CAPITOLO II

Re Varos della Marca d'Oriente si dimostrò più che favorevole all'idea che le nozze fossero celebrate entro l'anno.

In effetti, Tiberios non aveva dubitato neppure per un attimo che così sarebbe stato.

Varos Larimar era un uomo tanto ricco quanto ambizioso, che aveva mirato a porre sua figlia sul trono accanto a lui possibilmente fin da quando era nata. Per arrivare a vedere il suo sangue portare la corona del Sommo Re, era disposto addirittura a versare centomila corone d'oro per la dote della fanciulla.
Nulla da stupirsi, pertanto, che i suoi occhi si fossero visibilmente illuminati quando Tiberios gli aveva chiesto ufficialmente la mano di Lucretia, né lo meravigliò che l'uomo non avesse esitato un momento ad accordargli la sua benedizione.

Non poteva certo ignorare che la sua cortesia e liberalità erano solo un pretesto.
In seguito al matrimonio avrebbe di certo tentato di usare la sua nuova influenza, monetaria come di parentela, per ottenere dei privilegi. Tuttavia, Tiberios aveva riletto i contratti stipulati ormai dieci anni prima dal suo stesso padre, e sapeva per certo che a Varos non era stato promesso niente che gli avrebbe concesso più potere di quanto non avesse un qualsiasi altro vassallo. Non avrebbe avuto alcuna influenza su ciò che spettava solamente al Sommo Re deliberare. Se mai avesse tentato di ottenere favori che non poteva concedergli, Tiberios non avrebbe infranto nessun patto nel negarglieli.
Lungi da lui, allora, rifiutare la generosa dote che avrebbe contribuito a mantenere Lucretia e i loro futuri figli.

"Allora, possiamo dirci d'accordo," aveva concluso. "A sei mesi da oggi, vostra figlia ed io saremo uniti in matrimonio. Mi premurerò che ogni cosa sia pronta entro allora. Per quanto riguarda il contratto matrimoniale, conservo ancora tutti i documenti che firmaste con mio padre all'epoca del fidanzamento, riportanti l'esatto ammontare di dote che ora mi avete promesso e ogni altra cosa accordata. Per cui, per quanto mi riguarda, possiamo procedere senza ulteriori intralci."

"Concordo appieno, Vostra Maestà," concordò Varos, che ora si mostrava ancora estremamente affabile. "Lucretia sarà deliziata dalla notizia."

Tiberios sapeva che lo fosse. Con ogni probabilità, stava già raccontando ogni cosa alle sue amiche.

"Sarà opportuno allora annunciare le nostre intenzioni questa sera stessa, non siete d'accordo?" rispose invece al re vassallo. "Oramai stiamo celebrando. Perché non dare al regno un altro motivo per cui esser lieti?"

Esattamente come aveva previsto, nel giro di pochi istanti il Sommo Re si ritrovò sul palchetto sopraelevato del trono, la sua promessa sposa al suo fianco, a richiamare l'attenzione del pubblico. Non che ci fosse voluto poi molto. Non appena li videro apparire, a braccetto, le persone cominciarono a voltarsi tutte nella loro direzione.

Per quando Tiberios cominciò a parlare, l'attenzione di tutta la sala era concentrata su di loro.

"Signori, signore, innanzitutto devo porgervi i miei ringraziamenti," esordì, sfoggiando un sorriso smagliante, più per spettacolo e abitudine che per reale volontà di farlo. "Con la vostra presenza, in questo giorno, ognuno di voi mi onora immensamente. Tutti voi"—allargò le braccia, abbracciando tutto il salone—"avete la mia stima e la mia amicizia, come è stato per mio padre prima di me. Per cui con chi, se non con voi, potrei mai fare questo grande annuncio? "

Come finì di parlare, fece un cenno ai servitori posizionati ai due lati estremi del salone. A quel gesto essi presero a tirare sulle leve alle quali erano di fronte e, mentre ciò facevano, i pannelli che componevano la cupola del soffitto si aprirono per far penetrare i tiepidi raggi del sole d'inverno, che al mezzogiorno cadevano esattamente verticali ad illuminare la corona dorata sul suo capo, e i biondi capelli di Lucretia, e qualsiasi altra cosa avesse capacità di risplendere in quella parte della sala.

