35. Tremendamente.
Non respiro.
Ho la tachicardia, le mie orecchie fischiano ed io non respiro.
Davvero.
Potrei morire proprio ora.
L'uomo continua a fissarmi, gli occhi grandi e glaciali.
Hanno lo stesso colore del ghiaccio e mi fanno terribilmente paura.
Mi dice di stare in silenzio ed io obbedisco.
Non riesco più a dire una parola.
Cosa devo fare?
Rimanere qui e aspettare che riesca ad entrare in auto?
No.
Non posso permetterglielo.
I miei occhi si posano sulle chiavi che ancora dondolano vicino al volante e sto per mettere in moto la macchina quando lo sconosciuto batte forte due pugni contro il finestrino.
Un altro urlo scappa dalla mia bocca e la chiave, a causa del mio sussulto, cade sul tappetino.
Ecco.
Sono spacciata.
Mi abbasso per recuperarla, ma continua a sfuggire dalle mie dita tremolanti ancora e ancora.
Poi, finalmente, riesco a prenderla.
Il panico sparisce per un istante, il cervello riprende la sua lucidità e riesco a mettere in moto e partire.
Lo stalker balza indietro per salvare i suoi piedi dalle mie ruote ed io sfreccio sull'asfalto, lanciandogli diverse occhiate grazie allo specchietto retrovisore.
Se ne sta in mezzo alla strada, immobile.
Continua a fissarmi.
Ho i brividi.
Gli lancio altri sguardi fino a quando un botto arresta la mia corsa. Sento il rumore dei freni, la macchina che si ribalta, il mio corpo che si muove dentro l'abitacolo.
E poi non vedo niente più.
Quando riapro gli occhi, mi circonda una strana calma. Sbatto le palpebre, mi guardo intorno e osservo le mura verdi della stanza.
Accanto a me, un comodino azzurro ed un vecchio armadio blu.
I miei occhi si posano sulle lenzuola bianche che circondano il mio corpo, sulla mia gamba ricoperta da garze e, poi, sulle mie mani piene di cerotti bianchi.
Il mio cuore, adesso, comincia a battere più veloce.
Sono all'ospedale.
Alla mia sinistra c'è un altro letto su cui si trova una signora addormentata.
Su una sedia, vicino a lei, c'è una ragazza che mi sorride non appena i nostri occhi si incontrano.
«Ehi», si alza e cammina in fretta verso di me, facendo aumentare il mio panico.
Chi è? Ci conosciamo? Oddio.
Oddio, ho perso la memoria.
«Il dottore ha detto che hai preso una bella botta», bisbiglia per non svegliare la donna, «Vado a dire all'infermiere che ti sei svegliata», detto questo, esce dalla stanza velocemente per poi tornare insieme ad un signore di circa quarant'anni.
L'uomo, con il suo camice verde, avanza verso di me e mi rivolge un sorriso dolce: «Ciao», mi dice, «Come stai?»
«Non-», sono costretta a schiarirmi la voce per continuare a parlare, «Non lo so», ammetto poi, «Che è successo?»
«Hai avuto un incidente, cara. Hai perso il controllo della macchina e ti sei schiantata contro un lampione della luce», mentre parla, controlla attentamente i miei occhi, «Non lo ricordi?».
E come in un flashback, nella mia testa rivedo lo stalker, i suoi occhi glaciali, il modo in cui continuavo a fissarlo dallo specchietto retrovisore.
«Ah», è tutto quello che riesco a dire.
Lui arriccia le labbra e apre l'armadietto, dunque tira fuori la mia borsa e la sistema sul comodino.
«Questa è tua», mi dice.
La riconosco.
«Vuoi chiamare qualcuno?».
Annuisco silenziosamente e cerco il cellulare con le mani tremanti.
Ogni mio movimento mi provoca dolore all'altezza delle costole e l'infermiere sembra notare la mia sofferenza.
