CAPITOLO I

"Lunga vita al Sommo Re! Lunga vita a Tiberios Deravon, terzo del suo nome!"

La gente esultava per le strade, nelle piazze, applaudendo ed acclamando il nuovo sovrano nel giorno della sua incoronazione ufficiale. Neppure il freddo del primo giorno dell'anno, nel pieno inverno, pareva aver fermato l'afflusso di persone. Le vie della città di Ravania, capitale del reame confederato delle Terre Emerse, erano tinte di colori per le masse di abitanti scesi a celebrare, sventolando fazzoletti e bandiere.

Tiberios salutava, dall'alto balcone del suo palazzo di bianco marmo, bardato di tutti i simboli della regalità, dallo scettro dorato alla corona e al mantello scarlatto bordato di candida pelliccia.

Sua madre e le sue sei sorelle—accompagnate dai rispettivi mariti e figli—gli stavano poco dietro, splendenti nei loro abiti variopinti e preziosi gioielli.

Parlare al popolo non gli fu necessario. Non avrebbero potuto sentirlo in ogni caso, da tanto distante. La maggior parte di essi con ogni probabilità neppure poteva distinguere la sua figura o quella dei membri della sua famiglia. Ma ciò che era importante era che lo vedessero, che li vedessero, uniti e trionfanti, e sapessero che la stirpe di Deravon era forte e vegliava su tutti loro.

A due mesi e dodici giorni dalla sua ascesa al trono, Tiberios osservava per la prima volta il suo popolo al completo, riunito per lui.

C'erano giullari, teatranti itineranti, intenti a fare i loro spettacoli in giro per la città. Molti erano giunti ormai da giorni, da giorni mettevano in scena drammi e commedie e danze e spettacoli d'illusione, in cerca di un facile guadagno in quei dì di festa. Provenivano da città e provincie, vicine e distanti, se non addirittura dai confinanti regni del Fondale e delle Sfere Celesti.

Tutto ciò i guardiani delle porte riferivano ai loro superiori, che riferivano a loro volta a Tiberios stesso.

Per ogni viaggiatore che entrava in Ravania, dal più misero mendicante alle grandi carovane e ai nobili vassalli e vicini che gli erano ospiti, ogni loro passaggio arrivava alle sue orecchie.

Le reali guardie cittadine mantenevano l'ordine quando la folla si accalcava troppo, si assicuravano che non vi fossero crimini o incidenti, ma il re aveva ordinato che permettessero ogni tipo di intrattenimento entro i limiti del legale. Nel mentre, in postazioni specializzate di fronte ai cancelli del palazzo, distribuivano provviste e abiti per l'inverno a chi si presentava per richiederli.

"Dai loro cibo e distrazioni, divertili e nutrili, e non avranno mai motivo di volgersi contro di te."
Era stata una delle prime lezioni che gli aveva impartito suo padre.

Ora ogni cosa era in ordine, e la gente cantava il suo nome. Significava che il mondo ancora funzionava come doveva, o almeno che così pareva al mondo stesso. E se il suo compito era quello di proteggere la pace e la prosperità delle Terre Emerse, un buon inizio al suo regno era il miglior segno che potesse dare delle sue intenzioni a tutte le genti.

Si trattò di una rapida apparizione, nel complesso.
Potuto osservare che ogni cosa procedesse secondo disposizione, Tiberios si volse verso la sua famiglia.

Tutti erano raggianti, raggianti come lui stesso appariva.

A testa alta, con un sorriso sicuro sulle labbra, era l'emblema della gloria e della stabilità del casato e del reame intero. Nessuno sapeva quanto gli costasse ogni singolo attimo di quella mascherata.

