Capitolo 7; Inverno dei Fiori

Rie aveva sempre sofferto di essere attanagliata nella notte da interminabili brutti sogni. Non me li raccontava mai, affermando di non riuscire neanche a ricordarli, o forse che volutamente s'impediva di ricordarli. Ed io smisi di chiederle cosa sognasse, lasciando che fosse lei a decidere cosa volesse condivdere.

Solo una volta, con la voce ferma e quasi senz'emozioni, la pelle pallida e gli occhi spenti, le sue labbra chiare esprisero cosa l'aveva vegliata dal sonno. Un incubo pieno di oscurità ed immagini poche chiare, dove la sorella minore che era l'ultima parte che le rimaneva della famiglia, le moriva tra le braccia. 

I demoni del giorno che le uccidevano il sonno, riempendolo di incubi,  con la mia insonnia, parevano decorare  come gemelle tutte le nostre ore buie di simili tragedie.

Quello che per me era sempre stato rimanere svegli nella solitudine di coperte e video intrattenutivi, quelle che per Rie erano ore interminabili del subconscio che ripescava in superficie i brutti ricordi;

Erano diventate serate con solo una piccola lampadina accesa, la luce che rendeva la camera di un arancione caldo, il silenzio riempito di risate, le dita riempite di quelle dell'altra. Non m'ero accorta che per un secondo avevo dimenticato di avere paura della solitudine, facilmente mi ero anche scordata di accorgermi quanto fossi felice.

Avida di raggiungere sempre il meglio, forse quelle notti quando non avevamo nulla se non l'altra, avevo forse già raggiunto la vetta.

Alcune notti ci stringevamo così forte che pensavamo che fungessi da scaccia sogni, o forse speravamo che fosse così. Mi chiesi spesso quante volte dormivo mentre Rie si svegliava d'improvviso affrontando da sola l'ennesimo brutto sogno che aveva invaso il sonno.

Volevo esserci sempre per lei, volevo chiedere a qualunque dio esistesse di permettermi di poterla proteggere in quell'unico momento di debolezza che dimostrava.

Perché Rie appariva sempre forte e coraggiosa, tenace e ferma, rimanendo l'ancora che m'aveva aiutato a crescere e maturare. Che se avessi potuto aiutarla anche per qualche minuto in quei momenti, l'avrei voluto fare per tutta la vita.

Quella promessa non riuscii mai a mantenerla, e chissà se dall'altra parte di queste mura, in un letto non mio, Rie ancora si svegliava nel bel mezzo della notte con il cuore che batteva all'impazzata e gli occhi spalancati.


Le dita affusolate si muovevano velocemente sui tasti del computer, non guardavo neanche la plastica che scriveva le lettere conoscendo l'ordine della qwerty a memoria, gli occhi stanchi incollati sullo schermo bianco. Le prime luci dell'alba che s'affacciavano dalla finestra della cucina, quand'ero tornata sul camper erano già tutti a dormire, e m'ero affossata nell'ispirazione e rimasta a scrivere tutta la notte.

Le iridi marroni erano affogate in vene rosse, le palpebre violacee macchiavano la stanchezza, le guance erano rosse e piene di lacrime. Che da quando stavo scrivendo m'ero sfogata di tutti gli errori, di tutte le parole non dette, di come mi ferisca, di come io cerca quelle stesse ferite.

Fu un flusso di pensieri che mi sfogò rabbia, tristezza, disperazione, e anni di solitudine che si svolgevano in mille parole che macchiavano di troppa sincerità. Perché quando sfinita mi guardai dentro, mi chiesi se veramente volessi che tutti potessero leggerlo.

Che tutti potessero leggere quel libro dedicato a Rie così sincero che ad ogni nuova lettera era come macchiarsi le dita di una goccia del mio sangue, ogni pagina girata era il mio cuore che s'apriva a metà per farsi dare una scorsa.