«Hai diversi ematomi su tutto il torace ed una costola incrinata. Ti hanno dato sette punti alla gamba e sei alla mano. Due sulla fronte. Sei stata fortunata, sai. Poteva andarti peggio».
Mentre parla mi viene voglia di piangere, ma cerco di trattenermi.
Sono solo delle cicatrici.
Sono viva.
Ma perché ho voglia di scoppiare in un pianto disperato?
Il cellulare trema nella mia mano e mi concedo diversi respiri profondi.
Sono le cinque del mattino.
Chi devo chiamare?
Fisso il display e mordo l'interno della mia guancia più volte, poi noto alcune chiamate perse da parte di Mattia e un gentile messaggio in cui mi chiede, sempre gentilmente, dove cazzo sono.
Decido di chiamare proprio lui.
Risponde al terzo squillo e, stranamente, non dice una parola.
Sta aspettando che sia io a parlare.
«Mattì», dico.
«Adè», sospira rumorosamente, sembra stia cercando di mantenere la calma.
«Ho avuto un incidente»
«Che significa che hai avuto un incidente?», diversi fruscii mi fanno capire che si sta muovendo, «Che è successo? Ma come stai? E dove sei, Adè?».
Sentire il suo tono di voce preoccupato mi provoca un profondo nodo alla gola e non riesco a trattenere le lacrime.
Non so nemmeno io perché sto piangendo.
Ho avuto paura.
«Stai piangendo?», ancora fruscii, «Adè, riesci a vedere l'indirizzo? Esci dalla macchina. Puoi muoverti?»
«Sono all'ospedale», lo informo e tiro su col naso, «È tutto okay. Sto bene».
Silenzio.
Mattia sospira rumorosamente più e più volte, poi parla: «Sto arrivando. In quale ospedale ti trovi?».
L'infermiere mi suggerisce il nome della struttura in cui mi hanno portata e la comunico al mio coinquilino che raggiunge l'ospedale in tempi record.
Lo vedo entrare nella stanza, il casco tra le mani e i capelli del tutto scompigliati.
I suoi occhi perlustrano la stanza fino a quando non si posano sul mio corpo.
Il suo volto è pallido, le sue iridi scure brillano ed il suo pomo d'Adamo va su e giù mentre fissa il mio viso, le mie mani e le mie gambe.
«Mi farai morire, Adè», è la prima cosa che dice. Abbandona il casco sul pavimento e si avvicina al mio letto; si abbassa all'altezza della mia faccia e mi lascia un bacio sulla fronte.
Il mio cuore batte nel petto all'impazzata e vederlo qui, preoccupato per me, mi fa venire nuovamente voglia di piangere.
Ma perché?
Dannazione.
«Come stai? Ti fa male qualcosa?», osserva le garze sulle mie mani, il sangue incrostato sulle braccia e deglutisce ancora.
«Sto bene», parlo con un filo di voce, «Non preoccuparti»
«Come cazzo faccio a non preoccuparmi, Adè? Com'è successo? Gesù, sei piena di ferite», recupera una sedia in metallo, quindi si siede vicino a me e aspetta che sia io a dire qualcosa.
Lancio un'occhiata alla signora con cui condivido la stanza e noto che sta ancora dormendo. La ragazza di prima, invece, è andata a prendersi un caffè.
A quanto pare è la figlia e non ci siamo mai incontrate.
Niente perdita di memoria, grazie al cielo.
«C'era un uomo», dico.
«C'era un uomo? Ti ha tagliato la strada?», si muove nervosamente ed io scuoto la testa.
«No, no. Io ero ferma davanti il cancello di casa e-»
«Ti è venuto addosso? Ma lo hanno preso?»
«Mattì, però mi devi fare parlare», lo interrompo e lui si zittisce, «Sta calmo. Non mi è successo niente. Sto bene».
Il moro respira profondamente e annuisce, poi mi incita a continuare.
Gli racconto di quello sconosciuto con il volto coperto, gli occhi chiari.
