5. Per chi resta

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TW!
(Sesso esplicito, linguaggio scurrile, sangue, PTSD, piccoli accenni di depressione)

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«Non ci credo!» redarguì Mitsuya. Se ne stava seduto accanto al suo Hakkai, entrambi vestiti da capo a piedi con le stoffe cucite da lui stesso, belli e raffinati col bicchiere di whisky in una mano e l'altra addosso al ginocchio del suo ragazzo.

Entrando Mikey fu colto da uno spiraglio di nervosismo, un misto fra la paura e l'adrenalina, qualcosa che gli corrodeva lo stomaco e gli faceva bruciare le ossa in un marasma di sensazioni sconosciute. Era come un disagio, la sensazione di non sentirsi bene nel proprio corpo, nei propri abiti come se fossero stati fatti di spine, troppo aderenti, aggrappati e avvinghiati alla sua carne soffocandogli il respiro, stampandosi contro i muscoli.

«Va tutto bene?».
Chifuyu gli aveva sfiorato la mano, il suo tocco era stato simile a una scarica di corrente contro i suoi nervi esposti; lo aveva riportato alla realtà e gli aveva offuscato i pensieri che come una tempesta di fulmini gli avevano invaso la mente.

Anche Baji gli aveva lanciato un'occhiata di sottecchi, lo sguardo teso, la mano intrecciata a quella del suo ragazzo.

«Sto bene, Chifuyu. Non preoccuparti» mentì, abbozzando un sorriso rassicurante. Non era un sorriso, era più che altro una smorfia distorta.
Ci vedeva sfocato come se stesse vedendo il tutto dal fondo di una bottiglia. Una realta fatta a cerchi, un concentrato di immagini banali e geometriche. Ondulazioni e segmenti arrotondati, osservava lo spirito dar vita a quegli strani personaggi e ne restava sorpreso senza mostrarne alcun segno sul viso.

Chifuyu non replicò, forse troppo assorto anche lui nei suoi pensieri, forse troppo incantato ad osservare il modo in cui Baji invadeva lo spazio e spezzava l'aria circostante.
Si sedettero agli sgabelli di plastica rigida, che davano sul bancone. Mitsuya e Hakkai erano già lì e quando li raggiunsero, gli batterono una mano sulla spalla sorridendo divertiti.

«Non ci credo, amico! L'avete fatto davvero?!» redarguì Hakkai, le guance rosse come una fragola matura, gli occhi sgranati, grandi come quelli di un cerbiatto. Mitsuya li osservava sorridendo, il ghigno di chi la sa lunga.

Di tutta risposta Baji, seduto dopo Chifuyu, abbassò il colletto del maglioncino beige che indossava il suo ragazzo e indicò loro i segni rossastri ancora evidenti e tumidi sulla sua pelle diafana. Pareva una ragnatela di lividi e baci, passione mescolata in colori violenti che ne esprimevano le varie sfumature.
Una tela fatta a pennellate violente e tempestive come se a dipingerlo fosse stato un pittore colto da un raptus.

Mitsuya fece un fischio, la mano poggiata sulla parte bassa della schiena del suo fidanzato, anch'esso leggermente zoppicante.
A Mikey non passò inosservato il modo in cui Hakkai arrossiva come un tulipano ogni volta che Takashi gli sfiorava un lembo di pelle con le sue dita grosse.

«Wow! Raccontate un po'!» insisté Smiley intrufolatosi nel discorso. La solita curva ampia gli sollevava gli angoli della bocca in un caldo sorriso irrisorio.
Chifuyu bonficchiò qualcosa che Mikey non riuscì a capire, poi si rifugiò dietro Baji, lasciando a lui il compito di sbrigarsela con i suoi amici.

Non li stava più ascoltando ormai. Il suo sguardo si era perso lungo la stanza, il suo cervello aveva preso a vagare. Gli capitava spesso di perdersi nei dettagli, nelle pieghe degli abiti, nelle legature delle sedie in vimini. Se ne stava lì con gli occhi soffermi e le dita in grembo, i rumori di sottofondo parevano una sinfonia; lo sbattacchiare della ceramica dei piattini contro il bancone di marmo, il tintinnare delle sedie contro il pavimento, il raspare dei mormorii dei ragazzi, il ticchettare del biliardino. Tutto pareva una colonna sonora, i titoli di coda.

