Deficere

Deficere est iuris gentium.
Essere irragionevoli è un diritto umano.

[Aristotele]


— VAFFANCULO, Chris!

Infuriata nera, le schiaffeggiai via la mano con cui mi aveva appena arruffato i capelli freschi di parrucchiere. Sul serio, non erano passati neanche cinque secondi da quando ci eravamo richiuse la porta alle spalle e lei già aveva da ridire. Idiota.

Si ravviò la fluente chioma, noncurante. — Te li ha fatti troppo lisci. Sembrano spaghetti.

— I tuoi no, eh? — sbuffai di rimando.

Chrysta gongolò. — Ovviamente no. — Si stampò un sorrisone smagliante in faccia. — I miei sono setosi e voluminosi, guarda che meraviglia, guarda!

Non guardai per due semplici motivi: primo, ero piuttosto incazzata; secondo, senza quella massa di ricci informi e spettinati che aveva da sempre caratterizzato la sua figura, Chris era alquanto strana. Non che non mi piacesse il suo nuovo look, anzi, le dava un'aria più seria e matura, ma necessitavo di un po' di tempo per abituarmici.

Esattamente come avevo necessitato di un po' di tempo – un bel po' di tempo – per metabolizzare l'interruzione della chiamata di Mattia qualche giorno prima.

Ero certa che Mattia non avesse attaccato di proposito né che fosse caduta la linea: i microfoni in dotazione ai cellulari erano notevolmente migliorati, ma ancora non riuscivano ad eliminare completamente i disturbi di fondo, come ad esempio il sibilo dell'aria che diventa sempre più forte e lo schianto dell'impatto col terreno.

Non mi bevevo la teoria secondo la quale gli fosse semplicemente scivolato di mano: alla pari dei microfoni, avevano perfezionato anche la resistenza dei dispositivi agli urti accidentali, così che era quasi impossibile che il cellulare di Mattia si fosse fracassato a tal punto da non potermi richiamare né permettere a me di rintracciarlo in alcun modo, nemmeno con l'aiuto di Trish.

Oltretutto, checché ne dicessero i miei cugini, io avevo sentito qualcosa dall'altro capo del telefono. Era ovviamente possibile che le mie orecchie mi avessero ingannato, posto che si possa chiamare inganno l'udire un distinto ringhio animalesco pericolosamente vicino.

Ora, Mattia aveva accennato di avere un cane. Non conoscevo la razza, ma lui aveva detto di andare a correre in sua compagnia, perciò era deducibile che fosse di taglia media o grossa, o quantomeno un cagnolino piuttosto vispo. Era molto probabile che fosse vaccinato contro la rabbia, e ciò mi portava ad escludere l'opzione che avesse potuto saltargli al collo e, Raziel non volesse, azzannarlo. Era comunque plausibile, però, che avesse ringhiato per avvertirlo di un pericolo. O ancora era un randagio.

In tutti i casi, la rottura del cellulare era perfettamente spiegabile: nella mischia, Mattia avrebbe potuto calpestarlo, idem il presunto aggressore; inoltre, non era così tanto inverosimile che il cane potesse scambiarlo per un giocattolino da mordere, considerata quell'orribile cover arancione fosforescente.

Una volta tirate le somme, dopo circa tre ore di isteria totale, mi ero calmata e avevo deciso di lasciar perdere. A intervalli regolari controllavo le notizie locali, ma niente di più. In fondo, mi dicevo, se fosse successo qualcosa di fuori dall'ordinario i giornalisti l'avrebbero saputo, no?

I giorni seguenti, poi, mi convinsi ulteriormente che non c'era nulla di cui preoccuparsi: il liceo scientifico Enrico Fermi continuava le sue lezioni regolarmente, senza macabre interruzioni per annunciare la morte di uno studente; il ristorante dei suoi genitori non era chiuso per lutto; la Polizia e i Carabinieri non facevano più del loro solito – ovvero niente, specialmente i primi; gli unici furgoni che battevano le strade erano i rifornitori dei bar e dei piccoli alimentari della zona, nessun accalappiacani all'orizzonte.