"Buongiorno" la voce di Fortuna era addolorata, di quelle delle madri che scoprono la loro bambina che si piangeva di un problema che non poteva capire, perché infondo, forse ciò che più separava me e la riccia, era proprio Rie. 

Le sorrisi, lei mi asciugò con un pollice le gote rigate di lacrime.

Fortuna che così tanto non poteva capire come finissi sempre nelle sue braccia come un malato di depressione che s'infligge dolore, mi coccolava amorevolmente comunque. Fortuna non chiedendosi mai come potessi vivere in quel modo, non sapevo se fosse quello il modo giusto di reagire a quella palese relazione così autodistruttiva, ma c'era solo quel generoso e dolce silenzio che c'avevamo stabilito.

Quasi non capaci di nominarla com'era una volta, ma tra i nostri discorsi nominata solo come una sconosciuta rivale.

Come se mai nulla fosse successo.

"Mi riscaldi un po' di latte per pranzo?" Cinguettai tirandole leggermente l'orlo della maglia, "credo sia finito," osservò a voce bassa, "cosa? E chi l'ha bevuto?" Incredula le risposi sapendo che sia lei che Bottone non lo preferissero. Lei s'avvicinò alla cucina e controllò ancora una volta il piccolo frigo grigio che si stagliava tra gli altri mobili. 

Borbottò e poi confermò, "mi sembra che ieri prima di andare a dormire Marvin e Maria Sara se lo son scolati", mentre iniziava a riscaldarsi dell'acqua sul fornello per il thè alla vaniglia. "Fallo anche a me" dissi mentre sbuffavo, quel latte mi sarebbe proprio piaciuto.

Nonostante fosse mezzogiorno oramai inoltrato, pareva proprio una mattina triste ed assonnata, ed invece era un pranzo fatto di colazioni.

Lasciai cadere lo sguardo fuori dalla piccola finestra, eravamo in viaggio da tutta la notte, per avvicinarci di più alla Roma che ci avrebbe ospitato. Domani sarebbe stato il grande giorno, che più l'ansia per la pubblicazione era il ricordo acre del suo compleanno.

"Te lo ricordi quando tirammo giù tutto il mondo pur di festeggiare i suoi diciott'anni?" La voce di Fortuna sembrava surreale, sincera e calma, come poche volte la si poteva sentire. Non ci stavamo guardando, i miei occhi erano ancora persi nell'alba delle strade di periferia romane, i suoi persi tra tazze e acqua.

Io e lei, poche volte parlavamo. Fortuna e io avevamo in comune tutto e fin troppo, amiche dal primo secondo di quel ciao. Ci aveva sempre diviso Rie, che al tempo era l'essere entrambe le persone più importante per lei, ora era non riuscire a nominare il suo nome tra di noi.

Non che prima parlassimo di lei. Avevo sempre pensato che la riccia odiasse che le potessi rubare l'amica della vita.

Forse però mi sbagliavo, ed adesso in realtà, eravamo più simili di prima.

Risi soavemente, era stato un bel giorno nonostante tutto, perché quanto tutto potesse andare una merda, bastava stare insieme per essere al settimo cielo delle emozioni.

"Ti penti di tutto l'impegno messo?" Chiesi mordendomi le labbra, le labbra di quella che dopo ogni azione si chiedeva quanto fosse stata giusta, e si risvegliava la mattina che mentre guardava le proprio mani voleva spezzarsele al ricordo di dov'erano state.

"No" rispose Fortuna quasi immediatamente, poi smise di armeggiare le tazze, il silenzio solo riempito dallo sfrigolare dell'acqua che bolliva "non mi pento mai di quanto io le abbia voluto bene, mi pento di quanto la mia felicità fosse dettata dalla sua felicità".

Per qualche secondo mi parve che tutto si fosse fermato, come se la terra si fosse fermata solo per noi, o forse noi c'eravamo fermate mentre tutti si muovevano.