La sua storia finiva così? Tutti felici e contenti, a parte Mikey.
La verità era che lui non aveva nessuno. Era solo l'invincibile, solitario, Manjiro. Poteva mentire ai suoi amici mostrandosi come l'Arlecchino della situazione, ma dentro di sé sapeva bene che il sorriso che si cuciva sulle labbra ogni mattina assieme alle movenze del viso non erano altro che una recita, una maschera. Era il più bravo attore che si fosse mai visto, un regista, un attore, uno scenografo. Il regista del film della sua stessa vita, uno scarto di un film scadente.
Come sarebbe potuto andare avanti ora?

Cos'era lui se un involucro di sensazioni ripiegate su di loro come un abito da tempo smesso. Era un fiore raccolto da un campo su cui i padroni portavano i propri animali a fare i loro bisogni.
Come un vaso che perdeva acqua da una parte, lui perdeva la sua essenza dalle fessure dell'anima.

Non avrebbe mai avuto nessuno in grado di riparare quelle ferite. Le perdite non si possono chiudere con lo scotch, perché poi la plastica si bagna e la colla si scioglie. Aveva bisogno di ceramica, di carne viva da amputare a qualcun altro e ricucire su sé stesso, sulle ferite che gli sanguinavano fino a creare un'emorragia.

E certe cose non te le aspetti. Sei lì che pensi e piangi e tremi, e non te lo aspetti. Mikey nel veder Draken varcare la soglia della porta del pub, il campanellino che scattava a contatto col vetro del portone, bello come un angelo sceso direttamente dal Paradiso, con le ciglia lunghe fatte d'inchiostro e la treccia morbida lungo la spalla, non se lo aspettò. Le linee scure del tatuaggio parevano ricami fatti da un pittore, un disegno segreto con uno svincolo alla fine.
Con le dita affusolate strette alla maniglia d'ottone e la camicia a fantasia tropicale con le ananas stampare a random su uno sfondo nero, sbottonata sul petto che pareva una spiaggia fatta di sabbia dorata.
Era il mare e l'irruenza delle sue onde era ferma nelle sue iridi, calde e profonde come una fonte termale.
Gli mozzò il respiro in gola.

Si era soffermato sull'interno del pub, sui divanetti di pelle nera, sulle luci soffuse che facevano sembrare i visi tanti quadri di porcellana, tele color perla inchiostrate delle forme dei sensi, desolazioni infinite di dune di sabbia. Lo vide scorrere con lo sguardo attraverso l'aria, bucare la soglia che sembrava un pericardio protettivo, scindere ragione e razionalità dalla rabbia, dalla frustazione.
Non lo vedeva più da mesi, da tanti mesi, da quando era partito senza dire più una parola, senza emettere un suono.
Non lo aveva pregato di rimanere, non lo avrebbe mai fatto; lui non tratteneva chi voleva andare, Mikey donava libertà non servitù. Draken era stato libero di sparire, di andare dovunque preferisse con chi preferisse e anche se la cosa lo distruggeva, non si sarebbe mai opposto.

E poi spostò la testa, lo sguardo navigò su quelle teste familiari, fino ad incontrare i suoi occhi.
Fu una scarica di adrenalina nel cuore, lo sentì battere all'impazzata contro la cassa toracica come fosse stato un maratoneta a pochi metri dal tagliare il traguardo. Non riuscì a pensare a nulla se non a Draken, al modo in cui era fermo sulla porta a guardarlo, al modo in cui l'aria dell'intero pub si rimescolasse assieme al profumo della colonia italiana del suo Ken-chin.

Quasi non si rese conto di averlo lì.
Gli pareva un'allucinazione visiva, una mancanza di sonno, un attacco di isteria; poteva davvero finire in manicomio se continuava così.
Ma dovette ricredersi, perché non solo Draken era lì, stretto nella sua camicia di cotone nera, ma gli si stava anche avvicinando, e a lunghe falciate come se dovesse raggiungere un obiettivo.

