esserlo forse peccando, sbagliando e ciò non può essere cancellato.
Non voglio sia cancellato.
Fino a quando la porterai al collo per ricordarti di lui, in ogni mattina in cui la sfiorerai sarai portata con il pensiero a me.
Un triangolo perfetto, tre estremità collegate fra loro da legami indissolubili.
Il centro del per sempre.
Fine registrazione.
La trovai nella cenere, la targhettina con la scritta "Bizzle" sfavillava irrisoria a pochi centimetri da me.
Piansi di gioia.
Piansi sul volto di Justin coricato affianco a me, mentre piangevo la stringevo fra le mani.
La stringevo nelle mani con la stessa forza con cui Kristal e Lucas erano tornati a stringersi ora.
<<Perché?>> chiese mentre prese a baciarmi il volto rigato di lacrime.
Sentivo le urla degli altri preoccupati, il calore del fuoco avvicinarsi e le faville alzarsi su in cielo colorate di un'arancio vivo.
Finalmente ogni dolore era stato giustamente rispettato.
Lo pensai che il cuore quasi scoppiava di gioia.
<<Dobbiamo amarci Justin, senza più essere egoisti.
Nessuno potrà privarci di qualcosa finché ci sazieremo delle nostre carni e niente più.
Rispettiamo gli altri.
Annientiamoci e rinasciamo nel nostro rapporto amore-odio noi soli, in maniera intima lontano da sguardi che che non capirebbero e rimarrebbero feriti.
Sono i nostri alti bassi, solo noi ne conosciamo curve e burroni.>>
Si tirò a sedere di scatto.
Gli occhi miele nei miei, ancora una volta il globo terrestre.
<< È solo la tua carne che voglio.>>
E furono baci al sapore di morsi.
Carezze sui seni davanti a sguardi increduli.
Tornammo a sbranarci come lupi nelle foreste, a ferire per istinto di sopravvivenza.
Spazio autrice:
Non so se scrivere o meno la parola fine.
Deciderò poi.
Questo capitolo forse non è il massimo ma è il frutto di un periodo buio.
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