Mai nessuno avrebbe dovuto scorgere la verità, il segreto che portava in cuore, il peso invisibile che gravava sulle sue spalle. Né i nobili, né il popolo, né lo stesso sangue del suo sangue, perché dal momento in cui la corona si era poggiata sul suo capo, non apparteneva più a se stesso. Il suo primo dovere andava allo Stato e alla famiglia. Per il bene di tutti manteneva il segreto. Conoscere il fato predestinato loro avrebbe portato panico fra la gente, e il panico avrebbe portato a rivolte, e le rivolte avrebbero messo a rischio ogni cosa e persona a cui più teneva. Il mondo non poteva sapere ciò che era stato scritto.

E non accadrà, disse a se stesso per rassicurarsi. Due mesi erano passati dalla morte di suo padre, due mesi che non aveva rimesso piede nella cripta dell'archivio in cui la maledetta pergamena era conservata, e nulla di fuori dal comune ancora era avvenuto. Forse, finché i re avessero agito per mantenere il manto della quiete, il fato non avrebbe trovato squarci in cui inserire i suoi mali. Perché forse, come sempre gli aveva detto suo padre, la profezia non era altro che un pezzo di carta senza alcun valore, e il vero male era ciò che gli uomini stessi causavano quando avevano paura.

Ripetendo nella sua testa tali convinzioni, Tiberios si posizionò accanto a sua madre, offrendole il braccio per scortarla com'era da etichetta.

"Andiamo," disse dunque a tutti i suoi parenti riuniti. "Le celebrazioni ci attendono. E non possiamo certo essere noi a fare tardi."

•◦ ❈ ◦•

Stendardi dorati pendevano dalle pareti marmoree della sala del trono, raffiguranti le due spade incrociate che erano lo stemma di Casa Deravon. Dorati erano anche il candelabro appeso al soffitto, i tendaggi alle finestre, le tovaglie ai tavoli del banchetto, i calici e i piatti e persino le posate. Dorati come la veste che lo stesso Tiberios portava indosso, ricamata con ghirigori intricati che riprendevano quelli della corona reale.

Le ultime luci del giorno penetravano attraverso le grandi vetrate del salone, tingendo ogni cosa dei colori del tramonto. In qualche modo, ciò fece risaltare ancor di più la brillantezza degli arredi contro il bianco delle colonne, del pavimento decorato da mosaici, del trono che si trovava sopraelevato sul fondo della sala.

E vi erano le persone, poi. Nobili ospiti provenienti da ogni parte delle Terre Emerse, dai più influenti re che gli erano diretti vassalli ai più piccoli baroni, l'intero regno pareva essersi riunito in occasione della sua incoronazione.

Quando Tiberios fece il suo ingresso insieme alla sua famiglia, il salone eruttò in uno scroscio di applausi ed esclamazioni.

"Lunga vita al Sommo Re! Lunga vita a re Tiberios!" echeggiarono le voci, rimbombando contro le pareti stesse del palazzo.

Egli mantenne l'espressione trionfale che aveva costruito per l'occasione, rivolgendo saluti e cenni di ringraziamento all'aristocrazia che apriva un varco nella massa per concedergli il passaggio.

Si diresse al trono, un seggio sopraelevato riccamente elaborato in purissimo marmo bianco, lavorato con bassorilievi rappresentanti miti e storie della tradizione. Pareva essere un tutt'uno con il pavimento stesso, come se fosse stato ricavato tutto dallo stesso blocco di pietra. Il trono di suo padre, e di suo nonno, e dei loro antenati prima di lui. Il suo trono, adesso. Il simbolo del potere che aveva ereditato, e del dovere che ad esso si accompagnava.

Tiberios si sedette, e la folla di ospiti esultò ancora una volta con: "Lunga vita al Sommo Re!"

"Vi ringrazio, vi ringrazio," li quietò lui con voce cortese ma ferma, facendo loro cenno con la mano di cessare. "Voi tutti, che contribuite a mantenere la pace del regno, e che quest'oggi mi accogliete come vostro legittimo sovrano, avete la mia riconoscenza e la mia amicizia. Ma ora, certamente non avrete fatto un tanto lungo viaggio dalle vostre terre soltanto per udirmi parlare," scherzò, suscitando alcune risate fra i nobili, proprio com'era suo intento. Intrattenere e dar lietezza, così che lo amassero e si amassero fra loro, era il suo compito. "Vi prego, godetevi il banchetto e le musiche dei miei bardi. Danzate e siate allegri, amici. Prendete questo come pegno della mia gratitudine."