Non riuscì a muovere neppure un muscolo. Seduto sullo sgabello nero, le gambe irrigidite, lo osservò camminare verso di lui, il cuore che ballava la pole dance nel suo petto.
Più si avvicinava, più gli sembrava perfetto e impeccabile perfino dopo mesi passati ad odiarlo per via telepatica.

«Mikey…».
Non gli diede il tempo di dire altro, le sue braccia agirono prima che il cervello desse l'imput. Reazioni istintive dettate più dall'abitudine che dai neuroni in movimento. Si sentiva in black out, un bornout che lo aveva fuso da dentro bloccando tutte le sinapsi del suo cervello come se ci fosse stato un cartello con su scritto “lavori in corso”.
Lo strinse tra le braccia, saltandogli al collo, gli avambracci che si avvinghivano a lui, alle sue ampie spalle.
La nota acidula del suo olezzo gli riempì le narici, il suo naso si espanse.

«Draken…» si ritrovò a sussurrare, le labbra che si mettevano in modo senza consultare il cervello. Ancora una volta non aveva i comandi di quegli impulsi che dettavano le azioni più impulsive, quelle che non riusciva proprio a captare.

Era forte e adamantino Draken, imperscrutabile come una quercia e verde allo stesso modo. Gli riempì il cuore di frenesia, una smania egoista di averlo tutto per sé mentre ignorava il resto del mondo e abbracciava il suo Draken.

«Ehyy…piano, ti farai male» gli disse lui, ricambiando la stretta con fare molto più moderato. Non sembrava freddo, solo più attento nei gesti, particolarmente attento a non fargli del male.

«Quanto mi sei mancato, idiota» bonficchiò, affondando la testa nella sua spalla. Non riusciva a trattenere il respiro che come una locomotiva gli balzava in gola. Gli era mancato si, e anche tanto. Volle farglielo intuire mentre si aggrappava con tutte le sue forze a quel corpo muscoloso, con le dita che affondavano nelle scapole forzute e le gambe sospese da terra. Era sempre stato più alto di lui Ken-chin, ma non gli importava. Non se Draken poteva essere il suo migliore amico, non se Draken lo abbracciava quando aveva gli incubi e quando piangeva disperato.

Draken era il suo perché, la risposta agli stessi quesiti e la domanda stessa.

Poi, lo lasciò andare.
Il suo sguardo si era soffermato su quei gigli freschi, sui fiori racchiusi nelle sue iridi e le rose dipinte sulle sue labbra.

Come se fosse appena uscito da una trance, si riscoprì a rivivere ciò che aveva fatto; l'arrivo di Draken, lo sguardo di lui che naufragava nella stanza, il suo balzo per abbracciarlo. Non avrebbe dovuto farlo, non dopo che il suo cuore aveva appena messo i punti per cicatrizzare le ferite, non quando Draken lo aveva abbandonato per mesi.

Dovette sentire il cambiamento dell'aria, perché lui lo percepiva come un filo spezzato, come un pezzo di ferro piegato. Sapeva di bruciato, tutt'attorno l'aria sapeva di carbonizzato come qualcosa che è andato in fiamme e ora diffonde il suo olezzo in tutta la stanza. Non capiva perché continuasse a percepire quell'odore che- Oh!

Il suo sguardo affogò nella carne della mano, la stessa mano ferma in aria appiccicata alla sigaretta accesa di Draken. L'olezzo di bruciato pareva un diffusore per ambienti il cui odore naviga in tutta la casa come una macchia d'inchiostro.
Era la sua carne che bruciava, il suo aroma che invadeva l'aria a gocce, le stesse che gli solcavano il dito in piccole chiazze rossastre. Non percepiva il fuoco della sigaretta contro l'indice, era solo un vago e distante mondo.

Fu Draken ad allontanargli la mano. La sua mano grande e calda ad allontanargli le dita. «Cazzo» aveva urlato mentre metteva giù la sigaretta e con uno scatto afferrava la sua mano. «Stai bene, Mikey?».

