CAPITOLO III

Sono morto Sono morto, oppure ho perduto il senno. In quel luogo che pareva essere circondato da candide nubi, immerso in un cielo di luce come se non fosse parte del suo mondo, Tiberios non poté che appigliarsi a quella certezza. Era morto, nel limbo fra i giardini dei beati e la fossa dei dannati, e gli dei erano giunti per giudicarlo.

Come a rispondere a quel pensiero mai pronunciato, la voce femminile che gli aveva parlato tornò a suonare nell'aria, avvolgente come un abbraccio e tonante come un temporale: "Non sei morto, Tiberios Deravon. Non è ancora giunta la tua ora."

Alla certezza della sua fine subentrò immediatamente la confusione. No, doveva essere tutto un'illusione. Se non era morto, come poteva essere che gli dei gli si fossero palesati? Eppure... Eppure, non sembrava un sogno. I sogni non erano mai così chiari, così definiti. "Dove... Dove mi trovo?"

"Nella tua stessa mente, nella piega fra i mondi... Entrambe le cose, in parte. Ma il tuo corpo rimane sulla Terra, e ad esso la tua coscienza tornerà. Hai ancora un destino da compiere, laggiù."

La forma di luce che gli stava parlando cominciò a prendere concretezza  dinnanzi ai suoi occhi, e con essa anche le restanti sei che formavano l'aureola attorno a lui. Una donna bellissima, splendente di oro irradiato, eterea pur in forma corporea, gli fu davanti. Emanava calore materno e potenza divina insieme, e Tiberios seppe che era Halla, la Dea Madre protettrice degli uomini. Lo guardava come se si attendesse qualcosa da lui.

"Conosco il mio destino," poté soltanto dire, ormai rassegnato, eppur con delusione.
Aveva sperato che, quando avesse incontrato gli dei, essi sarebbero stati fieri del modo in cui aveva protetto il loro creato. Aveva sperato che avrebbe rivisto suo padre fra loro, e che anch'egli sarebbe stato fiero di lui. Ma il fato aveva avuto altri piani.
"Sette re di sette dinastie si sono succeduti al trono delle Terre Emerse, fino a me. Il mio è il regno della rovina, il tempo della fine. Sapevo che questo momento sarebbe arrivato da quando avevo otto anni."

Ma la risposta della dea lo colse alla sprovvista: "Non è la sola possibilità."

Per un attimo, Tiberios rimase spiazzato. "Come potrebbe non esserlo? Ho visto ciò che è avvenuto." E in quel momento, poco importò che si stesse rivolgendo ad una divinità. "Voi più di tutti dovreste sapere. Voi siete gli dei, onnipotenti, maestri di ogni cosa."

"Eppure, il fato è fuori dal nostro controllo," disse la dea. "Altre forze muovono le corde del destino. Ciò che noi sappiamo, tuttavia, è che esso non è scolpito nella pietra. Esistono due vie: distruzione o salvezza, grandezza o decadenza. Puoi essere il re della rovina, o il sovrano della fortuna. Spetta soltanto a te. È ciò per cui sei nato."

"Come? Vi prego, ditemi cosa devo fare."

"Non spetta a noi interferire con il mondo dei mortali," si intromise un'altra voce, questa volta maschile, ma altrettanto immensa. "O l'equilibrio stesso dell'universo ne risulterebbe corrotto. Trova la via, Profeta. Lo stesso fato che incombe su di te dalla nascita ti ha concesso l'arma per piegarlo. Non solo le Terre Emerse, ma tutti i mondi sono alla tua portata. Devi solo guardare."

"Guardare... Guardare che cosa? Non so neppure da dove cominciare."

"Questo è quanto possiamo rivelarti. Ora devi tornare indietro, o rimarrai prigioniero della piega fra i mondi. Rammentalo. Tutto ciò di cui necessiti è già dentro di te." 

