Il soffio
'Sono stato prudente'.
Mi affrettavo, trascinando appena la gamba destra, aiutandomi col bastone.
'Sono stato prudente', ripetevo a me stesso come un mantra, tentando di vincere il tremito che maligno mi pervadeva. L'umidità mi bagnava la barba.
'Sono stato prudente', sollevando e lasciando ricadere il batacchio. Sciabordio d'acqua cheta, dal canale appena a un passo.
Ignorai la serva che era accorsa ad aprirmi e mi diressi zoppicando allo studio, sprangandomi la porta alle spalle.
Quasi mi strappai la tunica cerata, e mi buttai stracco sul seggiolone intarsiato, accanto alla scrivania. Mi tolsi anche i guanti, più lentamente, e infine il lungo becco orrido, quella maschera così atrocemente beffarda da avvoltoio che avevo indossato prima di avviarmi.
L'odiavo, l'avevo usata poche volte e sempre, per fortuna, inutilmente.
Fino a quel momento.
'Sei ormai un vecchio', mi parve che qualcuno sussurrasse maligno al mio orecchio,'che diritto hai di far tante storie? Se pure la prudenza non fosse stata sufficiente...'
Espirai con forza, tentando di togliermi dalle narici il sentore di aglio, ginepro e rosmarino che alloggiavano nel rostro della maschera, e che dovevano impedire al soffio maledetto di raggiungermi.
Il soffio mortale, il 'pes'.
Lieve come un sospiro, bastava che ti sfiorasse ed eri morto. Per noi medici era il pes, per la gente qualsiasi: la peste.
Avevo dieci anni quando l'avevo incontrata la prima volta, nel 1577, e dopo non avevo mai più sentito un simile tanfo di morte, in oltre cinquant'anni.
La città, allora, era stata divorata, sventrata dalla malattia, e io avevo visto coi miei occhi persone disperate gettare i propri cari morti dalle finestre, direttamente nei canali. Un orrore che ancora riverberava, dopo una vita, nei miei incubi notturni.
In quei giorni ero stato portato a forza nel Lazzaretto nuovo, lì dove trascorrevano la quarantena coloro che erano entrati in contatto con dei contagiati. E io lo ero, innegabilmente, a rischio d'incubazione, visto che il resto della mia famiglia aveva già sintomi conclamati; ci avevano separati, li avevo visti condurre via col carro, disfatti ma irrigiditi, come burattini dai fili tagliati, destinazione Lazzaretto vecchio. Io dal Nuovo ero uscito, loro dal Vecchio no.
Scene rimaste incancellabili. Avevo voluto diventare medico per quel preciso motivo: per combattere quel mostro.
La Serenissima negli anni successivi aveva reso obbligatorio per l'equipaggio di ogni nave arrivata in porto un periodo di quarantena, che gli uomini erano tenuti precauzionalmente a trascorrere al Lazzaretto; e io avevo indossato la tenuta protettiva ogni qualvolta, tra loro, qualcuno aveva manifestato malesseri sospetti.
Ma mai era servita, quella prudenza! Mai, fino ad allora; fino a quell'odore che avevo percepito persino attraverso il filtro inzuppato di oli essenziali che mi proteggeva la bocca; mai, fino a quegli ascessi che la pelle nuda dell'uomo esibiva sotto le coperte, spostate di lontano, utilizzando l'anima metallica che si celava nel bastone, appositamente per quell'uso.
'Sono stato prudente', mi ripetei senza smettere ancora di tremare.
Infine, riuscii a riprendere il controllo dei miei pensieri. Afferrai un foglio e vergai in fretta una breve comunicazione.
Bisognava agire. Chiudere i luoghi pubblici, comprese le chiese. Istituire il coprifuoco, sorvegliare la distribuzione degli alimenti, allertare ogni medico della Serenissima. Ricercare e condurre al Lazzaretto ogni veneziano che avesse avuto contatti con l'ammalato che avevo visitato quel pomeriggio; avevo fatto già una breve lista, interrogandone la moglie; giustamente terrorizzata, povera donna!
Colai la ceralacca, impressi il mio sigillo e suonai la campanella, mentre afferravo un secondo foglio.
Alla nostra domestica, accorsa al tintinnio, ordinai di chiamare suo fratello Lucio e di fargli recapitare il foglio sigillato al Doge, con la massima urgenza.
Notai il suo guardo allarmato, e maledii la scontrosità con cui, quando mi aveva aperto, mi ero precipitosamente rinchiuso nello studio.
Rimproverai a me stesso che il panico era l'ultima cosa che servisse alla città, finché non fossero state adottate tutte le misure di sicurezza necessarie; e perché non sospettasse troppo mi feci forza per aggiungere, con voce il più possibile neutra, mentre continuavo a vergare: "Poi torna, devi portare un mio messaggio a Madonna Cecilia".
Il Doge avrebbe bloccato immediatamente i collegamenti con l'entroterra. La città si sarebbe rinchiusa, salvaguardando chi viveva fuori dalla laguna, ma impedendo eventuale scampo a chi, ora, era ancora sano.
Il mio pensiero andò a Lorenzo, che partendo ci aveva affidato moglie e figlio, prevedendo di mancare l'intera stagione calda; una lunga navigazione, per un giovane capitano già padre di famiglia. Gli avevo giurato che avrei tenuto al sicuro i suoi tesori.
Mi concentrai sulle parole che avevo scelto e rilessi:
'Adorata Cecilia,
ti ordino, e se mai hai riposto alcuna fiducia nella mia persona obbedirai senza esitare, di preparare un bagaglio essenziale e di recarti immantinente da nostra nuora. Prenderai lei e il piccolo Giulio e lascerete Venezia all'istante, per un viaggio che vi salvi, prima che blocchino ogni strada'.
Alzai gli occhi verso la finestra, fissando la laguna.
'Non attendetemi...'
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