Il suo tono era come lo sbattacchiare delle onde contro la sabbia, il frusciare delle lenzuola appena svegli in una mattina di sole. Se avesse potuto associare un colore alle voci, quello di Draken sarebbe stato il giallo. Vivace e allegro, solare e attento, illuminava chi aveva intorno, proteggeva e scottava se ti avvicini troppo.

Mikey non seppe far altro se non annuire, le labbra incollate tra di loro come se qualcuno gliele avesse improvvisamente cucite insieme con ago e filo. Una bambolina di porcellana, ecco come si sentiva. Una bambolina sul punto di cadere contro il pavimento e rompersi in mille pezzi.

Non riuscì a guardarlo in faccia mentre bonficchiava una scusa e correva in bagno, seguendo la direzione dei suoi piedi, le mani che tremavano come scosse da un lampo di corrente. A malapena riusciva a mettere a fuoco per bene il luogo nel quale si trovava.
Passando accanto ai divanetti urtò un paio di ragazzi, non seppe dire se fossero della Toman o meno, non li aveva guardati in viso decisamente troppo sconvolto per farlo.

Gli sembrava di vedere sangue dappertutto. Sulle sue mani, sui suoi vestiti, sul suo viso.
Gli sembrava di star ancora stringendo Emma a sé, il suo corpo sottile e profumato, quell'aroma di pesca che riecheggiava nell'aria come un premonito. La sua piccola sorellina.

Aprì con una spallata la porta della toilette, non fece neppure caso al genere del bagno. Ci si inoltrò dentro, il fiato che gli si ripeteva nelle orecchie come un vulcano in eruzione, la bocca asciutta.
Gli si aprì la visuale della stanza con i lavabi, alcuni ragazzi che si lavano le mani col sapone con le bollicine e ridacchiavano evidentemente ubriachi.

Voleva urlargli di andarsene, di non guardarlo, di non avvicinarsi, ma dalle labbra secche non riusciva ad uscire nulla. Il vuoto più totale.

Un ragazzo gli si era accostato, le dita lunghe come un deserto arabico, la pelle mulata. Gli aveva poggiato il palmo liscio contro la spalla, si era curvato in sua direzione chiedendogli qualcosa. Le sue belle labbra si aprivano e chiudevano e Mikey sentiva i suoni che ne uscivano a rallentatore come se qualcuno avesse abbassato la manovella del volume anche nella sua mente.
Annaspò, aggrappandosi allo stipite della porta.

Gli altri ragazzi lo stavano guardando, i loro cipigli curiosi come se stessero osservando un esperimento.
Gli sembrava di essere un mostruoso animale da fiera, un fenomeno da baraccone. Il pagliaccio del circo che viene messo in mostra a tutti gli spettatori.

«Sparite» aveva ordinato qualcuno. Quel suono gli era arrivato alle labbra come un sospiro d'anima, uno sprazzo di realtà che si era riuscito ad infiltrare oltre le sue difese come una spia russa.

Riconobbe il suo tocco prima ancora che la porta si chiudesse dietro il viavai di quelle persone. Avevano svuotato il bagno delle loro presenze, le ombre del loro passaggio aleggiavano sul marmo dei lavabi ancora sporchi di sapone e schizzi d'acqua.
Gli aveva afferrato la mano con delicatezza, uno sfioramento simile allo sfarfallio d'ali di una farfalla, zucchero filato soffiato sulla sua bocca.

«Ti fa male? Vieni mettiamo un po' d'acqua».
Lo aveva trascinato fino ai lavandini, le membra affievolite avevano obbedito a quelle incitazioni.
Gli tremavano le dita così forte che dovette serrarle tra di loro.

«Vieni, mettile sotto il getto d'acqua» gli disse, spingendogli le mani sotto il liquido fresco. Sussultò, le nuvole che aveva nella mente si erano dissolte come dopo una tempesta. La nebbia che gli offuscava i sensi come un guanto era scomparsa, sostituita da una lucidità allarmante, il suonare di una campana dentro di sé, la scritta a caratteri cubitali che recitava “pericolo” collegata al viso di lui.

«Draken» sussurrò. Si staccò da quella presa con uno strattone, le dita che tremavano convulsamente, la bocca che si schiuse sotto la morsa di quel tocco.
Era tornato, era lì accanto a lui.