"A Sua Maestà," sollevò il calice un uomo, che Tiberios non poté riconoscere fra i tanti accalcatisi presso i tavoli del banchetto.

"Alla salute!" fecero eco altre voci da ogni parte della sala.

Nel mentre, i musici cominciarono a suonare un'allegra melodia con liuti, clarinetti e arpa. Dame e cavalieri presero ad accoppiarsi per le danze, mentre altri ancora rimanevano presso i tavoli, servendosi delle prelibatezze della cucina ravaniana e del vino rosso con miele che ne era una delle specialità.

Tiberios osservò, dalla pedana sopraelevata su cui era posto il suo trono, sorseggiando un poco di vino dalla sua coppa intarsiata di gemme. Gaudio e prosperità fu ciò che vide. Era un buon inizio.

Una voce femminile interruppe i suoi pensieri, tuttavia.

"Congratulazioni, Vostra Maestà."

Riconobbe quella voce, melodiosa e con una punta di sensualità, immediatamente. La conosceva molto bene da svariati anni, oramai.

Distolse lo sguardo dalla scena dei festeggiamenti per vedere la fanciulla sorridergli, con uno di quei suoi sorrisi brillanti e un poco provocanti che sempre usava rivolgergli.

"La corona ti dona splendidamente, Tiberios."

Il re si alzò e le discese i pochi scalini che lo separavano da lei, ricambiando il suo sorriso. Non poté del tutto nascondere, nella sua espressione, la vena di ilarità che i modi della ragazza avevano stimolato in lui.
Tuttavia le prese una mano nella propria, con perfetta cortesia, depositandovi un lieve bacio sul dorso.

"Ti ringrazio, Lucretia. Tu non sei certo da meno."

Che fosse attraente era innegabile. L'abito candido, con perle intessute sul corpetto con filo d'oro, avvolgeva perfettamente il suo corpo eburneo, accentuando i suoi fianchi morbidi e il suo bel seno. Le sue gote e labbra rosee erano un tocco di colore che attirava l'attenzione sul suo viso, e sui suoi occhi azzurri come il più limpido cielo. E aveva una cascata di boccoli biondi, tanto chiari da parere quasi fili d'argento, in parte raccolti in una crocchia di trecce adornate da perle, che le scendevano lungo la schiena e le incorniciavano il viso dai lineamenti delicati. Se mai la perfezione era esistita, Lucretia Larimar ne era il perfetto esempio.

"Non credi che il bianco mi faccia apparire scialba?" fece lei per risposta, mettendo su un finto broncio che metteva in mostra le sue labbra carnose. "Mia madre sostiene che sia il colore che più si confà ad una giovane di buona famiglia, e dunque ha insistito... Tuttavia io credo che il verde o il blu produrrebbero un effetto nettamente migliore."

"Saresti meravigliosa anche con indosso uno straccio." E lei stessa ne era ben consapevole, ma Tiberios sapeva che amava i complimenti. "In ogni caso, quando ci sposeremo, potrai indossare gli abiti che vorrai."

A quel punto, Lucretia tornò a sorridere, sfiorandogli un braccio con la mano affusolata. "Dovrò vestire per un'ultima volta di bianco allora, temo. Ma ne varrà la pena. Aspetto di sposarti da tutta la vita."
Continuò a parlare con il sorriso sulle labbra e l'eccitazione negli occhi, ma Tiberios non la udì davvero.