Uno scroscio di sussulti emozionati si diffuse fra i presenti, forse per le sue parole o per la meraviglia del cielo—o magari per una combinazione di entrambi—che dopo un attimo si tramutò in un'ondata di applausi.

Per un attimo, Tiberios lasciò che la curiosità premesse su di loro, che acclamassero e lo esortassero, poiché all'attesa sarebbe corrisposta una ebbrezza ancora maggiore quando finalmente avesse rivelato loro la novità. Perché in tal modo, lo spettacolo avrebbe dato appieno i suoi frutti. E perché allora, mentre l'intera nobiltà delle Terre Emerse già festeggiava per qualcosa di cui ancora non sapeva nulla, Tiberios ebbe un attimo per respirare e prepararsi a dare la notizia che avrebbe definitivamente—ancora una volta—cambiato la sua vita.

"Ebbene, quest'oggi voglio celebrare con voi in tutto e per tutto, e non solo poiché ascendo al trono delle Terre Emerse. Sono lieto infatti, e gli dei in cielo mi siano testimoni, di annunciare ufficialmente il mio fidanzamento con la principessa Lucretia Larimar della Marca d'Oriente!"

A quel punto si volse verso la fanciulla che gli stava affianco. Il suo viso era candido e splendente come le perle marine che la adornavano. Così giovane, così innocente ed emozionata al prospetto delle nozze, quel momento era per lei più che per chiunque altro.

Con delicatezza, le prese la mano nella propria, e si mise in ginocchio al suo cospetto.

Udì i sussurri di alcuni fra la folla, forse stupiti dalla breccia al protocollo—il Sommo Re non era tenuto a inchinarsi di fronte a nessuno—ma non se ne curò. Mantenne gli occhi fissi in quelli di Lucretia, brillanti e sgranati per la sorpresa. Quando la osservava per bene, così pura e felice, Tiberios pensava che non sarebbe stato difficile amarla, se solo lui non fosse stato tanto gravato dai doveri, tanto impegnato a fingere per riconoscere ormai quali erano i suoi reali sentimenti e quali invece quelli cin cui si costringeva a credere.

Ma, se non poteva darle null'altro, almeno le avrebbe dato una giornata memorabile.

"Ho chiesto il permesso a tuo padre, principessa," le disse, tenendole la mano. "Ora, Lissy, lo chiedo a te. Vuoi farmi il grande onore di diventare mia moglie, e la mia regina?"

E non furono del tutto false, le sue parole, nel farle quella proposta. Chi altro, se non lei, avrebbe potuto stare al suo fianco? Chi se non lei che era stata preparata a quel ruolo, plasmata per lui come lui lo era stato per lei?

Mentre parlava, pensava a ciò, e appena l'ultima sillaba uscì dalle sue labbra Lucretia esclamò: "Sì! Mille volte, sì!"

E, come Tiberios si fu rimesso in piedi, ella gli gettò le braccia al collo mentre la folla esplodeva in uno scrosciare di applausi.

Hanno avuto il loro spettacolo, e avranno la regina che attendono da tempo.
Il popolo sarebbe stato altrettanto lieto quando la notizia si fosse diffusa, e avrebbero amato Lucretia più di quanto non amassero lui, nella sua mente non vi era alcun dubbio al riguardo. Lei era una stella, un bagliore di pura luce che splendeva senza alcuna fatica. Per quanto potesse tentare, Tiberios non sarebbe mai stato genuinamente amabile come lei. Poteva essere al massimo il riflesso del suo splendore. E forse allora il suo peso sarebbe stato più lieve da portare, forse il mondo non avrebbe notato le sue mancanze accanto a una donna così perfetta.

Ma per il momento, l'atto doveva continuare. Il re depositò un bacio delicato sulla fronte di Lucretia, prima di voltarsi verso il loro pubblico, a testa alta, indossando il suo sorriso più affascinante.

"Avete udito, signore e signori?" esclamò, sopra il clamore. "La data è fissata, e voi tutti, nostri onorati amici, siete invitati ad unirvi a noi nella celebrazione. Nel primo giorno del sesto mese dell'anno corrente, speriamo di avervi con noi quando saremo proclamati marito e moglie."

