CAPITOLO V

"Devo riuscire ad entrare nel pensiero del fato."

Lucretia e Drusiana lo guardarono come se avesse perso la testa.

"Lo so, pare follia," ammise il Sommo Re. "E so che vi avevo promesso che avreste potuto tornare a casa, Drusiana... Ma ho ancora bisogno di voi. Ne va della vita o della morte di noi tutti."
Sospirò, incredulo e terrorizzato lui stesso di fronte a quella situazione, di fronte alle conclusioni a cui era giunto. Eppure, non aveva saputo trovare altra spiegazione a ciò che doveva fare. Non avrebbe saputo come altro procedere.
"Se il fato non è scritto nella pietra, se ha di fronte a sé diverse possibilità per far avverare il destino che ci è stato profetizzato, deve pur avere una qualche forma di coscienza," spiegò, mentre il suo tono assumeva una sfumatura concitata. "E se ha una scelta, per quanto limitata, che io posso influenzare, devo poter prima vedere quali sono le vie. Devo vedere come agirebbe, posto dinnanzi a diverse situazioni, in modo da metterlo nelle condizioni di intraprendere quella che ci risparmierà dalla distruzione. Per questo ho ancora bisogno del vostro potere, Drusiana."

Il suo sguardo rimase fisso sulla donna celeste, nel parlare, ma non fu sua la mano che gli sfiorò il braccio. "Tiberios... Sei certo di ciò che stai dicendo?" La voce di Lucretia fu poco più che un sussurro, come se parte di lei non volesse essere udita. Eppure, aveva parlato. E dall'espressione sul suo viso, il re seppe anche perché lo aveva fatto.

"Lo capisco, se fatichi a crederci. Per anni, io stesso ho dubitato della veridicità della profezia, come fece mio padre, e molto probabilmente anche i sovrani prima di lui."
E avrei preferito continuare a crederla una leggenda.
"Ma ne sono certo," riprese. "Ho sentito il potere divino attorno a me, attecchire sulla mia pelle e scorrermi nelle vene, in modo troppo forte perché sia stato solamente il delirio di un pazzo. Ho visto troppi segnali con i miei occhi per poterli considerare mere coincidenze."

"Credi davvero di poterlo fare? Cambiare il corso del destino?"

"Non lo so, Lissy. Tuttavia, devo tentare."
Tiberios era deciso. In fondo, non c'era mai stata una vera scelta.

Aveva già esteso la mano a Drusiana per farlo, una volta per tutte... Ma ella esitò.

"Che cosa accade?" le chiese, guardandola negli occhi. "Non dovrete fare nulla di diverso rispetto a quanto non abbiate già fatto."

La celeste inspirò prima di rispondere. Il suo viso, notò il re all'improvviso, pareva impallidito, come sciupato rispetto alla prima volta che l'aveva vista.
"Ho... Ho usato tanto potere, oggi," disse infine. "Non so se ho abbastanza forza residua per farlo di nuovo."

"Dovete riposare."
Non se n'era reso conto, prima, tanto preso com'era stato dall'urgenza di agire. Il senso di colpa gli strinse il cuore. Nonostante tutto, non poteva consumare una persona fino ai limiti. Non voleva farlo.

"E dovreste riposare anche voi," constatò Drusiana per risposta. "Troppa esposizione all'elettricità potrebbe avere conseguenze negative sul vostro corpo."

"Io sto bene." Non poteva essere altrimenti, anche se sentiva ancora l'energia del fulmine scorrergli in corpo, il bruciore laddove esso era entrato in contatto con la sua pelle. Non poteva che andare avanti. "Sarò pronto nel momento in cui lo sarete voi. Non abbiamo tempo infinito a disposizione."

Ma la celeste lo guardò, con una profondità nei suoi occhi color della tempesta che parve penetrare fino al centro del suo animo. "Se qualcosa andasse storto, la fretta non sarà servita a niente. Per essere utile al mondo, dovete innanzitutto rimanere in forze. Per aiutare gli altri, non dovete dimenticare di aiutare voi stesso."