"Aspettate, io-"
Ma prima che Tiberios potesse parlare, si ritrovò catapultato di nuovo nel nulla, e poi...
Una ventata di dolore lo colpì, come se lo avessero sbattuto contro la pietra. Ma sentì la luce del sole sulla pelle, i suoni delle voci attorno a lui. Sentì la vita. E allora, aprì gli occhi: era di nuovo a casa. Riconobbe le bianche pareti marmoree del palazzo di Ravania, sorrette da colonne, e le macerie del tetto rovinate a terra laddove il trono avrebbe dovuto trovarsi. Doveva essere stato solo pochi attimi fa che era crollato, eppure pareva essere passata una vita intera.

Due figure erano chinate su di lui. Non le riconobbe all'inizio, la sua vista sfocata e abbagliata dal sole che era tornato in cielo e colpiva i suoi occhi. Quando finalmente riuscì a mettere a fuoco, distinse per prima cosa i biondi boccoli di Lucretia, i suoi occhi azzurri colmi d'allarme.

Quando il suo sguardo si fissò sul suo volto, ella sussultò: "Santi numi, Tiberios! Sei vivo... Grazie agli dei sei vivo!" E gli gettò le braccia al collo.

Tiberios non riuscì a trattenere un grugnito per il dolore, ma se la principessa se ne rese conto, in ogni caso non si staccò da lui prima di qualche attimo.

Oltre la spalla di lei, il re scorse Castor. "Quella celeste ti ha fatto fare un gran bel volo..." constatò, la fronte aggrottata per la preoccupazione. "Come ti senti?"

"Che cosa ti è preso?" gli rimproverò Lucretia prima che egli potesse anche solo aprir bocca, tuttavia, ripulendogli il volto. "Come ti è venuto in mente di avvicinarti a quella creatura? Potevi morire! E i tuoi occhi... Erano così bianchi... Sembrava che uno spirito si fosse impossessato di te. Come diamine ti è venuto in mente?!"

Tiberios si mise a sedere dritto, nonostante ogni osso del suo corpo si lamentasse per il movimento. Perché lo aveva fatto? Istinto, curiosità, neppure lui aveva una vera risposta.
"Aveva bisogno di aiuto;" seppe dire solamente. "E io avevo bisogno di risposte. E come potete vedere sono vivo, per cui non avete niente di cui temere."
Ma aveva ancora bisogno di risposte.

Seppur a fatica si rialzò, e si guardò attorno.
Dov'è lei?
Quella donna, quella creatura celeste caduta sulla Terra nell'ora della profezia, colpendolo con i suoi poteri aveva stimolato qualcosa in lui. In qualche modo, lo aveva spinto fino al mondo degli dei. Il suo istinto gli diceva che era quello ciò che aveva visto. Sentiva che doveva essere vero, seppur paresse surreale, perché percepiva ancora il calore della dea Halla, il potere dei numi sfrigolare come i rimasugli di un fuoco sulla sua pelle.
Doveva dirgli che cosa gli aveva fatto. Aveva parlato di dei, poco prima di colpirlo, come se li conoscesse. Forse era una di loro... Forse sapeva che cosa gli era accaduto, e che cosa fosse che doveva fare per fermare la profezia dall'arrivare a compimento.
Doveva esserci una ragione se la scarica di fulmini che lei gli aveva aizzato contro era stata ciò che gli aveva aperto la via al regno divino, dopotutto. Doveva esserci una via di salvezza, un modo per evitare che il suo destino si realizzasse, e se quella donna aveva potuto farlo parlare con gli dei, poteva anche aiutarlo a scoprirla.

Si volse verso le guardie che lo avevano circondato. "Dove si trova la celeste, adesso?"

Il loro comandante fece un passo in avanti. "Siamo riusciti a sopraffarla, Vostra Maestà. Ora si trova nelle segrete del palazzo, incatenata alle mani e ai piedi di modo che non possa utilizzare la sua magia."