Seguì un'acclamazione di: "Lunga vita al Sommo Re! Lunga vita alla futura regina!"

Lucretia splendeva fra le esultazioni, come se fosse nata per stare su quel palco.

Tiberios fece ciò che sapeva fare meglio: osservò. E vide il suo futuro stabile, il popolo e la famiglia lieti, un mondo perfettamente in ordine. Ogni cosa pareva perfettamente al suo posto, proprio come doveva essere. Proprio come aveva voluto che andasse.

E forse gli dei vollero punire la sua presunzione nel credere di poter tenere a bada il fato, poiché fu allora che cominciò.

Per prima cosa venne il vento.
Una folata improvvisa attraversò le arcate che dalla sala del trono davano sui balconi e i giardini di palazzo, forte, gelata, sgorgata come dal nulla. Con essa, le candele che illuminavano l'ambiente si spensero tutte all'unisono. Fra la folla, a quell'evento, si sollevarono sussulti.

"Tiberios?" Sentì le unghie di Lucretia conficcarsi nel suo braccio, mentre la fanciulla si stringeva contro il suo petto. "Che cosa accade? È divenuto così freddo, tutto d'un tratto..."

Il re non fece in tempo neppure a pensare a una risposta, che il rombo dei tuoni risuonò nello stesso istante sopra le loro teste. La promessa di una tempesta.

Eppure... No, non una semplice tempesta. Qualcosa in quel rumore celeste portava un peso ancestrale in sé. Da tempo i popoli delle Terre Emerse avevano perso le loro abilità magiche, ma l'antico sangue scorreva ancora nelle vene dei Deravon, abbastanza da permettergli di percepire la carica di potere che aveva pervaso l'aria. Rimase come pietrificato dai suoi stessi sensi, capace solo di ascoltare i suoni del mondo, di sentire l'elettricità sulla pelle. Non era naturale. Si prospettava qualcosa...

Un boato si levò dalla folla, l'unica cosa a riscuoterlo da tale stato.

"Guardate!" udì esclamare.
Vide mani sollevarsi, puntare all'alto, dove la cupola ancora ritratta permetteva di vedere il cielo scoperto.

Tiberios si portò una mano sulla fronte, con cui fare da schermo alla luce abbagliante, e si volse lo sguardo al sole. E per un attimo, credette di assistere alla caduta del mondo.

Laddove la stella del giorno avrebbe dovuto splendere nel cielo azzurro di Ravania, un'ombra oscura si profilava dinnanzi ad esso, come un anti-sole. Era un astro di oscurità, qualcosa di mai visto e inaudito nella storia, che avanzò sino a coprire il globo di fuoco nella sua interezza. Allora, divenne come notte in pieno giorno.

"Il sole!" si sentì gridare da qualche parte. "Il sole sta scomparendo!"

No. Forse Tiberios lo avrebbe gridato, se avesse avuto voce per farlo. Invece, gli uscì soltanto un'appena sussurrata imprecazione di pura, inorridita incredulità. Si trovò a fissare il sole che spariva dietro quella massa di nero, quasi accecato dalla corona dei raggi che rimanevano attorno ad essa. Pareva quasi che questa nuova entità avesse cacciato il sole dal suo trono e avesse preso il suo posto per regnare sopra ogni cosa in eterno.

E nel mezzo del nero che aveva tutto ad un tratto avvolto il cielo, schegge di stelle cominciarono a piovere all'orizzonte. Come se, per l'oltraggio subito al suo astro sovrano, il cielo stesse piangendo.

Rimase a fissare quel terribile spettacolo, mentre il cielo rimbombava e l'aria sprizzava di energia, come se ogni altra cosa fosse sparita dal mondo. C'erano solo lui e il destino.

Non poteva essere vero.

"Padre, avevi promesso che non sarebbe mai stato vero," sussurrò rivolto al cielo. Come se potesse sentirlo, come se potesse rassicurarlo come aveva sempre fatto.

Ma che cosa avrebbe potuto dire, se anche avesse potuto parlargli? Neppure re Caius avrebbe potuto ostinarsi nella negazione. Cosa altro poteva essere quella terribile vista, se non la manifestazione effettiva di ciò che aveva temuto per tutta la vita? Cosa, se non il suo fato che infine veniva a fargli visita?