Di tutta risposta il biondo si limitò a guardarlo, un'espressione tormentata stampata in volto. Pareva addolorato da un mostro che lo corrodeva come un tarlo e che gli mordeva la lingua così forte da impedirgli di esporre il suo demonio alle prestanze del suo migliore amico. Mikey era lì che lo osservava, ancora incredulo di averlo lì, ancora titubante e deluso.

«Te ne sei andato» asserì, guardando oltre le sue spalle. «Mi hai lasciato qui» gli fece notare con la bocca che si riempiva di amaro. L'immagine di Draken dinanzi a lui si era fatta simile a un disegno sfocato, le lacrime che premevano per bucare quella patina illusoria creatasi sulle sue iridi. Sembrava volerlo proteggere dalla verità Draken, dal male del mondo, dal dolore, solo incastrandogli le sue stesse dita sugli occhi e conducendolo per mano per un sentiero fatto di vetri rotti e siringhe infette. La loro strada non era altro che un loop di sbagli e vizi, un mondo dove anche solo piangere poteva farti finire annegato e morto nel tuo stesso dispiacere. Gli stava stretto quel posto, se ne sentiva oppresso come un claustrofobico.

«Mikey…».
C'era un tormento inafferrabile nel suo tono, qualcosa di simile a un incubo che si impossesseva di lui, un mostro che gli raschiava i sentimenti e li accartocciava fino a renderli organi sanguinanti.
Non gli permise di continuare o giustificarsi, si fece più vicino ignorando il fremito che gli percorreva la schiena e che scendeva giù fino a raggiungergli le gambe.

«Te ne sei andato quando più avevo bisogno di te, Ken-chin. Te ne sei andato di notte come un ladro e mi hai abbandonato, hai preso il mio dolore e te lo sei infilato in tasca come un souvenir. Te ne sei andato dopo che Emma…» dovette mordersi la lingua a sangue per impedirsi di scoppiare in un singhiozzo prolungato. Quell'intervallo di tempo che gli mozzava il respiro più del rumore stesso. «Emma è morta, Izana mi ha abbandonato, Shinichiro è distrutto e t-tu…te ne sei andato, Draken. Hai preso le tue belle cose, le hai impacchettate e hai preso il primo aereo disponibile. Mi hai lasciato qui a piangere da solo, perché il tuo dolore non poteva mischiarsi al mio, perché hai sempre preferito Emma a me!».

Quell'ultima frase l'aveva sputata fuori come se fosse stata un capriccio, una lamentela fatta da un bambino viziato.
Lo riconobbe negli occhi di Draken, nel modo in cui trattenne il fiato prima di lasciare andare; lo aveva ferito.

«Non è vero, Mikey. Non ho mai preferito lei a te, lo sai benissimo. Semmai era il contrario. Nessuno ha mai avuto il vero me a parte te» disse il biondo, la voce che somigliava al grattare di una penna contro un foglio bianco e pulito. Una scrittura lineare e rapida come il frusciare  delle foglie.

Lo guardava in viso Draken, i suoi occhi color tempesta erano soffermi in quelli dell'altro, le sue dita erano ancora bloccate a mezz'aria dove poco prima c'era la sua mano. La mano che aveva sottratto alla sua presa come se avesse preso la scossa solo toccandolo.

«Tu hai avuto più me di chiunque altro, Mikey. Nessuno, nessuno, ha preso né prenderà mai il tuo posto, tu hai un posto in me scavato tra la carne, un incastro tra le mie ossa e i miei legamenti. Sei attannagliato al mio corpo e ti colori della mia anima ogni volta che ti sfugge un respiro. Sei in ogni cosa Mikey, perché continui a dubitarne?».
Aveva sollevato il viso, le lunghe ciglia scrollavano dalle sue iridi sfumature di colore, lo sbatocchiavano a terra scuotendolo come coriandoli.

Quando riprese a parlare gli tremava la voce come se qualcuno glie'avesse calpestata con le suole delle scarpe.
«Si, sono scappato, sono andato via, ma era solo perché non sopportavo l'idea di dover ammettere che Emma non c'era davvero più, solo perché ogni volta che ti guardavo rivedevo lei. Solo per questo Mikey, e perché…sono un codardo.»