"Bene," disse Tiberios, ormai deciso. "Portatemi da lei."

Ma appena mosso un passo, si trovò la strada sbarrata da sua madre.
"Tiberios."

La Regina vedova Aurelia Cirissa aveva settantun anni, ma la maestà di una sovrana, quale era stata da cinquant'anni a quella parte. Ogni elemento del suo aspetto emanava regalità, dall'abito abito damascato di colore rosso rubino, adornato di fili dorati e perle sulle spalle e alla cintura, ai capelli castani che portava in una corona di trecce. La sua espressione—come il suo tono di voce—sembrava non ammettere repliche, come se fosse stato ancora un bambino sotto la sua autorità.

E tuttavia, Tiberios non era più un bambino da tempo, ormai.
"Non hai il diritto di contravvenire ai miei ordini, madre. Io sono il Sommo Re."

"Sommo Re o meno, rimani un uomo mortale. Rimani mio figlio. E quella... quella strega ha tentato di assassinarti."

Ma non era così. Non lo aveva attaccato perché voleva fargli del male. Tiberios si rivide gli occhi della donna davanti. "Aveva paura. Non lo ha fatto volontariamente." L'aveva vista. E forse era follia, ma sentiva di averla capita, in qualche modo. Sentiva che non era un reale pericolo. "E se anche avesse avuto l'intenzione di uccidermi," aggiunse, sostenendo lo sguardo della madre, "questo sarò io a giudicarlo."

Non le permise di ribattere oltre. Non poteva.
Passandole oltre, fece cenno alle guardie di fare strada. Gli avrebbero mostrato in quale delle celle era stata rinchiusa la donna, e poi... Lei doveva avere una risposta. Doveva sapere qualcosa.
Non può essere stato tutto un caso.

Tiberios aveva ormai imboccato il corridoio, quando udì dei passi corrergli dietro.

Poco dopo, un'esile mano si strinse attorno al suo polso, e la dolce ed apprensiva voce di Lucretia disse: "Sei sicuro di doverci andare? Da solo?"

"Non posso fare altrimenti."

"Ma tua madre ha ragione. Che fosse intenzione della celeste ferirti o meno, lo ha fatto. Questo la rende una minaccia."

"È incatenata, senza nessuna possibilità di muoversi. Non potrebbe utilizzare i suoi poteri neppure se lo volesse. Quale pericolo potrebbe mai costituire?"
A dire il vero neppure lui stesso sapeva a che cosa stava andando in contro, ma quella donna era l'unico indizio che aveva, e lui era in una corsa contro il tempo. Non poteva permettersi di esitare.

"Non sappiamo di cosa sia capace," insistette la principessa. "Potrebbe liberarsi, potrebbe perdere il controllo... Potrebbe farti del male di nuovo."

"Ma potrebbe sapere che cosa è accaduto quest'oggi." E potrebbe sapere come fermare la profezia.
Non le rivelò ciò che aveva visto mentre agli occhi di tutti era stato incosciente, come non aveva mai rivelato a nessuno dell'esistenza di quell'oscuro presagio. Avrebbe pensato che fosse impazzito. O peggio, gli avrebbe creduto, e allora la paura e il caos avrebbero preso il sopravvento.
"Le devo parlare, Lucretia. Voglio sapere perché si trova qui, e se il suo arrivo ha alcuna correlazione con ciò che abbiamo visto. È mio dovere sapere contro che cosa ci stiamo confrontando, per difendere il mio popolo al meglio."

Seppur ad evidente malincuore, allora, la fanciulla annuì. Ma non lasciò subito la sua mano. "Fai attenzione," gli chiese—anzi, gli intimò. "Se non per te stesso, per la tua famiglia che ti vuole bene, per il tuo popolo che ha bisogno di te... Per me. Perché ti amo, lo sai."  