Tiberios non seppe come rispondere. Per un istante, rimase in silenzio, rigido come una statua di marmo. Non poté che osservarla, e pensare che le sue parole avevano colto qualcosa in lui. Perché, per quanto non potesse permettersi di riposare sino a che il regno non fosse stato a salvo, era stanco. Era stanco da tanto tempo ormai, stanco di fingere che tutto fosse perfetto, tutto sotto controllo. Non lo era mai stato, e ora la realtà era giunta a richiedere il suo conto. E nessuno lo aveva mai compreso. Nessuno eccetto lei.
Nelle poche ore dacché la conosceva, Drusiana sembrava averlo capito come nessuno prima aveva mai fatto.
E tale consapevolezza infine lo smosse. Con quelle semplici parole, con la sua comprensione, ella aveva intaccato i precetti secondo cui Tiberios aveva vissuto per ventotto anni. In un attimo lo aveva reso esitante, lo aveva reso debole. E il Sommo Re non poteva permettersi alcuna debolezza.
"Vi farò preparare un alloggio, di modo che possiate ristorarvi," asserì allora, distogliendo lo sguardo e mantenendo un tono neutrale, che non svelasse il tumulto nella sua mente. "I miei uomini vi condurranno lì." E vedendo il suo viso essere attraversato da un'ombra di timore, aggiunse: "Non avete di che temere da loro, sarete sotto la mia protezione. Riprenderemo domattina."
Si volse poi verso Lucretia. "Vieni, ti riaccompagno indietro."

•◦ ❈ ◦•

Quella notte, Tiberios non riuscì a chiudere occhio.

Il suo animo era dilaniato, conteso fra la speranza di salvezza e la paura che nulla di ciò che avesse potuto fare sarebbe mai stato sufficiente.
Aveva un destino da compiere, sosteneva la dea Halla. E la profezia parlava di lui. Sette dinastie e quarantotto sovrani si erano susseguiti per arrivare a quel momento, per arrivare a lui. Non poteva essere una mera coincidenza. Uno per la rovina, uno per la fortuna, diceva la profezia. Stava a lui scegliere se sarebbe stata la fine per il suo popolo, o un nuovo inizio.
Ma egli era solo un uomo, un mortale. Come poteva un mortale affrontare forze che neppure i numi erano in grado di contrastare? Come poteva avere la presunzione di influenzare il fato?
Forse era nato soltanto per vedere la rovina della sua Casa, del suo regno, di tutto il mondo così come lo conosceva. Forse doveva soltanto rassegnarsi, restare al suo posto, e preparare la sua gente a sopravvivere quanto più a lungo possibile.
Eppure, la sua coscienza non gli concesse di intrattenere quel pensiero. Se vi era anche solo una minima possibilità di un destino diverso, non poteva perderla. Non poteva deludere tutti coloro che avevano posto la loro fiducia in lui.

Irrequieto, si alzò dal letto. Indossò soltanto una vestaglia sopra la camicia da notte, prima di spalancare le vetrate che davano sul balcone delle sue stanze. Forse, un poco d'aria fresca lo avrebbe aiutato a pensare.

Le camere private del Sommo Re davano sulla parte settentrionale della città, laddove all'orizzonte si potevano scorgere gli alti picchi innevati dei monti Alipas. La luna piena splendeva in cielo, circondata da sprazzi di stelle nel nero cielo notturno. Ogni cosa era buia e silenziosa, la notte, da lassù, quasi che fosse un luogo al di fuori del mondo. D'altronde, si trovava sulla torre più alta del palazzo.

A Tiberios, quel luogo ricordava suo padre.
Erano state le sue stanze, in precedenza. Su quel balcone, da bambino, Tiberios aveva passato diverse serate al suo fianco. Quando era morto, il nuovo re vi si era trasferito per sentirlo più vicino. Forse era mera superstizione, ma non lo aveva dissuaso dal tentare di colmare il bisogno del suo consiglio. Ora, sentiva di averne bisogno più che mai.

"Come devo agire, padre?" si rivolse agli astri, nella speranza che un aldilà ci fosse, e che lo spirito di suo padre stesse ascoltando. "So che cosa devo fare... Eppure al contempo, non so che cosa mi aspetta se ci proverò. Non so neppure se davvero posso cambiare il corso delle cose."
Non mi hai preparato a questo, avrebbe voluto rinfacciargli, con una punta di rancore. Molte lezioni mi hai dato, ma mai quella più importante. Ma sarebbe stato egoista attribuire a lui la colpa. Chi mai avrebbe potuto essere pronto ad affrontare l'ignoto?

Se solo avesse saputo prima che era tutto reale, e che sarebbe accaduto a lui, forse... Eppure, a che cosa serviva rimuginare su un passato a cui non poteva rimediare?