Si limitò ad annuire, un poco distrattamente. Vi erano certo destini peggiori che sposare una ricca e avvenente principessa, figlia per altro di uno dei più influenti vassalli del reame, eppure non poteva dire di essere del tutto entusiasta all'idea. Come ogni altra cosa nella sua vita, il matrimonio si trattava di un dovere. Non aveva scelto Lucretia per la sua bellezza o intelligenza o per il suo carattere solare, sebbene un poco vanesio, né tantomeno perché l'amava. Forse avrebbe potuto, un giorno... Sarebbe stato facile innamorarsi di Lucretia. Ma lei era stata scelta per lui per il solo fatto di essere la miglior sposa possibile, quella più nobile e più facoltosa, che offriva la miglior dote e la miglior alleanza. E questo singolo fatto, come qualsiasi aspetto della sua esistenza, lo opprimeva. Eppure, se quel matrimonio fosse valso al bene del suo regno, l'avrebbe sposata. In fondo, vi erano destini ben peggiori...

"Allora? Non vuoi davvero, Tiberios? Lo sai, ci sono molti altri uomini che salterebbero di gioia all'idea..."

Soltanto a quelle parole si riscosse, rendendosi conto di non aver ascoltato nulla di ciò che lei gli aveva detto.

Lucretia stava dinnanzi a lui, a braccia conserte, guardandosi attorno con aria interessata. Non che avrebbe mai davvero intrattenuto l'idea di farsi corteggiare da un altro, se non per ingelosire lui. Era stata allevata per diventare regina, ed era evidente che non intendeva lasciarsi sfuggire la possibilità. Ma voleva le sue attenzioni, per cui Tiberios si risolse a dargliele.

"Perdonami." Scosse il capo, cacciando via i pensieri mesti dalla mente. "Questa giornata marca l'inizio del mio regno. Ogni cosa deve essere perfetta, per cui richiede la mia totale attenzione." Cercò nuovamente la mano della fanciulla, che gli si era sottratta, per rassicurarla. "Ma ora ti ascolto. Prometto."

Non era colpa sua, d'altronde, se lui non sapeva ancora amarla. Non per questo voleva renderla infelice. Nonostante tutto, la conosceva da talmente tanto tempo che gli era impossibile non provare affetto per lei.

Lucretia alzò gli occhi al cielo, ma le sue labbra si piegarono in un sorriso. "Tutto è assolutamente perfetto, credimi. Solo una cosa potrebbe rendere questi festeggiamenti migliori."

"Ovvero?"

"Ovvero, se il Sommo Re si decidesse a chiedere alla sua promessa sposa di danzare." La ragazza emise un'altra leggera risatina. "Suvvia, ti devo spiegare tutto io?"

"E sia, dunque." Senza attendere oltre, sollevando le loro mani giunte il re la condusse al centro della sala, dove sul pavimento mosaicato svariate coppie volteggiavano in un turbine di sete e colori.

Lucretia divenne subito raggiante. "Oh, splendido! È tutto così bello, qui. E poi, io amo i balli. Vi sono così tante persone con cui parlare, e musica, si possono sfoggiare gli abiti e le acconciature più opulente, e poi possiamo vederci di persona."

Mentre parlava, si portarono nelle posizioni della danza. L'orchestra di palazzo cominciò a suonare una melodia vivace e allegra, che prevedeva una serie di saltelli e piroette.

La fanciulla, nonostante questo, continuava a parlare senza alcuna apparente fatica. "Vorrei che mio padre mi concedesse di vivere a corte, ma non lo farà prima del matrimonio, ha detto. Vuole essere certo che io non sia disonorata in qualche modo, anche se io sono certa che tu non mi faresti mai un simile torto. Ma quando saremo marito e moglie, allora potremo stare insieme in ogni momento."

A volte, Tiberios si domandava se lei capisse che quel matrimonio era una questione di stato, e non d'amore. Forse era stata troppo giovane all'epoca del fidanzamento, aveva troppo a lungo fantasticato su quelle nozze per permetterle di vedere ora come stavano davvero le cose. Se fosse stato per lui, avrebbe atteso che ella compisse la maggiore età per informarla dei patti. Tuttavia, non voleva essere lui a distruggere la sua illusione di felicità, perché forse era tutto quello che avrebbe mai potuto darle. E così le faceva complimenti, la baciava e le faceva dei doni, di modo che il suo sogno non divenisse un peso. Così, in quel momento le rivolse un lieve sorriso.