Gli dico che ha dato dei pugni al finestrino, che ha continuato a fissarmi fino al momento dello schianto.
«Era lo stalker», dico, «Era sicuramente lui. Si trovava già sotto casa nostra. Mi stava aspettando, credo. Non lo so. Ma ho avuto paura e sono andata a sbattere contro un lampione».
Mattia non dice una parola e passa nervosamente la mano tra i capelli.
Passa la lingua sulle labbra, muove nervosamente la bocca e poi parla: «Pensi di conoscerlo? Hai riconosciuto gli occhi?»
«No», ammetto, «Mai visti degli occhi del genere. Erano grigi. Quasi azzurri. Non te lo so nemmeno spiegare»
«Va bene», dice, la sua espressione diventa sempre più seria, «Va bene. Lo Troveremo, Adè. Te lo giuro. Lo troveremo».
🌻🌻🌻
Torno a casa dopo due interminabili giorni. Le mie condizioni, comunque, non sono ancora migliorate.
Sento dolore praticamente ovunque.
I miei genitori si sono precipitati a Palermo non appena hanno saputo dell'incidente e Salvo continua a riempirmi di attenzioni.
E adesso siamo fermi davanti alle infinite scale del condominio in cui vivo, insieme a Mattia e a Luca.
Mio padre fissa l'ascensore guasto e fa una smorfia: «Non hai trovato di meglio, Adele? Ma che ci vivi a fare in questo posto?», ecco.
Sapevo che avrebbe commentato in questo modo.
Deglutisco e alzo gli occhi al cielo, quindi faccio una smorfia di dolore mentre salgo il primo gradino.
«Mi piace qui», dico, «C'è una bella vista»
«Quando ci arrivi, al settimo piano. Ma fate riparare almeno l'ascensore», questa volta è mia madre a parlare, «Se nessuno se ne occupa, ci penseremo noi. E poi, perché non torni a casa nostra? Hai bisogno di riposo. Chi si prenderà cura di te, qui?»
«Non dovete occuparvi di niente», sibilo, «L'ascensore di questo posto non è affar vostro. Mi piace fare le scale. Mi tengo in forma», invento sul momento e Luca trattiene una risata.
«Torna almeno a casa con noi», insiste Salvo.
Con noi, ovviamente, intende lui e mia madre.
Si stanno tutti sforzando di non discutere a causa di ciò che mi è successo, ma non tira per niente una buona aria.
Scommetto che finiranno con il litigare entro la fine della giornata.
«Ho degli impegni, qui. Devo presentare un progetto insieme ai miei colleghi, seguire le lezioni e-»
«E come farai a fare tutto questo, se non riesci nemmeno a salire le scale?», mio padre inarca un sopracciglio ed io schiudo le labbra.
Giusta osservazione.
Boccheggio, incapace di dare una risposta.
Stranamente è Mattia a salvarmi: «Ci pensiamo noi», dice, «Possiamo occuparci di lei», detto questo, si avvicina a me e tira su il mio corpo senza troppi sforzi, attento a non premere le dita sulle ferite, «Ti porto io», sussurra poi, cominciando a salire le scale.
Ah, beh.
Forse ho trovato un lato positivo dietro tutta questa storia.
Le mie guance vanno a fuoco per tutti e sette i piani.
Mio padre chiacchiera con Luca, mia madre sorride a Mattia e Salvo, molto probabilmente, vorrebbe picchiarlo senza nessun motivo in particolare.
Due ore dopo i miei genitori non sono ancora andati via.
Ci troviamo nella cucina, davanti a dei bicchieri di tè freddo, insieme a Ivan e Davide.
Sono venuti a farmi visita e adesso stanno chiacchierando con i miei genitori.
Io, seduta tra Mattia e Michela, non riesco a smettere di osservare il modo in cui mio padre pende dalle labbra di Ivan.