"Lo so." Avrebbe voluto poter ricambiare davvero, ma se le avesse detto quelle parole sarebbe stata più che la sua solita finzione. Sarebbe stata una bugia.
"Non mi accadrà nulla, vedrai," riuscì invece a dire soltanto, abbozzando un sorriso per rassicurare lei più che per reale certezza che così sarebbe stato. Le poggiò un lieve bacio sulla fronte. "Non preoccuparti troppo, Lissy, o inizierai ad assomigliare a mia madre."

Riuscì a strapparle un tenue sorriso. "Non posso prometterti nulla." E, mettendosi in punta di piedi, poggiò le labbra su quelle di lui. Fu un bacio appena sfiorato, delicato e puro come lo era lei. "Ma se credi di doverlo fare," sussurrò poi, con le mani sul suo cuore e gli occhi fissi nei suoi, "fallo. So che ogni tua azione è per il bene del nostro regno. È una delle cose che ammiro di te."

❈ ◦•

Tiberios attraversò i tetri corridoi dei sotterranei, a malapena illuminati da qualche torcia qua e là, oltre che da quelle portate dalle due guardie alle sue spalle. Le pareti di rozza pietra nera contrastavano fortemente con il candido marmo del palazzo soprastante, quasi che fossero finiti nella gola degli Inferi, ma egli vi era abituato. Aveva già visto i sotterranei molte volte.
Quel giorno, tuttavia, non prese la via che lo avrebbe condotto agli archivi regali della Biblioteca—a cui il palazzo ea collegato tramite quella stessa rete di passaggi cavernosi—ma quella che si snodava dall'altra parte, quella che portava alle celle.

La donna era imprigionata al fondo del passaggio, in una cella dalle sbarre di pietra sorvegliata da un uomo munito di una lunga lancia.
Anche le manette che le coprivano interamente mani e piedi, legate alle pareti da catene, erano state forgiate come guanti di pietra. Era raro che si dovessero usare—da tanto tempo ormai non si vedeva una creatura celeste nelle Terre Emerse—ma era un bene che fossero state conservate, considerò il Sommo Re. Il metallo, contro i portatori di magia della tempesta, non era mai stato una buona barriera.

Ella sedeva sulla panca, il capo rivolto verso terra, le braccia forzatamente sollevate dalle catene che portava alle mani.

Tiberios si schiarì la voce, per rendere nota la sua presenza.

Subito, la donna alzò lo sguardo. I suoi occhi azzurri, come un lume nelle ombre della prigione, parvero trafiggerlo con la loro affilatezza.

Il re prese un profondo respiro, cercando di trovare le parole. "So che questa... situazione non è l'ideale per voi. Ciononostante vi chiedo di ascoltarmi. Io-"

"Che cosa volete ancora da me?" lo interruppe tuttavia lei.
Ma poi, quando Tiberios aveva ormai aperto bocca per parlare, vi fu un'incrinatura nella durezza della sua espressione, della sua voce. "Io..." Il suo labbro tremò. "Non voglio essere un problema, lo giuro. Voglio soltanto tornare a casa. Perché non mi permettete di tornare a casa?"

Tiberios fece un passo avanti, ma lei cercò di ritirarsi, rannicchiandosi come poteva sulla panca. Come se avesse paura di lui.
"Non voglio farvi del male," tentò di rassicurarla, alzando le mani. "Voglio soltanto comprendere che cosa è accaduto. Qualsiasi informazione voi abbiate, anche se minima, potrebbe essere fondamentale, per me... E forse anche per voi."

Aveva avuto paura di qualcosa, prima, e il re non credeva fosse dovuto soltanto al fatto di trovarsi in un luogo sconosciuto.
Fece cenno alle guardie di allontanarsi prima di rivolgersi nuovamente alla donna. Allora con un tono di voce più lieve, di modo che soltanto lei potesse udirlo, disse: "Avete detto che è pericoloso qui. Perché?"