"Non dovrai aspettare ancora tanto a lungo," le promise. "Ormai hai l'età giusta, e non v'è più ragione di rimandare. Parlerò con tuo padre affinché la data sia fissata entro l'anno."

"Davvero?" La fanciulla volteggiò su se stessa, i lunghi capelli come un'aureola d'oro attorno al suo corpo, finendo di conseguenza fra le sue braccia.

Tiberios la sostenne, e non si allontanò quando lei gli gettò le braccia al collo.

"Oh, sogno questo giorno da quando ero bambina," gli disse, quasi saltellando. Il suo tono di voce tradiva tutta la gioia che, da quella posizione, egli non poteva vedere sul suo viso. "Il giorno delle mie nozze, e con il re per giunta. Sarò regina... Sarà tutto meraviglioso, ne sono certa!"

Mentre lei continuava a parlottare, tuttavia, nonostante la sua promessa Tiberios si trovò ad osservare il fondo della sala più che ad ascoltarla.
Gli piaceva osservare la gente, forse anche perché ci era abituato. Un buon sovrano doveva conoscere il suo popolo, gli diceva spesso suo padre. Grandi balli come quello offrivano una vasta gamma di tipi umani, alcuni interessanti, altri puramente comici. Vi erano dignitari e aristocratici intenti a discutere probabilmente di alleanze ed affari, giovani e fanciulle che danzavano fra loro e chiacchieravano con gli amici, circoli di nobiluomini e donne che si intrattenevano senza dubbio con storie scandalistiche.

Facilmente, Tiberios individuò fra questi ultimi Lucilia, la maggiore delle sue sorelle. Ella era ormai una donna matura, più vicina alla cinquantina che alla giovinezza, eppure manteneva ancora un'aura di fascino—assieme al titolo regale e alle ricchezze combinate della sua dote e dell'eredità del marito defunto—tale da conseguirle l'ammirazione di molti, specie fra gli uomini.

Spostando l'occhio poco a lato, tuttavia, ecco che Tiberios colse invece una vista insolita che attirò la sua attenzione.

Castor, il terzo figlio e primo maschio di Lucilia, che per età gli era più vicino che non sua sorella stessa, non si trovava come suo solito in un angolo del salone, ad evitare le ragazze che tentavano di ottenere un invito a danzare. Era invece in piedi accanto alla madre, seppur rigido come un tronco d'albero, e fissava in direzione della pista da ballo con un interesse ben maggiore a quello che solitamente dimostrava per quel genere di festeggiamenti.

Curioso, pensò Tiberios. Castor era suo nipote di fatto, ma erano cresciuti insieme come fratelli. Lo conosceva, si sarebbe azzardato a dire, quasi tanto bene quanto se stesso. E di certo sapeva che egli non aveva mai amato stare al centro delle folle, costretto a socializzare con chiunque cercasse una parola. Eppure ora era lì. E come i loro sguardi si incontrarono, Castor parve riscuotersi dal quello stato come di trance. E allora, cominciò a venire verso di lui.

"Guarda un po'," disse allora il re a Lucretia, facendole cenno in direzione del giovane. "Pare che Castor oggi sia in vena di celebrare."

"Come non potrebbe? E' un giorno storico." La ragazza gli si strinse al braccio, poggiando il capo sulla sua spalla. "E ora abbiamo anche ulteriori buone notizie per cui festeggiare! Sono certa che sarà ancora più felice quando saprà che abbiamo una data per il matrimonio."

"Sarà meglio attendere qualche tempo, prima di diffondere la notizia. È opportuno che ne parli con tuo padre, prima, così che non vi siano confusioni al momento dell'annuncio ufficiale."