Anche Mattia sembra interessato alla loro conversazione. Non smette di fissare Ivan nemmeno per un istante.
«Sei un ragazzo molto intelligente», commenta mio padre, «Sono felice di averti conosciuto. Un amico come te può solo fare del bene a mia figlia. È raro trovare ragazzi con la testa a posto»
«I tuoi genitori di cosa si occupano, caro?», mia madre sorseggia un po' di tè.
Ivan sorride dolcemente, mostrando la sua fila di denti bianchi e dritti: «Oh, mio padre è un avvocato, mentre mia madre è una ginecologa»
«In quali ospedali ha lavorato? Forse siamo stati colleghi, in passato», mio padre continua e la conversazione diventa sempre più interessante.
Per loro.
Mattia si schiarisce la voce più volte, mi lancia diverse occhiate e poi, come punto da un ago, si alza di scatto: «Devo andare», mormora, «È stato un piacere», detto questo, saluta tutti ed esce dall'appartamento.
Di lui resta solo il profumo che aleggia nell'aria e la mia confusione.
Perché è scappato via in questo modo?
Osservo il punto in cui è sparito e poi mi sforzo di fare un sorriso a Ivan che ha praticamente conquistato tutti.
Mi chiedo se riuscirà a conquistare anche me, un giorno.
🌻🌻🌻
Mattia torna a casa alle due del mattino.
Lo so perché è andato a sbattere contro un mobiletto e ha imprecato più volte a bassa voce, ma mi ha comunque svegliata.
Cerco di tornare a dormire, ma continuo a sentire dei rumori e decido di provare ad alzarmi dal letto.
Questo gesto mi leva dieci giorni di vita, almeno.
Mamma mia.
Che dolore.
Mi trascino fino alla cucina dove trovo il mio coinquilino, intento a riempire un bicchiere con dell'acqua.
Sembra accorgersi di me e beve lentamente, poi sospira: «Ti ho svegliata?»
«Diciamo che il tuo rientro non è stato molto silenzioso», confesso.
«Scusa. Non volevo essere rumoroso», abbandona il bicchiere nel lavandino e passa una mano tra i capelli castani, «Come stai?»
«È come se una macchina mi passasse sopra ogni volta che respiro, ma tutto bene», sorrido e lui scuote la testa, scrutando attentamente le mie gambe ricoperte di lividi.
«Mi fa male vederti così», mormora poi, a bassa voce, «Vedi di guarire presto»
«Tu come stai?», deglutisco rumorosamente e cerco di placare il battito del mio cuore.
È la prima conversazione che facciamo da soli da quando mi ha detto che tra di noi non può funzionare.
Si abbassa per aprire un cassetto e tira fuori un po' di pane, poi recupera un barattolo di Nutella ed un coltello.
«Tutto okay», mi dice, «Ne vuoi un po'?».
Taglia una fetta di pane e mi ritrovo ad annuire, quindi prendo posto davanti a lui e non riesco a trattenere una smorfia di dolore quando mi siedo.
Voglio approfittare di questo momento per avere delle motivazioni.
Voglio conoscere il perché della sua decisione.
Mattia mi porge il pane e le nostre dita si sfiorano, causandomi un formicolio lungo tutto il braccio.
«Sei stato in giro?», cerco di fare conversazione.
Segretamente spero che non sia stato con Giulia.
«A lavoro. Un mio amico ha bisogno di un cameriere per l'intero mese»
«E andrai tu?»
«A quanto pare»
«La serata è andata bene?»
«Mh-mh», spalma la crema di nocciole sul pane e punta i suoi occhi su di me, «I tuoi sono andati via?»
«Già»
«Ti vedi ancora con il veterinario?», lo chiede così, fingendosi disinteressato.
Mastico il pane e ingoio, dunque rispondo: «Se lo hai visto qui, oggi, significa che siamo ancora in buoni rapporti»
«In buoni rapporti», ripete, «Bene. Mi fa piacere», morde il pane con talmente tanta forza che temo possa spaccarsi qualche dente da un momento all'altro, «Siete uguali», continua, «Appartenete allo stesso mondo»
«Cosa intendi dire?»