Così rimase, sino a che Lucretia non gli diede uno strattone al braccio, riportandolo in qualche modo alla realtà.

"Tiberios! Vieni via da lì!"

Lo smosse appena in tempo. Un attimo dopo, nel punto esatto su cui fino a un momento prima aveva poggiato i piedi, un fulmine colpì il marmo, spezzandolo come creta e lasciando un odore di bruciato nella sua traccia.

"Per gli dei!" Udì le voci di sua madre, delle sue sorelle, di Lucretia... "Stai bene?!" sussultò una. "Sei ferito?!"

Castor corse loro incontro, gli occhi sgranati per il terrore. "Tiberios! Lucretia! Cazzo, che cosa è stato quello?! Vi ha quasi colpito! Potevate morire!"

Tiberios a malapena registrò tutta la commozione attorno a lui.

"È oggi..." esalò, incapace lui stesso di credere a quello che stava vedendo, e alla realizzazione che si era fatta strada nella sua mente e nel suo animo, eppure certo di ogni parola. "Sta accadendo. Sta accadendo adesso."

No, protestò ancora in lui la voce dell'incredulità. Non può. Non doveva essere vero.

Ma la realtà mostrava il contrario.

Non poteva negare, non più. Non di fronte all'evidenza.
E in fondo, parte di lui aveva sempre saputo che quel momento sarebbe giunto. Era scritto nelle stelle, scritto nei suoi sogni.

E già la gente cominciava a cadere nel panico. I nobili presenti avevano preso a strillare, a correre verso le uscite e spintonarsi, inciampando su gonne e mantelli, rovinando a terra. Si accalcavano e si scontravano e si travolgevano in un turbinare di grida pur di raggiungere le porte, ognuno determinato soltanto a salvare se stesso.

Le stesse guardie, colte dal terrore per quella vista mai vista prima, rimasero immobili—quando non si unirono alla ressa—e non fecero niente per fermare il caos che da un momento all'altro aveva pervaso la sala.

Così moriranno, pensò Tiberios, o saranno la morte per altri. Così, la civiltà sprofonderà ancora una volta nell'anarchia e nella crudeltà. Spetta a me fermarli. Spetta a me dar loro la pace.

"Basta!" tuonò, pur soltanto per avere un attimo di tregua da quel terribile disordine, e non perché avesse una vera risposta. Ma la sua voce rimbombò nel salone, e in qualche modo fu abbastanza da far quietare tutti.

Lo guardarono. Sui loro volti, pur nell'oscurità che dominava il mondo, Tiberios scorse l'aspettativa.

Egli non aveva la spiegazione. Anzi, l'aveva, ma se l'avesse rivelata avrebbe scatenato tumulti ben peggiori di questo. Doveva dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma cosa? Come?

Nel silenzio tornarono a serpeggiare brusii, voci sempre più concitate.

"Il Regno delle Sfere Celesti vuole farci guerra!" esclamò qualcuno, allora, forse stanco di attendere da lui ciò non era in grado di dargli. "Mandano le tempeste, spengono il sole per indebolirci e ucciderci!"

Quelle parole scossero definitivamente la necessità di parlare nel Sommo Re. Non poteva permettere che i nobili scatenassero una guerra contro il popolo del cielo, una guerra senza alcun motivo. Ne sarebbe risultata solo inutile morte.

"Questa non è magia celeste! Questo è un segno divino!" Tiberios ne era certo. Lo sapeva, nella mente e nell'istinto. Lo sapeva, perché lo aveva aspettato da tutta la vita. Ora, doveva essere cauto. Nonostante la densa paura che lo sommerse, si costrinse a respirare con regolarità, a presentare di sé un'immagine calma e composta. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era alimentare il panico. Doveva essere cauto con le parole come mai prima era stato. "Gli dei ci stanno parlando. Gli dei ci mandano un pegno del loro potere."

"Perché? Quale peccato abbiamo mai commesso?" gridò qualcuno fra la folla.