Affinai le mie abilità di stalking durante quella settimana.

Il mercoledì arrivò la prova definitiva: il computer di Trish, che lavorava ininterrottamente da domenica sera, trillò nel cuore della notte svegliandoci tutti. Aveva miracolosamente rintracciato l'ultimo segnale del cellulare di Mattia, affidandosi alle informazioni che questo aveva inviato al mio durante la chiamata.

Il tempo di vestirmi ed ero già sulla scena del crimine: Vico Caetani, poco lontano dal ristorante Lupo di Mare, una breve ma abbastanza cupa scorciatoia per evitare di farsi la salita di Sant'Erasmo e arrivare direttamente nella piazza del campanile.

Niente sangue. Niente segni di colluttazione. Niente piccole componenti di un telefono sparpagliate in giro. L'unica cosa degna di nota era un lungo, benché non eccessivamente profondo, graffio sul basalto. Poteva averlo fatto un gatto, o il cane di cui sopra, o ancora uno sbadato tecnico della lavastoviglie – parlo per esperienza, l'ho visto accadere, e allora si trattava di piastrelle di gres porcellanato, non porosa roccia vulcanica.

Insomma, volente o nolente, dovevo lasciar correre e tornare a godermi il soggiorno in Italia.

Fortunatamente il tempo era assai migliorato, e le tempeste di metà maggio avevano ceduto il posto ai primi caldi afosi della fine del mese. Andammo in spiaggia il venerdì mattina, e restammo lì finché il sole non tramontò, regalandoci uno spettacolo indescrivibile.

Al contrario di quanto avevo pensato all'inizio, non mi feci molti problemi circa la cicatrice – se così si può chiamare – dietro la schiena. Naturalmente, se mi fossi abbronzata sarebbe risaltata di più, ma avevo intenzione di evitare il sole il più possibile, considerato soprattutto l'alto rischio di scottature. Inoltre, realizzai, era stupido mostrare i marchi e ciò che rimaneva di loro con tanto orgoglio e poi vergognarmi di una porzione di pelle un po' più bianca del normale. Certo, era un simbolo della mia sottomissione a Raziel e bla bla bla, ma alla fin fine chi altri, a parte me e i miei cugini, poteva saperlo?

C'è anche da dire che stranamente quel bastardo di un Angelo non mi aveva importunata troppo, durante quel periodo. Le visioni erano poche o nulle, quasi trascurabili, e i sogni talmente semplici da farmi quasi ridere al risveglio. Come conseguenza si erano ridotti anche i terribili mal di testa che mi assalivano ad ogni "attacco di Chiaroveggenza", per usare le parole di Chrysta.

Forse, finalmente, il cambio d'aria stava dando i suoi frutti.

Peccato che la pace sarebbe durata ancora per poco.

~ • ~

La spiaggia di Serapo, un chilometro o poco più di sabbia dorata e pulitissima, quel giorno era gremita di gente. Prevedibile, dato che era domenica.

Dall'alto del balcone della mia camera a Villa Orlando, con i capelli che svolazzavano alla brezza profumata di salsedine, osservavo le persone camminare e correre sulla battigia, affaccendarsi ad aprire gli ombrelloni, tuffarsi in acqua o crogiolarsi al sole come grosse lucertole. Sembravano tante piccole formichine, viste da là sopra, sempre in movimento, sempre con qualcosa da fare, anche se quel qualcosa era oziare in previsione della settimana successiva.

Erano così spensierati, stravaccati su un lettino, a godersi un momento di pausa dalla frenetica routine quotidiana. Si addormentavano, cadevano preda di sonni profondi eppure non affatto ristoratori, mentre attorno a loro una mamma strillava contro i figli indisciplinati, il tizio delle granite e quello del cocco urlavano a gran voce le loro offerte e una comitiva di ragazzi della nostra età chiacchierava un po' troppo rumorosamente.

La prima ondata di gente si ebbe alle dieci, la seconda a ora di pranzo, la terza verso le quattro. Gli ombrelloni confinanti con il nostro erano tutti occupati già da prima che arrivassimo noi. E sfortunatamente gli occupanti non erano dei migliori.