Lei non rispose.

"Potete dirmelo. Vi prego."
Tiberios non ne aveva mai parlato con nessuno prima. Era forse follia rivelare una cosa di tale portata ad una completa sconosciuta? Forse... Eppure lo fece. "Da quando ero bambino, io... Sono venuto a conoscenza di una profezia, tramandata di sovrano in sovrano per generazioni," le disse. "La profezia diceva che quarantanove re si sarebbero succeduti al trono delle Terre Emerse, dopodiché il sole sarebbe scomparso. Ed oggi... Oggi, nel giorno dell'incoronazione del quarantanovesimo re, il sole, per un momento, è stato come sommerso dall'oscurità. Come se fosse sparito nel nulla, proprio come presagiva la profezia. E così il cielo ha pianto lacrime di stella. E infine voi siete caduta dal cielo stesso, e avete portato sulla terra fulmini di tempesta. Il mondo sarà tempesta. La profezia ha detto anche questo. È per questo che dovete dirmi se ne sapete qualcosa. Ne va della sopravvivenza del mondo stesso."

Ella si limitò a scuotere la testa. "Mi dispiace. È per questo che devo andarmene, prima di causare di peggio. Gli dei saranno furiosi..."

"Che cosa volete dire?"

"Mi hanno... Ci hanno avvertiti tutti." Pareva respirare a singhiozzi, come se stesse cercando di trattenere le lacrime. "Se qualcuno di noi fosse venuto sulla Terra, oscure forze si sarebbero risvegliate. Avrei dovuto stare più attenta, ma ho perduto l'equilibrio... Speravo almeno che, se me ne fossi andata in fretta, esse non si sarebbero rese conto di me..."

Anche voi, dunque, cercate di fuggire il destino. Tiberios avrebbe voluto poterla rassicurare. Avrebbe voluto dirle quanto per due decenni avesse sperato lo stesso. E tuttavia, qualsiasi cosa avesse detto, il destino avrebbe continuato imperterrito a tessere la sua tela. "Gli dei vi hanno avvertita," esalò, "ma tutto questo sarebbe accaduto comunque. Gli dei non possono fare nulla per fermare il fato."

"Come... Come potete dire una cosa del genere?"

"Loro stessi me lo hanno rivelato."

Ella sgranò gli occhi, con un misto di curiosità e timore dipinto in essi. "Voi potete parlare con gli dei? Nessun terrestre ha mai potuto farlo, prima..."

"Non... Non sapevo di poterlo fare io stesso," ammise Tiberios. "Fino ad oggi. Fino a che voi non mi avete colpito con il vostro fulmine, e avete spedito la mia coscienza sino al mondo degli immortali."

"Io non..."

Egli la interruppe. Non c'era tempo per le scuse, o per le spiegazioni. "Quello che intendo dirvi è che ormai è tardi. Se anche ve ne andaste, ciò non servirebbe a fermare la ruota del destino. Essa si è messa in moto nel momento stesso in cui il sole è svanito nell'oscurità." Prese un respiro. "Ma forse io posso determinare quale sarà il suo esito," confessò, cercando di mostrare una certezza che non possedeva. Non c'era altro modo. Soltanto lui poteva farlo. "Forse c'è ancora un modo non di fermarlo, ma di deviarlo. Gli dei mi hanno detto che lo strumento per piegare il fato è dentro di me. E se voi avete risvegliato in me il potere di comunicare con i numi... Forse potete fare lo stesso per aiutarmi a trovare anche questo."

Lei lo guardò negli occhi. "È per questo che mi trattenete?"

"Suppongo di sì."

E allora, la donna scosse il capo. "Mi dispiace, signore, ma non posso farlo. Non posso, perché non so come fare."