"Ma almeno a Cas potremo dirlo, non credi? È amico di entrambi, dopotutto."

Non dovette pregarlo molto, in fondo. Non era alcun segreto, dopotutto, che lui e Lucretia erano fidanzati. Tutti probabilmente si aspettavano un matrimonio a breve, Castor incluso.

"D'accordo." Annuì, rivolgendole un sorriso, scatenando a sua volta un sorriso ancora più largo sul viso della principessa. "Ma limitiamoci a dare la notizia. Per i dettagli ci sarà tempo, e poi non vogliamo certo far credere al resto dei nostri ospiti che abbiamo delle preferenze."

"Quale notizia, Tiberios?"

Giratosi a parlare con la sua promessa sposa, il re si volse ancora una volta quando udì la voce del nuovo arrivato. "Ebbene, oggi ho potuto vedere una vista più rara di un unicorno. Castor Deravon Masca si unisce forse alle danze?"

"Molto divertente, zio." Alzando gli occhi al cielo, egli marcò l'ultima parola, incrociando le braccia sul petto.

"Nel caso tu intenda farmi sentire vecchio, ti rammento che ho solamente sette anni più di te."

Castor fece spallucce. "Almeno io non ho capelli bianchi."

"Il peso della corona, nipote caro." Tiberios sorrise. "Fato volendo, presto avrò un figlio mio, e tu non dovrai mai sperimentare un simile destino."

Erano soliti scherzare in modo simile da sempre. Da quando era divenuto re, nulla era cambiato.

Castor reagì sempre con la solita faccia schifata alla menzione di obblighi e doveri, e Tiberios sorrise. Nel mezzo di un'epoca di cambiamento, lo rassicurava ricordare che alcune cose restavano sempre uguali.

Lucretia accanto a lui gli passò una mano fra i capelli, giocherellando con i suoi ricci. "Io non vedo nulla fuori posto, se ti può consolare. I tuoi capelli sono perfettamente bruni come il cioccolato più puro. " Posò un delicato bacio sulla sua guancia. "Ora, suvvia, dà a Cas la buona notizia," lo esortò poi, un sorriso smagliante dipinto sulle labbra. "A meno che non vuoi che sia io a farlo?"

"Lissy, che cosa state confabulando voi due?" Castor storse il naso, il suo tono scherzoso. A ventun anni appena compiuti, d'altronde, era ancora poco più maturo di un ragazzino. "So che siete fidanzati da quanto, dieci anni? – Cosa che è davvero ridicola, fra l'altro. – Ma in ogni caso, non è necessario che parliate in codice. Non siete neanche marito e moglie ancora."

"Lucretia ha appena diciannove anni, ti ricordo. Se non avessi atteso tanto, avrei sposato una bambina."

"Ma ora non lo sono più," cinguettò lei.

"Naturalmente." Tiberios le cinse la vita con il braccio, più per rassicurazione nei suoi confronti e amicizia che per vero desiderio. Si sforzò ciononostante a ostentare un'espressione lieta e sicura. "E difatti, questa è la notizia di cui parlavamo. A breve, ormai, il matrimonio sarà celebrato. Nulla è ancora ufficiale, certo, ma Lucretia ha creduto che ti avrebbe fatto piacere saperlo, in virtù dell'amicizia che vi lega e della nostra parentela."

"Oh."

Per un attimo, nei suoi occhi, gli parve di vedere un lampo di incertezza. Ma esso svanì tanto rapidamente quanto il re aveva creduto di vederlo, e Castor allora sorrise, seppur con la tipica rigidezza che lo contraddistingueva in quel tipo di eventi.

"Vi devo le mie congratulazioni, allora. Devo ammettere che non me lo aspettavo." Fece una risata. "Dopo tanti anni, immagino di aver fatto l'abitudine al pensarvi come perennemente promessi."