I pugni si contrassero, le nocche sbiancarono. Gli era sfuggito un gemito di sofferenza, un raschiare di dolore che gli si inoltrava nella pelle come un virus. Lo sentiva riprodursi sotto pelle come un acaro.
Gli prese la mano, incurante di ciò che gli aveva detto prima, la strinse tra le sue.

«Ken-chin» soffiò, la voce ridotta ad un soffio di fiato, un granulare simile a sabbia. Lo aveva condotto sino ai suoi occhi, si erano incastrati e scambiati i colori, si erano rimessi in modo col solo battere delle ciglia.

Gli circondò il collo con le sue braccia. Il cuore caracollò contro la cassa toracica, premette e provò a sfuggire passando dalle fessure tra le costole. Lo ingoiò con facilità, serrando la presa attorno al suo Draken.

«Mi sei mancato tanto» ammise, un singhiozzo frammentò l'aria riducendola a brandelli come vesti strappate.
Draken titubante lo strinse un po' a sé, ricambiando la stretta, stavolta Mikey non si allontanò.

Lo prese per mano e si fece un po' più distante per poterlo guardare negli occhi. Sorrideva, una piccola goccia alabastro solcava le guance come un diamante sciolto.

«Andiamo a casa, Ken-chin».

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«Avranno risolto le loro divergenze?».
Chifuyu osservava il suo ragazzo, il bicchiere stretto tra le dita, la leggera patina creata dal ghiaccio si era offuscata a contatto con le sue dita.

«Ma certo, piccolo» asserì Baji, circondandogli il collo con il suo braccio. Lo trasse a sé, respirando il suo odore. Gli era mancato il suo Chifuyu, la sua pelle diafana e le dita sottili. Certo, lo aveva condiviso con Mikey ma ciò non voleva certo dire che fosse disposto a rifarlo, anzi…

Era stato contento di poter aiutare, di riuscire a risollevare l'umore di Mikey, di provare a strappargli un po' di quella patina che gli offuscava la vista, la stessa patina che Draken gli aveva accuratamente appiccicato sugli occhi

«Baji-san, ma mi stai ascoltando?!».
La voce di Chifuyu lo riscosse dai suoi pensieri. I suoi occhioni azzurri lo inquadravano in quella prospettiva obliqua, la testa poggiata sulla sua spalla.

«Uhm, no, piccolo. Dimmi» disse come se nulla fosse. Il suo tono graffiante era simile a un canto.

Il pub aveva iniziato a riempirsi, gli ospiti andavano di qua e di là, scambiandosi occhiate, sorrisi, baci. Il vociare sommesso di quelle persone pareva una cantilena simile ad una preghiera. Qualcuno doveva aver impostato una playlist di canzoni perché le casse rimbombavano basse e le luci se ne stavano lì soffuse a riecheggiare come acqua colorata contro i loro volti. Si muovevano come in simbiosi, creando e scolpendo strani lineamenti sui loro volti.

«Chifuyu, piccolo» borbottò Keisuke, ignorando il broncio messo su dal suo ragazzo. Gli intrappolò un ciuffo dei suoi biondi capelli dietro l'orecchio.
«Andiamo in bagno?» sussurrò suadentemente, le labbra avvinghiate al suo collo. Un soffio ardente che peravae le membra del suo Chifuyu.

«Uhm…».
Chifuyu gli prese la mano, intrecciandola alla sua. Sapeva di biscotti Chifuyu, un odore simile a quello dei dolci che preparava sua mamma, qualcosa di piccolo ed estremamente dolce come una spiaggia inesplorata.

«Andiamo, piccolo».
Non aspettò una sua risposta, lo prese per il polso, le dita che affondavano in quella pelle perfetta e lo trascinò con sé fino in bagno. Chifuyu sbuffò una risatina.

Baji lo incollò alla parete accanto ai lavabi, le labbra che già prendevano a succhiargli la pelle del collo con inerzia, le dita che si avvinghiavano ai suoi fianchi.
Lo sollevò con uno scatto, mettendolo a sedere contro il lavandino. Si sentì stringere dalle sue mani, lo osservò strattonare la sua camicia fino a liberarne la pelle e farne saltare i bottoni come fossero stati petali di una margherita.