«Intendo dire che sembrate fatti l'uno per l'altra», il suo pomo d'Adamo va su e giù.
Stiamo davvero parlando di questo?
Che cosa fa?
Mi spinge tra le braccia di Ivan, ora?
Davvero gli importa così poco di me?
«Abbiamo la tua benedizione?», inarco un sopracciglio e a lui va di traverso il pane con la Nutella.
Comincia a tossire e le sue guance diventano rosse, poi riesce a riprendersi e mi fulmina con lo sguardo.
Come se avessi tentato di ucciderlo.
«Lo considero un no», continuo.
«Non hai bisogno della mia benedizione»
«Hai detto che siamo fatti l'uno per l'altro»
«Sembrate», sottolinea, «Sembrate fatti l'uno per l'altro. Ho detto così. Non significa che io sia felice di vedervi insieme».
Ah.
Cerco di trattenere un sorriso vittorioso e mastico con calma, «Perché no?»
«Perché no, Adè. Non fare la scema. Non c'è bisogno di spiegare niente»
«Invece c'è bisogno», mi sporgo un po' in avanti e faccio una smorfia a causa della fitta che mi provoca questo piccolo movimento, «C'è bisogno eccome. Non so come la pensi tu, ma io preferisco parlare e affrontare le cose senza lasciarle in sospeso. E noi due abbiamo proprio bisogno di parlare. Dammi un'altra fetta di pane».
Mattia scuote la testa e affonda il coltello nel barattolo: «Di cosa vuoi parlare, Adele?»
«Hai detto che tra di noi non può funzionare», dico di getto.
«Lo hai detto anche tu»
«Sì, l'ho detto anch'io», ammetto, «Ma non conosco le tue motivazioni. Vorrei sentirle».
Mattia mi porge una fetta di pane e arriccia le labbra, poi si alza per recuperare due bicchieri ed una bottiglia d'acqua.
Li riempie in silenzio e ne spinge uno verso di me.
«Non può funzionare. Fine della storia».
Mi viene voglia di immergere la sua testa nella Nutella.
«Va bene. Sai che ti dico? Vado a dormire», cerco di scendere dalla sedia e l'ennesima fitta di dolore fa deformare il mio viso.
Anche Mattia fa una smorfia, come se stesse soffrendo insieme a me.
«Adè, fermati. Fa piano, almeno»
«Sto facendo piano!», sbraito.
«Non può funzionare perché siamo troppo diversi», dice di getto ed io mi blocco, girandomi verso di lui per studiare attentamente la sua espressione seria, «Siamo cresciuti in contesti davvero troppo differenti. La mia famiglia non c'entra niente con la tua e penserai che non è un problema, ma lo è. Non ho niente da offrirti, la mia vita va a rotoli e, credimi, non puoi nemmeno immaginare il casino che ho nella testa. Non sono tranquillo, Adè. Non può funzionare»
«Okay».
Spero abbia finito, invece continua: «Poi, litighiamo di continuo. Una relazione del genere ci farebbe solo male. Non la voglio nemmeno, una relazione. Non mi trovo proprio in un buon momento per cominciare una storia. Cosa di cui tu hai bisogno. Vuoi una relazione stabile, Adele. Non riusciresti a starmi accanto, in questo modo»
«Hai ragione», mi viene voglia di piangere, «Non potrebbe funzionare. Non così, almeno»
«Spero che tu abbia capito», mormora, avvicinandosi di più al mio corpo, «Hai bisogno di una persona equilibrata. Di qualcuno che possa solo farti stare bene»
«Ho capito, Mattia. Non può funzionare. Lo penso anch'io», muovo un passo e sospiro, «Adesso vado a dormire, se non ti dispiace», mi avvicino alla porta e poi mi fermo: «Mattì»
«Cosa?»