"Padre, dammi un segnale," poté solo pregare. "Se questo è il mio destino, aiutami a compierlo... E se non ne sarò in grado, che gli dei siano clementi."

Non accadde nulla.

Tiberios non aveva mai davvero immaginato che avrebbe potuto essere diversamente, ma parlare con suo padre lo aiutava. Anche se egli non poteva rispondergli, immaginare che lo udisse gli dava conforto. A lui poteva rivelare ogni incertezza, ogni verità che di fronte al resto del mondo andava mascherata.
In fondo era morto, e non poteva dirlo a nessuno, pensò con amara ironia.

E tuttavia, adesso vi era chi conoscesse la verità. Vi era Lucretia, che già come una sposa insisteva per assumersi i suoi fardelli. La dolce, nobile Lucretia, che nonostante la sua giovane età sembrava possedere uno spirito ben più forte del suo. E vi era Drusiana, di cui non sapeva nulla se non che gli era stata inviata per una ragione. Drusiana che, nonostante egli non sapesse nulla di lei, pareva aver visto nella sua anima con una profondità terrificante.
Tiberios non era certo di che cosa dovesse pensare, se essere sollevato per il fatto di non essere più solo o ancor più oppresso dalla paura che la conoscenza degenerasse in caos. E se Lucretia non avrebbe mai fatto nulla per mettere in crisi il regno che era anche la sua casa, non poteva essere certo che un giorno la donna celeste non avrebbe usato la sua debolezza contro di lui. Ma non aveva scelta se non affidarsi a ciò che gli dei avevano predisposto per lui, al destino che—in un modo o nell'altro—lo attendeva.

Si volse di nuovo verso la camera, illuminata soltanto dai raggi argentei della luna. Dormire non pareva più tanto difficile, adesso. Non poteva che aspettare il giorno, e attendere nel sonno si prefigurava una prospettiva ben più lieta che perdersi nel dubbio.

Adagiatosi sul morbido materasso, sotto calde coperte federate di pelliccia e circondato da cuscini soffici come nuvole, non fu poi così difficile dopotutto cedere al torpore.

•◦ ❈ ◦•

Vide un cavallo dal manto dorato, con ali d'uccello che brillavano sotto la luce di un sole ardente. Volava, oltrepassando mari e valicando montagne. Fiero era, bello e splendente come un dio incarnato, e si muoveva come se avesse uno scopo.
Un altro destriero si librava al suo fianco, questo argenteo come la luna e altrettanto luminoso e divino. Come il suo compagno, sembrava diretto a qualcosa.

Solo quando fu troppo tardi, Tiberios si rese conto che puntavano al sole stesso.

Fermi! tentò di gridare, d'istinto. Brucerete! Ma la sua bocca non emise un suono.

Non poteva neppure muoversi da quella che pareva la cima di un monte, come se la roccia fosse cresciuta attorno ai suoi piedi e li avesse inglobati. Come se egli stesso non fosse più che una statua, condannata osservare quella terribile fine.

E, come aveva immaginato, il destriero argenteo si gettò nel fuoco e cadde, inviluppato dalle fiamme, con uno stridio lacerante.

Ma il destriero dorato attraversò il sole e ne venne fuori dall'altra parte, illeso, e anzi ancor più grande e aureo di quanto non era stato. Mentre il suo gemello precipitava alla sua rovina, nelle acque che parevano aver assunto il colore delle fiamme, il cavallo dorato si librò maestoso in cielo. Ampliò le sue ali pennute, e con quel gesto parve abbracciare ogni cosa del mondo.

"Cadi o regna, Re Profeta. Vinci, o perisci."

E dal suo corpo esplose un bagliore di luce, potente come il sole, che avvolse il mondo nel bianco .

Tiberios si svegliò di soprassalto, con un rivolo di sudore che gli colava sulla fronte nonostante il freddo invernale. Il cuore gli batteva all'impazzata, come se potesse esplodere fuori dal suo petto da un momento all'altro.

Conosceva bene quella sensazione. Era avvezzo a destarsi nel cuore della notte in quelle condizioni, dopo uno dei suoi soliti incubi. Ma questa volta era diverso: per la prima volta, cominciava a comprendere che cosa significassero. Ora, sapeva che vi era verità in essi.

Dopodiché, nulla poté riportarlo al sonno.

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