La signora alla nostra destra aveva uno strano modo di ridere, a metà tra una iena isterica e un babbuino in calore. Guai se il sole avesse toccato un centimetro della pelle del tizio di sinistra, peraltro assiduo ascoltatore di una pietosa stazione radio che mandava vecchi successi in dialetto napoletano. La famiglia davanti aveva seri problemi di pronuncia: il marito balbettava, la moglie non articolava bene la s ed entrambi i figli sputacchiavano. Avevo visto quello dietro baciarsi e flirtare pesantemente con tre ragazze diverse in tre giorni.

C'era qualcosa di gratificante nel riuscire a leggere in tutto quel casino. Logan e Trish preferivano passare il loro tempo in acqua o in giro per i vari lidi a cercare possibili avventure di una notte, ma Chrysta, cosa alquanto sorprendente, restava a farmi compagnia, dedicandosi allo studio di un vecchio tomo dal titolo Della magia sessuale. Ovvio che anche lei cercasse avventure di una notte, ma almeno prima si documentava.

Calcolai che approssimativamente a intervalli di tre pagine arrivava sulla battigia davanti al nostro lido un venditore urlante la sua mercanzia, da "Cocco fresco cocco bello!" a "Biscotti di Castellammare!" e "Ciambelle calde!". Ogni capitolo circa, invece, l'altoparlante del bar annunciava un'offerta sui gelati o le granite ("Prendi tre paghi due!"), un bambino che si era perso, l'imminente inizio di una partita di campionato e i relativi goal, anche se per questi bastavano i boati di gioia e sconforto che mi facevano sanguinare le orecchie.

Non che i miei occhi se la passassero tanto meglio: una volta smarrita la voglia di rileggere il classico Un oplà e un bang: gli Shadowhunters dell'era moderna, avevo optato per una relazione scritta a mano dal caro ex Ministro Ryecatch circa i motivi che l'avevano spinto, dopo la fine del suo secondo mandato, a richiedere un governo di tecnici e non un'elezione subito successiva, data la pericolosa crisi economica e organizzativa in cui versava il Ministero ormai da anni. E si sa com'è la grafia dei medici.

Abbandonai l'opera quando anche Chrysta fece altrettanto, dichiarando di voler andare a buttarsi in acqua. Mi unii a lei: faceva decisamente troppo caldo per rifiutare. Magari per gli italiani quello era un clima mite, ma a Idris trenta gradi li avevamo solo ad agosto, se era un anno favorevole.

La bellezza di Serapo si poteva ammirare nel suo insieme solo dal mare. All'estremità in cui calava a picco il promontorio di Monte Orlando, poi, si riusciva ad avere una visuale stupenda della curva della costa, colorata dalle centinaia di ombrelloni, aperti e non, e dalle migliaia di persone, con i loro diversi gradi di abbronzatura e costumi improbabili. Nei pressi della roccia, popolata da moltissime cozze, l'acqua era parecchio più fredda ma anche più limpida, di un turchese straordinario.

Restammo in ammollo finché fu sopportabile, dopodiché ci facemmo una bella passeggiata lungo tutta la spiaggia, ufficialmente per asciugarci, ufficiosamente per buttare l'occhio su soggetti interessanti e criticare outfit assurdi, tra cui un pareo verde leopardato in fucsia e uno slip maschile eccessivamente sgambato.

Al ritorno, con noi c'erano anche Trish e Logan, col muso lungo perché non avevano trovato nessuno con cui condividere il letto. Si consolarono con un gelato, a loro parere solo di poco migliore a quelli della Little Italy, ma secondo me infinitamente più buono, e soprattutto molto più cremoso.

Verso le sette cominciarono ad andarsene tutti. Noi aspettammo che venissero a cacciarci i bagnini: il sole che tramontava sull'orizzonte era uno spettacolo da non perdersi per nulla al mondo, in particolare per chi l'aveva sempre visto scomparire dietro i grattacieli, o al massimo toccare la punta di una montagna.