«Avevo chiuso con Ivan perché volevo stare con te», mormoro e le sue labbra si schiudono, «Ma credo che tornerò sui miei passi. Forse merita un'opportunità. In fondo, lo hai detto pure tu, sembriamo fatti l'uno per l'altra ed è di certo una persona equilibrata».
La maggior parte delle cose che escono dalla mia bocca non le penso sul serio.
Sono arrabbiata.
Ferita.
Mi sta praticamente spingendo tra le braccia di qualsiasi altra persona che non sia lui.
Io non lo farei mai.
Non sopporterei di vederlo con qualcun altro.
«Adele», esce fuori quasi come un ringhio, «Stai interpretando male le mie parole»
«No. Le sto interpretando più che bene, invece. Tu non vuoi avere una relazione con me»
«Ma-»
«Non vuoi una relazione, Mattia. E dici che ho bisogno di una persona equilibrata. E non sei tu».
Lui rimane in silenzio ad ascoltare ogni mia parola. Muove nervosamente la bocca e continua a pulire il tavolo con una mano, togliendo chissà quale tipo di sporco.
«Darò una possibilità ad Ivan», annuncio, «Magari è la persona di cui ho bisogno. Mi tratta bene, è sicuro di quello che vuole ed è anche un bravo ragazzo. Dato che questa... Cosa che c'era tra di noi è finita, mi sento libera di intraprendere una nuova conoscenza»
«Questa cosa», ripete, grattando nervosamente il suo mento ricoperto da un sottile strato di barba, «Okay, Adele. Il tuo discorso non fa una piega. Sei libera di fare quello che ti pare», ripone il barattolo di Nutella dentro il cassetto e si gira a fulminarmi con lo sguardo, «Ma non farlo davanti a me, Adele. Io qui non lo voglio vedere».
Boccheggio per qualche istante e mi scappa una risata nervosa: «Che significa? È casa mia. Posso ospitare chi mi pare»
«Non voglio vederlo qui», ripete, «Fine della storia»
«Fine della storia un corno. Porto a casa chi mi pare»
«Non lui».
Ma stiamo scherzando?
«Guarda, Mattia. Forse sei stanco ed il tuo cervello non funziona più correttamente. Non ti rendi conto di quello che dici»
«Mi dà fastidio, Adele»
«Non vuoi una storia, ma ti dà fastidio vedermi insieme ad Ivan. Molto, molto coerente»
«Non voglio una storia, è vero. Ma non ho mai detto che io non voglia te. Mai. Ti voglio tremendamente e odio vederti con lui. Mi fa proprio stare male. Semplicemente, non siamo fatti per stare insieme. Ora vado a dormire. Sono stanco di discutere. L'argomento finisce qui», mi passa accanto senza degnarmi di uno sguardo mentre io rimango immobile, lo stomaco in subbuglio ed il cuore che martella forte dentro il petto.
Mi vuole tremendamente.
Il mio cervello ha recepito praticamente solo questa parte del discorso.
Mi trascino fino al letto e, con un po' di fatica, copro il mio corpo con le coperte.
Osservo il tetto e cerco di respirare regolarmente.
Sono confusa.
Da un lato vorrei urlare a causa della frustrazione, dall'altra credo di aver ottenuto una piccola vittoria.
Ha detto che mi vuole.
CIAO A TUTTI!
Capitolo un po' così.
Ho quasi ammazzato Adele, ma almeno abbiamo avuto dei chiarimenti sulle motivazioni che spingono Mattia a non voler stare con lei.
(C'è anche altro, ma ssh. Piano piano).
Abbiamo avuto anche una mezza dichiarazione. Che nel complesso non serve a niente, ma ehi, Adele si è portata a casa il punto.
Boh, sto delirando.
Ad ogni modo, fatemi sapere cosa ne pensate di tutto. Vi aspetto 😍😍
Un bacio grande e grazie. 💖
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