"Tiberios è sempre stato eccessivamente cauto con me." Lucretia fece spallucce, senza mai perdere il sorriso. "Io credo che abbiamo atteso anche troppo, ma ora finalmente mi vede per la donna che sono. Presto sarai di fronte alla Somma Regina delle Terre Emerse, che cosa ne pensi?" E mentre poneva quella domanda a Castor, fece un giro su se stessa, facendo gonfiare la gonna del suo abito.

Al giovane sfuggì un sorriso tanto effimero che il re non fu in grado di interpretarlo. "Io penso..."

Ma fu interrotto da un turbine di giovani fanciulle ridacchianti che vennero loro incontro.
"Vostra Maestà." Tutte si inchinarono, pronunciando all'unisono le parole per rivolgerglisi. Poi, parlò solo una, che Tiberios sapeva essere un'amica di Lucretia, figlia di un vassallo del di lei padre: "Se ci è concesso, Vostra Maestà, vi rubiamo la principessa per qualche attimo. Promettiamo di restituirvela sana e salva."
Dietro di lei, tutte le altre faticavano a contenere i risolini.

Non v'era dubbio che le avrebbero chiesto delle nozze, come sempre avveniva da almeno tre anni a quella parte, e Tiberios non aveva altresì dubbio che lei avrebbe risposto ad ogni singola domanda con tutto ciò che sapeva. Non l'avrebbe redarguita per questo. In fondo, nonostante le sue premure, il reame avrebbe amato un matrimonio reale.

Egli mantenne la testa alta, sorridendo loro bonariamente mentre annuiva. "Prego, andate pure. Io, in ogni caso, devo occuparmi di affari."

Lucretia gli rivolse un'occhiata raggiante, e fu certo che aveva inteso che cosa intendesse per affari. In tal modo si ritirò, quasi saltellando, con le sue compagne.

Rimasti soli, Tiberios non ebbe tuttavia il tempo di aprir bocca che Castor disse: "Sei un uomo tremendamente fortunato, lo sai? Una donna come Lucretia Larimar non capita tutti giorni."

Il sovrano quasi fu colto alla sprovvista dall'improvvisa serietà con cui proferì quelle parole. "Lei è certamente splendida," poté solo rispondere, "e intelligente. Sarà una buona regina."
Lui stesso sapeva che non era la risposta corretta.

"Lei ti ama, da tutta la vita." Tali parole di Castor non fecero che confermarlo.

"Lo so," esalò. Non poteva neppure stupirsene, né biasimarla per questo. Era cresciuta sapendo che sarebbe stata sua moglie. E Tiberios sapeva che non sarebbe mai stato all'altezza dell'uomo che Lucretia credeva che fosse. Eppure, cos'altro poteva fare se non del suo meglio?
"So anche che tu ti preoccupi, perché tieni a lei come se fosse già parte della famiglia. Ma non devi temere. Ti assicuro che farò tutto ciò che è in mio potere perché sia felice, finché vivrò."

"Questo lo so."
Eppure, nonostante le sue parole dicessero una cosa, la voce gli venne fuori poco più che un sussurro.
Aveva paura che non potesse mantenere la promessa, era evidente. Forse lui avrebbe creduto lo stesso, se si fosse trovato al suo posto.

"Mi prenderò cura di lei," si limitò a ribadire Tiberios.

Forse non sarebbe mai stato sufficiente. Ma sarebbe stato meglio che deludere lei, le loro famiglie e l'intero regno.

"E ora," si riprese, scuotentesi di dosso il dubbio e raddrizzando le spalle, "devi scusarmi, ma è tempo che parli con re Varos. Augurami buona fortuna, poiché vado a chiedere ufficialmente la mano di Lucretia."

"Sei il Sommo Re, tu non ne hai bisogno."

Tiberios indossò la sua migliore espressione regale, risoluto e sorridente. Era una maschera a cui era ormai tanto avvezzo da sentirla come una seconda pelle. "Tu fammela lo stesso," disse, battendoli una mano sulla spalla. "La fortuna non può mai sovrabbondare, credo."

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