Lasciai che i ragazzi se ne tornassero a casa e mi avviai nella direzione opposta, verso quello che mi avevano detto essere il vecchio Palazzetto dello Sport. Avevo sentito da qualche parte – e diverse zone della città ne portavano le prove – che Gaeta era ogni anno presa d'assalto da diversi urban artists internazionali, che realizzavano i loro migliori murales durante la notte. Un paio dei reperti delle prime edizioni di questa iniziativa erano dipinti proprio sull'ex Palazzetto, anche se ormai erano scrostati e sbiaditi per via della salsedine.

Si stava piacevolmente freschi, e dal mare tirava una brezza profumata di iodio. I lampioni iniziarono ad accendersi lentamente, aumentando pian piano la luminosità. Era una luce calda, che ben si integrava col paesaggio e non dava un senso di artificialità. Non ero l'unica a godermi l'ombra della sera: una nonna portava a passeggio il nipotino appena nato, qualcuno accompagnava il cane a fare i bisognini, qualche coppia camminava mano nella mano e due signore facevano stretching appoggiandosi su una panchina.

Mi sedetti a gambe incrociate sul muretto, osservando il disegno sulla parete anteriore dell'edificio. Non si distinguevano più i contorni, ed erano rimaste solo poche macchie di colore. Quello sul muro laterale, invece, si era conservato meglio, benché avesse perso le tinte accese che sicuramente dovevano averlo caratterizzato nei suoi anni d'oro. Per quello che ero riuscita a capire, entrambi avevano concept piuttosto carini: ne presi nota per i miei schizzi futuri.

Spinta da uno strano impulso, con un sospiro mi sdraiai sul muretto. Gobba a ponente, luna crescente, pensai, lo sguardo rivolto al cielo. Molto probabilmente, massimo tre giorni dopo ci sarebbe stato il plenilunio. A Idris a volte era difficile dormire in quel periodo, con gli ululati dei mannari nelle orecchie.

Chiusi gli occhi, stiracchiandomi. Sentivo il suono ritmico delle falcate di una corsa lenta e leggera che si avvicinavano progressivamente. Si fermarono poco lontano da me.

— Ma allora mi pedini!

Mattia.

Alleluia alleluia.

Scattai su col busto. — Questi sono inconfondibili, eh? — replicai, mostrandogli i Marchi sulle braccia.

— Già — rise lui, mentre si toglieva gli auricolari e se li infilava in tasca. Notai che non aveva il fiatone; respirava soltanto un po' più veloce del normale. — Che cos'è, henné?

— Mmh — mugugnai per tutta risposta. — Tu non devi dirmi qualcosa? — continuai, insinuante.

— Oh, sì. Piccola zuffa di strada. Cellulare fracassato. E ricorda che sei tu ad avere il mio numero, non il contrario. — Venne a sedersi accanto a me. Fatto da lui, sembrava un gesto quasi automatico, abituale, privo di qualsiasi doppio fine. Piegò con cautela la testa di lato per farsi scrocchiare il collo, ricoperto da una sottile patina di sudore. — Che settimana di merda — brontolò.

— Cos'è successo? — gli chiesi per istinto, forse in maniera un po' troppo invadente.

Lui non parve farci caso. — Interrogazioni in ogni santa materia, compito di matematica, fisica e latino, il mio cane dal veterinario da lunedì mattina, un turno sfiancante nel ristorante di papà durante il quale mi sono anche bruciato con le posate appena uscite dalla lavastoviglie...

Lo interruppi immediatamente. — Sul serio? — Per miracolo non scoppiai a ridere. — No, non ci credo.

— Sono molto calde. Devono asciugarsi subito.

Ero sull'orlo di una risata sguaiata. — E tu le hai toccate a mani nude?

Mattia mi guardò storto. — Andavo di fretta, okay? C'era il vescovo ad aspettare e ovviamente avevamo apparecchiato col servizio d'ordinanza, non certo quello per le occasioni. Sua Eminenza, non che abbia qualcosa contro di lui, per carità, ci ha fatto una sorpresa nel peggior giorno che potesse scegliere, quando la sala era già mezza occupata da una comitiva di tedeschi urlanti, e io volevo solo restarmene a casa a far nulla. E che cavolo.