"Gli dei non ci puniscono, signori!" Questo non poteva saperlo, non davvero, per quanto la sua gente credesse il contrario. E se avesse potuto, non avrebbe certo detto che ciò che aveva visto fosse un segnale favorevole. Eppure, per il bene di tutto ciò che c'era di giusto nelle Terre Emerse, poteva—anzi, doveva—fingere che così fosse. "Essi ci avvertono! Essi ci concedono un segnale della loro volontà per questa nuova era della nostra storia: dobbiamo tenere alta la gloria del reame, in loro onore, così che attraverso noi la loro grandezza si diffonda, e in ogni angolo del mondo, dagli alti cieli ai più profondi abissi, si odano canti e leggende sul loro potere. Ma nel farlo, non dobbiamo dimenticare la loro superiorità. Dobbiamo rammentare che siamo solamente i recipienti della loro benevolenza, che tutte le bellezze del nostro florido regno sono dovute alla loro generosità."

Ma non servì a placare del tutto la gente radunata della sala. Tiberio non poteva biasimarli. Neppure lui ci credeva davvero. Perché quello non era un segno di avvertimento, ma di un destino funesto. Era il segnale della fine, e anche coloro che erano ignari della profezia cominciavano a percepirlo.
Nulla di quello che avrebbe potuto dire sarebbe mai stato sufficiente a nascondere la realtà, ora che essa si stava dispianando dinnanzi a loro. Stava perdendo il controllo.

Tutto ad un tratto una voce si sollevò: "Guardate! C'è qualcuno fra le macerie!"

"Pare..."

Tiberios si voltò di scatto. La vide, prima di udire le parole finali dei nobili. La vide come se il bagliore di luce del fulmine che aveva fatto breccia nell'oscurità del cielo l'avesse fatta anche nel suo terrore.
"Una donna."
E forse, una risposta.

Ella emerse dal cumulo di macerie, ancora sprizzanti scaglie di fulmine, con indosso quella che pareva una veste fatta essa stessa dell'energia delle saette. Quando la forte luce si affievolì un poco, il re poté distinguere meglio la figura: ella aveva capelli che le arrivavano poco sotto le spalle, di un color castano, con folti ricci dai quali parevano ancora sprizzare schegge di energia. La sua pelle era altrettanto scura, ma sul suo viso spiccavano occhi brillanti, di un azzurro tanto intenso da parere quasi bianco.

Non una semplice donna, comprese TIberios. Vi era potere in lei, un potere antico e forte. E se qualcuno poteva spiegare cosa era accaduto, doveva essere quella creatura dall'aspetto di donna.

Egli si sentì trascinato da una forza quasi magnetica, forse in virtù di quel potere che ella emanava, ad andarle incontro.

"Vostra Maestà!"

Lucretia tentò di prenderlo per il braccio, protestando: "Tiberios! Non puoi andare lì, è pericoloso!"

Il re la udì senza veramente ascoltarla. Si trovò, quasi che le sue gambe si fossero mosse di propria spontanea volontà, di fronte alla ragazza inginocchiata a terra. Il bagliore nei suoi occhi si era spento e, a quel punto, tutto d'un tratto, non gli parve più tanto inumana. D'istinto, le offrì una mano per aiutarla a rialzarsi. "State bene?"

Ella sollevò gli occhi, occhi di un azzurro glaciale, fissandoli in quelli di lui.

Tiberios capì allora di essersi sbagliato. Il suo sguardo poteva aver perso il proprio bagliore alieno, ma era ancora intenso, terribilmente tale. Ma le sue dita erano delicate e calde—umane—e si posarono su quelle di lui. "Grazie." Gli rivolse un piccolo sorriso, mentre lui la aiutava a rimettersi in piedi. "Io... Non avevo intenzione di distruggere il vostro tetto, signore. Mi dispiace."

"Non..." Tiberios sentì la lingua annodarsi, di fronte a tanta potenza. Non poteva dire esattamente come—forse, era un antico retaggio del sangue magico che scorreva nelle sue stesse vene a permetterglielo—ma lo percepiva, nell'aria attorno a loro. Quella donna era una creatura potente, e le sue parole non fecero che confermarglielo. Deglutì il groppo che gli si era formato all'altezza della gola, prima di riuscire a completare la frase: "Non vi preoccupate. Posso permettermi di ripararlo."

