Il gigante
Venti secondi. Potrei rimetterci l'orologio: lo fa esattamente dopo venti secondi.
Io lo copro, lui si riscopre.
E dire che il suo senso del pudore è stato sempre così esasperato... Ma vedo che gli altri intorno fanno la stessa cosa. Assegnano i pazienti alle stanze in base alla gravità, credo. In questa sono tutti anziani, e poco in sé. Allettati, con catetere e panno. Molti se lo sfilano, insofferenti, e tolgono anche il lenzuolo. I figli, seduti accanto, li ricoprono.
Diciotto, diciannove, venti. Si scopre.
Mi guardo intorno. Sembriamo tutti molto simili, noi che li accompagniamo. Affannati, stanchi, dolenti. Parliamo tra noi, ci raccontiamo il passato in cui loro erano padri. Prima di diventare bambini.
Li raccontiamo, in genere anche meglio di quel che erano veramente, stupiti di quanto riusciamo a ricordare, di quanto tempo sia passato, di quanto si possa cambiare.
Diciannove, venti. Si scopre.
Poiché nessuno qui ha occhi delicati, e tutti siamo ormai esperti della povertà del corpo, lo lascio stare. Più per curiosità che per stanchezza. Che fa, voglio vedere, se non intervengo?
Diciannove, venti. Si tira su il lenzuolo. Mi vien da ridere, ma è anche tanto triste. Nel tempo che gocciola interminabile come le flebo, che insistono sui letti, che altro gesto può cambiare qualcosa, se non quel coprirsi e scoprirsi?
L'OSS di turno oggi per il cambio della biancheria è mingherlino. Guarda perplesso l'omone sul letto, poi guarda me. Lo aiuto volentieri, ormai ho una certa pratica. Faccio girare papà sul fianco, lui arrotola la biancheria sporca fino alla metà letto occupata, stende al suo posto il telo pulito. Poi insieme facciamo rotolare l'infermo sull'altro fianco e finisce sul lenzuolo appena sistemato. Così si toglie quello sporco e si sistema il telo pulito anche sulla metà ora libera.
Un lavoro che si può far da soli, ma in due è ben più rapido, soprattutto con persone da oltre il quintale.
L'OSS mi chiede se gli darei una mano anche con gli altri. Lo faccio volentieri, perché il tempo è lento da passar seduto in silenzio. Papà chiacchierone non è stato mai, e ora sonnecchia così a lungo... ma solo non vuol stare, si agita, si innervosisce, e sappiamo che tempo ne ha poco, ormai.
L'altro giorno ha avuto una crisi respiratoria e ci hanno chiamato. Gli stava scappando, ma si è riacchiappato alla vita. Un fisico così non lo vince facilmente neanche la morte.
Spesso mi studio le sue mani, abbandonate sul lenzuolo, e le confronto con le mie. Grandi, ma non grandi come le sue. Che sono spesse, nodose e robuste come è raro vederne. Mani da contadino, come ha sempre amato essere, terra rossa nelle vene, pietre nei muscoli possenti.
Lo chiamavano il gigante, ancora oggi la sua sarebbe una bella altezza, in questa generazione di ventenni da un metro e novanta. Ma allora... allora svettava come un leccio tra alberi da frutto.
E nonostante il viso cotto dal sole, la carnagione sotto lo scollo della maglia era chiara; gli occhi verdastri, i capelli castani, tutto parlava magari d'una vena di sangue normanno, come occasionalmente affiora, tra la nostra gente olivastra, bassa e compatta.
Al pasto provo a farlo mangiare. Se vuoi vedere un uomo alla fatica, guardalo a tavola, diceva. E divorava porzioni spettacolari. D'altronde, col suo fisico non riteneva decoroso fare meno del lavoro di due uomini. Questione d'orgoglio, chi lo prendeva a giornata doveva poterlo testimoniare.
Non era solo tanto alto, ma robusto in proporzione. Un campione rubato a troppi sport! Ma un tempo, in certi posti del Sud più profondo, lo sport non si sapeva neanche che fosse. E lui, quarto di sette fratelli, rimasto orfano a quattordici anni, neppure il militare aveva fatto. Solo lavoro bruto, a spaccarsi la schiena.
Ancora a settantanni si faceva le giornate nei terreni dove avevano 'scassato', a raccogliere massi per liberare il campo, per trasformare una pietraia inselvatichita in terra coltivabile. Lavoro troppo pesante per i giovani, che son tutti signorini, diceva. A raccogliere pietre trovi solo gente grande, che sa cos'è la fatica.
Ora, papà tiene in bocca un cucchiaino di purea e mastica assorto, all'infinito. Sembra non ricordi come si ingoia. Lo aiuto con un po' d'acqua, ma alla fine arriva neppure a metà vasetto. È un concentrato di nutrienti, lo richiudo perché almeno questo dovrebbe finirlo. Ci penserà mia sorella, a lei non riesce a rifiutare nulla, è più coriacea di lui.
"Buongiorno!"
La sua voce squillante mi raggiunge. Entra salutando gli infermieri, i parenti nelle altre stanze, sembra conoscere tutto il reparto.
"Papà, come stiamo oggi? Su, che è questa faccia?"
Borbotta, mio padre, ma si scuote un po'.
"Che è 'sta barba lunga... dammi una mano che gli cambio il pigiama".
Insieme lo tiriamo su a sedere. "Punta i piedi pà, al tre. Uno, due..." Poi io lo sbarbo, mentre mia sorella si informa su quanto ha mangiato.
"Vabbé, ora lo finisce con me", dice con piglio sicuro, e gli urla nell'orecchio: "Papà, devi mangiare! Come ti rimettiamo in piedi?"
Infastidito, "Non gridare", dice. "Sono le gambe che non reggono... Dire che avevo una forza!"
Alle due vado via, a mangiare anche io.
"A domani pà".
Con mia sorella, continuiamo ad alternarci tra alti e bassi per fargli compagnia, parlando di quell'inverno così rigido che ha nevicato persino in riva al mare.
"Appena passa questo freddo ti riportiamo a casa!"
Il telefono è squillato di notte.
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