«Piccolo…» ringhiò contro la sua gola, i denti gli graffiarono la pelle marchiandola con la sua saliva e il suo sigillo. «Se continui così non ti faccio camminare più per tre mesi» lo avvertì, un gemito sommesso nelle pareti della bocca. Non riusciva affatto a trattenersi quando si trattava di Chifuyu, non se la sua gola era così vicina alle sue labbra, non se quelle cosce ampie gli si avvinghiavano in quel modo ai suoi fianchi.

Lo strattonò in malo modo contro la sua bocca, la lingua che saettava a separargli i due lembi di carne in un chiaro e manifesto invito. Gli scavò contro le labbra, lo morse a sangue contro la quella pelle, respirò contro la sua bocca. C'era qualcosa in quei gemiti che gli caricava le vene di adrenalina, lo rendeva febbricitante e caldo, rovente come un fuoco scoppiettante, col cuore che ballava nel petto come un temporale.

«Baji-san…».
Quasi non gli permise di concludere la frase. Gli calò i pantaloni assieme ai boxer e fece lo stesso con le sue vesti, le dita che tremavano quasi.

«Festeggiamo un po' anche noi, che ne dici?» gli soffiò contro il lobo dell'orecchio, prendendolo tra le labbra bollenti. Chifuyu si contorse sotto il peso di quelle carezze, gli conficcò le unghie nelle spalle e cacciò un lamento accennato.

«Ti prego, Baji-san» lo supplicò, strusciandosi contro il suo ventre fino a strappargli da quelle labbra perfette e rosse come una fragola, un grugnito.
Riecheggiò nell'aria come fosse stato un singulto.

«Hhmm, sei così buono, piccolo» asserì, gli si aggrappò alle cosce, gli succhiò il collo come un vampiro, con i denti che sprofondavano in quella soffice distesa di nuvole. Non gli diede il tempo di pensare a qualcosa. Gli si accostò, si fece largo tra le sue cosce femminili. Il suo palmo corse a carpire quella distesa di dune, ne prese una manciata tra le dita e sprofondò nelle carni tenere di Chifuyu.

Gli strappò un gemito acuto dalle labbra, un urlo risuonante lungo tutte le pareti come uno schiocco quando con irruenza prese a muoversi in lui, un ritmo già serrato, le spinte dure e profonde.

«Abbia pazienza, piccolo. Possiamo concederci una sveltina, non più» biascicò, divulgando quelle parole come fossero state miele da sciorinare lungo il suo corpo.

Raccolse con la sua lingua le goccioline che gli scorrevano lungo la spalla, le ingoiò assieme alla saliva e gettò il capo all'indietro. Chifuyu lo avvolgeva con le sue pareti ad ogni spinta, lo stringeva e strizzava come fosse stata una sciarpa calda. Stargli dentro lo faceva sentire un dio, un maledetto dio seduto su un trono di ardesia, gemme nere.

Gli occhi di Chifuyu erano lapislazzuli da cui colava il mare, li vedeva sciogliersi come burro e lasciar cadere l'essenza di lui come uno shampoo. Lo spargeva contro le sue labbra e se ne cibava come un vagabondo. Si nutriva di quella bocca golosa, assaggiava il suo sapore e ne restava asservito.
Era come una baita, un rifugio lontano nel quale sostare, nel quale tornare ad essere sé stessi liberandosi di quella armatura pesante e serrata, lasciando respirare la pelle e l'anima.
La stessa anima che gli fluiva fuori dal corpo ad ogni gemito di Chifuyu.

Erano due poli complementari, una sostanza da dividere e spartirsi tra di loro. Spartiti da suonare a quattro mani, occhi da dover mescolare come una salsa. Lo baciava sulla bocca e viveva, ogni secondo passato a scoparlo era un secondo che si aggiungeva al suo vivere.
Lo sfiorava sul corpo e prendeva la forma di anima, di vita fluttuante.