Che cosa mi è preso? Si fustigò mentalmente. Balbettare di fronte all'intero regno... Eppure, gli era impossibile riprendere il suo solito piglio disinvolto. Prima la tempesta, poi il sole era scomparso dalla volta celeste, e ora... Ora c'era questa donna, che per un qualche motivo che Tiberios non avrebbe saputo spiegare lo intimoriva e affascinava al tempo stesso. Come se qualcosa lo attirasse verso di lei e, al contempo, gli intimasse di fuggire.

"Dovete essere un segno degli dei voi stessa," mormorò a se stesso.

Ma la donna dovette udirlo.
"Gli dei..." Il suo sguardo, un poco timido e un poco confuso, si fece improvvisamente allarmato. "Oh, no." Scosse la testa, strappando immediatamente la mano alla sua stretta. "Io non dovrei essere qui. Loro lo hanno detto. Noi non dovremmo avere a che fare con i terrestri."

"Loro... chi?"

"È stato... un incidente, ve lo giuro. Io non avevo intenzione di cadere, ma la luna si è mossa all'improvviso, e io... Me ne andrò," si risolse, raddrizzandosi di scatto. Con gli occhi rivolti al cielo, pareva quasi che non stesse neppure parlando con lui. "Prima che inizi. Sarà come se non fossi mai stata qui. Non lo sapranno mai."

Cominciò a indietreggiare, ma Tiberios la afferrò per un braccio.
"Aspettate! Chi vi ha detto di non avvicinarvi a noi? E soprattutto, perché?" Temeva la risposta che avrebbe ottenuto, ma doveva averla ugualmente.

Ella sussultò. "Lasciatemi andare!" Ora, nei suoi occhi vi era la paura.

Tiberios scorse un lampo di quella luce azzurra in essi, sentì il crepitio dell'energia provenire dalla sua pelle laddove le sue dita la stringevano.

"Noi del popolo celeste non dobbiamo avvicinarci al mondo della Terra, io non dovrei essere qui," esalò. "È pericoloso."

"Perché? Che cosa accadrà?" insistette il Sommo Re. Doveva sapere se ciò che aveva visto era davvero ciò che temeva che fosse.

Ella lo fissò con occhi sgranati, ormai quasi bianchi per il potere che sprizzava da lei, potere che Tiberios sentiva come se avesse messo una mano sul fuoco. Lo penetrò, riscaldandogli il sangue. Eppure, non lasciò andare.

"Ho già detto troppo. Il fato vuole così. Dovete lasciarmi andare."

Per lui fu sufficiente. Se aveva tanto timore di restare lì, significava che la profezia si stava compiendo, infine. Ma se costei sapeva che la fine del Regno delle Terre Emerse era alle porte, forse conosceva anche un modo per fermare il destino. Doveva esserci. E se esisteva, doveva trovarlo. Non poteva permettere che fosse sua la colpa di aver permesso la fine del mondo, la morte di tutta la sua gente....
Forse sono ancora in tempo...

"Non posso lasciarvi andare," asserì allora Tiberios, indurendo la sua espressione e assumendo il tono che usava per dare i comandi reali, "se non mi direte come posso evitare che accada."

E allora, la donna sprigionò il suo potere. Fece appena in tempo a sentire il fuoco che pervase il suo corpo dall'interno, mentre i fulmini lo sbalzarono in aria, fra le grida dei presenti, prima che il suo mondo ruotasse su se stesso. Poi, attorno a sé, Tiberios vide puro luminoso candore. Vi si trovò immerso, privo tutto a un tratto del dolore che aveva provato un attimo prima...
La prima cosa a cui pensò fu che quella era la morte. Forse il fato gli aveva concesso almeno la grazia di andarsene prima di vedere la rovina di tutto ciò che aveva giurato di proteggere...
Ma poi la luce si ritrasse, ed egli si trovò sulla cima di una montagna. Tutto attorno a lui, su troni fatti di nubi, esseri inintelligibili di luce accecante fluttuavano in cerchio. Eppure lui seppe che cos'erano. Erano dei.

E allora una voce femminile, materna e possente insieme, rimbombò nella sua testa e nel mondo al tempo stesso: "Benvenuto, Profeta. Ti stavamo aspettando."

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