Wow. Poco stressato, il ragazzo...

Sembrava quasi un'altra persona, completamente diversa dal Mattia che avevo incontrato all'Eneas e rivisto alla Montagna Spaccata non così tanto tempo prima. Di sicuro quel Mattia non avrebbe gesticolato come un pazzo, né tantomeno parlato con un tono talmente isterico da sfiorare le soglie raggiunte da una donna in piena fase mestruale.

— Ehi ehi ehi, calmo, eh — lo ripresi, lanciandogli un'occhiata ammonitrice. — C'è gente che sta peggio di te.

Lui rispose con una risatina nervosa. — Sì sì, come no. Può esserci gente che sta peggio di uno che crede di avere una malattia autoimmune senza averne uno straccio di prova, mmh, Lorianne? Mi sento una schifezza da un'eternità, Dio mio, un'eternità! Voglio vedere se muoio prendendomi un raffreddore. — Quasi a rimarcare le sue parole, tirò su col naso. — E menomale che mi ero ripromesso di non cadere nella crisi del maturando.

Per uno strano gioco di luce, i suoi occhi, puntati in basso, sembravano di parecchie tonalità più chiari. Lo facevano apparire più inquietante, stralunato, quasi non umano.

Gli diedi una gomitata scherzosa nelle costole. — Una flebo di camomilla e sei come nuovo.

Mattia si prese la testa tra le mani, intrecciando le dita dietro la nuca. — Altro che camomilla, qua mi ci vuole una Valium. In dose doppia. Facciamo pure tripla. — Si piegò in avanti con un verso lamentoso. — Oh mamma mia, sto uscendo pazzo.

Stando in quella posizione, Mattia mi mostrava anche il braccio destro. Forse non era un caso che si fosse seduto in modo tale da nascondermelo.

Allungai la mano per istinto. — Cos'hai fatto qui?

Lui si rimise dritto di scatto, scacciandomi malamente. — Niente.

Una grossa ferita guarita da poco non era niente. Era qualcosa. Un qualcosa di molto brutto e di cui Mattia non voleva parlare. Avrei rispettato la sua decisione, benché mi premesse di voler scoprire cosa fosse successo. Ma avevo i miei mezzi per farlo in un secondo momento.

— Diciamo che ti credo — la conclusi lì, fingendo disinteresse. — Se guardassi me, vedresti che anch'io ho un paio di cicatrici tanto terribili da poter competere con la tua.

Lui si voltò di tre quarti, poggiando il ginocchio sul muretto. — E perché non dovrei guardarti?

— Non ho detto questo.

— Periodo ipotetico della possibilità o dell'irrealtà. Hai usato l'imperfetto, indica distacco. L'hai sottinteso tra le righe — ribatté. — È difficile non guardarti.

Stavo quasi per arrossire. Poi lui rovinò tutto.

— Insomma, sei in tenuta da mare. Praticamente mezza nuda.

Gli feci una pernacchia, sputacchiando saliva dappertutto. — Perché, tu come ci vai a mare?

— In burkini.

— Non eri cattolico? — gli chiesi ridacchiando.

— Mi sono convertito.

— E soprattutto, non eri maschio?

Lui mi indirizzò uno sguardo fintamente malizioso. — Questo lo lascio appurare a te.

— Senti, tizio... — Mi misi le mani sui fianchi, impuntandomi. — Se ci stai marciando...

— Tranquilla, non ne ho alcun interesse — mi rassicurò subito. — Devo prima far sparire queste belle corna qua. — Puntò gli indici in alto, come a indicarle. — Buttarsi di testa giù da uno scoglio potrebbe servire?

— A farti finire all'altro mondo, sì — replicai secca.

— Mi consolo sapendo che nella mia forma da fantasma non ce le avrò più. — Mattia si distese di lungo sul muretto. I suoi capelli mi solleticavano le gambe. — Ossignore, perché dopo più di un anno ci sto ancora male?