«Resisti, piccolo. Da bravo».
Gli sigillò la bocca con la mano libera, le dita che saettavano contro quei lembi di carne umida, rovente come tizzoni di fuoco brullicante.
Prese a spingersi in lui, affondando in un'angolazione diversa, un susseguirsi di affondi rapidi e precisi, una stoccata ponderosa e sentì Chifuyu sciogliersi tra le sue braccia.

Lo avvertì scuotersi in preda agli spasmi dell'orgasmo, un piacere sibilante e lapidario che avvolse le sue carni prima che potesse ragionarci su. Avvertì le pareti di Chifuyu spremerlo, strizzarlo come un tubetto di acrilico, si sentì mozzare il respiro in gola mentre serrava con forza la presa sul collo del suo ragazzo e gli ansimava sulla spalla.

«Baji-san…!» lo sentì gridare in preda alla passione, lo vide caracollare contro il suo corpo, stremato e ansante.

Gli si riversò dentro, il suo interno rovente che lo scottava e incollava a sé come un marchio. Catene che arrischiavano e lo trattenevano come colla. Lasciò cadere la fronte contro la sua spalla, morbide ciocche color ebano fluttuarono in avanti.

«Piccolo…» mormorò. Gli teneva le dita aggrappate ai fianchi mentre lo sorreggeva stretto a sé. Il muro di fronte a loro aveva piccole crepe che si diramavano contro il soffitto.
Spero che non fosse colpa sua, tanto non avrebbe comunque ripagato i danni.

Il suo Chifuyu aveva preso a coccolarlo, le solite premure gentili che susseguivano il sesso, piccole carezze all'altezza della nuca e baci delicati sulle labbra o sulla punta del naso. Baji si morse il labbro inferiore, i canini che svettavano come alabastro vero e proprio, trattenne un sorriso.

«Ti amo, piccolo, ma scordati di rifare un cazzo di managé. O non ti basta il mio?»
Così dicendo diede una spinta più forte, un rude movimento nelle carni di Chifuyu, il quale gemette avvinghiandosi ai suoi capelli. Lo distaccò un poco da sé, inducendo i loro occhi a guardarsi.

«M-mi basta, Baji-san. Ti amo anch'io.»

Baji sorrise e prese a baciarlo. Infondo un altro round potevano concederselo.







Fine

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Spazio autrice:
Eh sì, siamo arrivati alla fine di questa avventura. Più che altro un esperimento che ho immaginato e scritto perché con l'inchiostro resta indelebile.

Mikey ha ritrovato il suo Draken e Baji è felice col suo Chifuyu.
Spero che vi sia piaciuto, vi ringrazio per esservi lanciati in questa nuova avventura con me e per aver speso il vostro tempo dietro le mie fantasie, non è mai scontato ciò che mi lasciate o che mi fate provare. Voglio fare una piccola nota di merito a Kyulia03 perché è stata lei ad aiutarmi e ascoltarmi mentre questo progetto prendeva vita e soprattutto a supportarmi e sopportarmi che non è semplice hahah. Perciò, ti ringrazio Kyulia, ti ringrazio tantissimo perché mi dai sempre ispirazione e perché il periodo buio che mi perseguita come la nuvola nera di Fantozzi quando ci sei tu smette di muoversi❤️

Ebbene, siamo alla fine però non temete! Presto arriveranno altri progetti e se vorrete leggerli, odiarli o amarli, saranno qui.
Vi lascio qualche piccolo spoiler riguardo essi:

1. Una Long Shot su un threesome tra Baji, Chifuyu e Kazutora (molto piccante!)
2. Due One Shot che parteciperanno alla challenge del BLUTeam_ (che vi invito a visitare, per i fantastici contenuti e le idee splendide che hanno!) sul Pride Month.
3. Una fantasy Bakudeku (un pochino magica!)
4. Una DrakenxMikey (One Shot) sempre ricollegata a questa Long Shot, perciò se vi piace la ship e passate a dare un'occhiata mi fate felicissima hahah ;)

Infine, - ma questo non sono sicura  di quando uscirà - arriverà una piccola Dark/Thriller Story incentrata sulla famiglia della Bakudeku.

Bene ora ho davvero finito e vi lascio in pace, vi ringrazio ancora e vi mando un bacione❤️

Lilla

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