"Ebbene, imparerete." Tiberios cercò di mostrarsi sicuro, autorevole, ma sentiva ormai la certezza scivolare sempre più dalla sua presa. "Dovete farlo, o sarete tanto condannata quanto noi tutti. Era questo di cui avevate paura, non è così? Di rimanere imprigionata sulla Terra quando la fine fosse giunta."

"Non posso fare nulla per voi," mormorò appena la donna. "Vi prego, dovete lasciarmi andare. Forse, se fingessimo che questo incontro non sia mai avvenuto, il destino chiuderà un occhio..."

"Il destino non cambierà i suoi piani sulla base delle azioni di noi mortali!" sbottò il re a quel punto. "Esso è scritto nel vento dei cieli, nelle vene della terra, nelle onde del mare, dall'inizio dei tempi. E io non ho altra via né altro tempo, lo capite?" Non poté nascondere la concitazione dalla sua voce. "Il fato del mio regno e del mondo intero potrebbe dipendere da me, e io non so neppure da dove cominciare. Dovete aiutarmi. O è possibile che non avrete una casa a cui ritornare."

La donna prese un respiro profondo. Lo guardò negli occhi, per un attimo che parve lungo come l'eterno. In quell'attimo, Tiberios si sentì come se ella gli stesse scrutando nel profondo dell'animo.
Infine, annuì. "D'accordo, vi aiuterò... Ma dovrete togliermi le catene."

Non pareva pericolosa. Piuttosto, sembrava spaventata. In ogni caso, era un rischio che doveva correre.
Il re chiamò: "Guardie!"

Immediatamente, i due uomini che lo avevano accompagnato riemersero nel corridoio. "Ci sono problemi, Maestà?"

Egli fece un cenno del capo in direzione della prigioniera. "Liberatela."                  

I due non nascosero il loro stupore. Si guardarono l'uno con l'altro, poi guardarono lui. Fu infine il più anziano—che, in ogni caso, era comunque più giovane di lui—a prendere la parola. "Maestà... Ne siete sicuro?"

"Non avrei dato l'ordine altrimenti."
Quella donna era la sua chiave per entrare nel mondo del divino, dell'inumano, nel regno dei segreti del fato. E di questo, se non di altro, era assolutamente certo. Non aveva altra speranza che esserlo.
"Procedete, prego."

Allora, uno dei due si sfilò la chiave dalla cintura, e la inserì nella serratura. La porta si aprì con uno schiocco. Poi, con una certa esitazione, l'uomo fece un passo all'interno della cella, e poi un altro, fino a che non si trovò di fronte alla donna incatenata. Le tolse prima le catene che le legavano i piedi, e poi, lentamente, quasi con paura, quelle alle mani...

Lei si alzò tentativamente in piedi, quasi a voler provare il proprio equilibrio dopo aver passato ore in catene. Si strinse le mani al petto, massaggiandosi il polso. Ma non attaccò.

"Vi ringrazio," disse il re. "Potete lasciarci."

"Maestà." Forse avendo ormai compreso che non lo avrebbero dissuaso, i due chinarono il capo all'unisono e si ritirarono nuovamente.

Tiberios volse la sua attenzione alla donna, rimasta nel suo angolo della prigione, quasi che temesse di muoversi. Con lentezza, per non allarmarla, fece un passo in avanti. "Non dovete avere paura. Non era mia intenzione spaventarvi, ma ho bisogno del vostro aiuto. Potete fidarvi di me."

"Non... Non so neppure come vi chiamiate."

"A questo possiamo porre facile rimedio." Mantenne una voce gentile, estendendole la mano. "Io sono Tiberios Deravon, il sovrano di questo Regno."

Ella allora sollevò lo sguardo. Se non altro, i suoi occhi parevano un po' più luminosi. Forse quasi... sollevati. Fece un passo avanti a sua volta.
"Drusiana," disse, stringendo la mano che lui le offriva. "Il mio nome... è Drusiana."

"Bene, Drusiana. Adesso, vi chiedo di colpirmi."

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top