Alzai segretamente gli occhi al cielo.—- Non tiriamo fuori l'argomento, per favore.

Dubitavo che avrebbe sopportato fiumi di parole su quanto è figo Jean ogni volta che lo rivedo in giro per Idris mi frullano le farfalle nello stomaco quanto mi piaceva stare con lui ai bei vecchi tempi. D'altro canto nemmeno io ero disposta ad ascoltare i suoi piagnistei da single cornuto e mazziato, sia ben chiaro.

Inoltre, ma questa era una cosa ovvia, ripensare a Jean in certi termini mi avrebbe fatto più male che bene. La Sera era un avvenimento ancora troppo recente per poterlo sorvolare.

— Eppure non mi manca niente di lei, niente — continuò lui imperterrito. — Eccetto...

— Il sesso — finimmo entrambi all'unisono.

— Sì, il sesso — ripeté Mattia in tono sognante. — È l'unico aspetto sotto il quale sono il cattolico meno cattolico sulla piazza. Sì ai preservativi e no alla verginità fino al matrimonio. Non c'è alcun reato nel dare te stesso per il piacere.

— Edonista — commentai, sorridendo leggermente. Con Jean sarebbe andato molto d'accordo.

— Umano — mi corresse lui. — Perché mai saremmo noi a governare la Terra se non perché siamo l'unica specie che non fa sesso solo per riprodursi?

Scossi la testa in segno di negazione. — Lo fanno anche i delfini — specificai.

— Verrà il tempo dei delfini — filosofeggiò Mattia, minimizzando il tutto con un gesto eloquente della mano. — Per adesso ci siamo noi, e questo pianeta lo stiamo mandando sempre di più a puttane — proseguì, la voce ora dura e grave. — A proposito di puttane...

— Tu hai un assoluto bisogno di fare un test della personalità.

— ... Pare ci sia un bordello dalle parti di Marcianise. Credevo non esistessero da decenni.

— È il mestiere più antico del mondo, Mattia — sospirai scrollando le spalle. — Cosa possiamo farci?

— Io mi ci farei un giro.

— Ma vaffanculo, va'! — Gli tirai un calcio nello stinco. — Suppongo che nessuno si sia mai meritato un vaffanculo da parte mia dopo così poche ore di conversazione.

— Felice di essere il primo.

Scoppiò a ridere di gusto. Notai che sugli incisivi c'erano lievi segni dalla vaga forma quadrata: doveva aver portato l'apparecchio da piccolo.

Si rialzò all'improvviso con un movimento fluido, stiracchiandosi. — Grazie per aver tollerato il mio bipolarismo.

— Ma no, sei giusto un po' lunatico.

Rise di nuovo. — Ciao, Lorianne.

Come già avevo immaginato, quella non sarebbe stata l'ultima volta in cui avrei sentito il suono della sua risata.

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Perdonate l'uso improprio dei due punti.

Dunque, sappiate che il titolo non è riferito soltanto a Lorianne e Mattia, che effettivamente sono irragionevoli, ma anche alla sottoscritta, dato che per scrivere certe idiozie la ragione devi averla spedita alle Maldive.


Sul serio, tutto il dialogo non ha un benedetto senso. Ma... eh, è il miglior modo per continuare a lasciare quelle famose briciole di pane che se seguite porteranno a scoperte incredibili. (Senza pressione: se non volete sfiacchirvi, queste scoperte le farete tutti quanti andando avanti con la storia).

Tale sopracitato dialogo, devo riconoscergli – e automaticamente riconoscere a me – un merito, è stato scritto con un lessico piuttosto studiato. Minimo tre parole sono assolutamente intenzionali e nulla è messo a caso. (Ma non la parte dei delfini. Quella è messa a caso).

Una piccola precisazione e poi vi lascio: tutti i posti citati in questa storia sono realistici al 100% salvo dove diversamente indicato. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o persone realmente esistenti potrebbe non essere casuale. Quest'estate venite a Gaeta. #OrgoglioGaetano #OraMiCaccianoDaFormia

Ci vediamo alla prossima!

Federica

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