L'asfalto grigio e bianco continuava a muoversi velocemente, il sole stava lentamente risalendo dal suo giaciglio, i miei occhi stremati si bruciavano a osservarlo così tanto.

Accigliai le mie labbra screpolate in un sorriso povero, e sussurrai "già".

Poi tutto riprese a muoversi come se la bolla di sapone che ci circondasse fosse scoppiata all'improvviso, mentre ci godevamo i biscotti inzuppati della bevanda, ci condividevamo i discorsi frivoli che riempivano sempre le nostre giornate.

Gli ingranaggi che tornavano a ruotare come sempre avevano fatto, il sole oramai alto in cielo e le ruote sotto di noi che s'erano fermate in una strada completamente rabbuiata da palazzi e grattacieli altissimi.

Lontano da noi, con urlo strozzato, dal conduttore che s'era impiegato tutta la notte, proferì "Siamo a Roma".

Aiutai a sparecchiare e rigovernare, in un piacevole silenzio con pochi battibecchi, ignorammo silenziosamente che fossimo arrivati. Perché essere arrivati era un misto di sentimenti che poco mi sentivo di assaggiare ancora.

"Alla buon'ora" mi spaventò Fortuna urlando, quando mi girai, incontrai la più alta già bella che vestita mentre usciva dal suo giaciglio. Erano ormai sicuramente oltre le cinque, ma non importava più di tanto l'essersi svegliata così tardi, Fortuna e Bottone avevano completato le tavole del capitolo del nuovo manga in produzione già da tanto. 

Il pensiero mi ricordò però l'annuncio che m'aspettava domani di quelle infinite righe che avevo sepolto sul computer. 

"Andiamo a fare la spesa che qua non è rimasto un cazzo" borbottò Fortuna strattonandomi un pochino il polso, ma quando rimasi con i piedi come cemento sul mio posto, la stessa mi rivolse uno sguardo accigliato, "devo finire di scrivere, andate voi due", sorrisi indotta.

Bottone s'accigliò a prendere subito le chiavi e aprire, "andiamo che devo anche prende delle cosine a Marv" io risi sommessamente al caotico modo in cui si affrettava a tirare con sé Fortuna. La riccia mi tenne lo sguardo addosso per ancora qualche secondo, ma quando le mimai con le labbra qualche parola di rassicurazione, si lasciò trascinare dalla castana.

Mi persi a osservarle correre via, rassicurata nel solo pensiero di vedere Bottone così spensierata e genuinamente sorridente. Non sapevo cosa si fossero condivisi lei e Marvin, ma sembrò esser stato più piacevole del previsto.

Una qualche radice malevola che potrei chiamare gelosia chiedeva di nascere, ma la sradicai con tutta la forza che m'imponevo, non potevo far ciò a Bottone rubandole quel così bel sorriso.

"Non credi sia troppo?" Saltai sul posto sconvolta alla voce convinta d'esser rimasta da sola, prendendomi il secondo spavento della giornata. E colui che  aveva proferito quella frase rise a pieni polmoni a come m'ero paralizzata. Ancora con il cuore in gola e la paura a fior di capelli, osservai Marvin che era seduto davanti allo schermo con il sorriso pieno.

Il biondo era ancora in pigiama, e probabilmente s'era prodigato a legger qualche verso del lunghissimo strappa lacrime monologo. Non aveva un aria provocatoria lui, anzi i capelli erano ancora spettinati e il volto era appoggiato tra le mani mentre le iridi blu illuminate dalla luce del display.

"Lo penso anche io" sbuffai mentre mi gettavo sulla sedia di fronte a lui, la testa gettata violentemente sul legno del tavolo. Non avevo mai scritto qualcosa che era un romanzo, sempre impegnata in trame, sceneggiature e riassunti di volumi. E forse averlo scritto di getto in un momento così delicato con le emozioni traboccanti, non aveva aiutato quella che doveva essere una leggera stesura.

Sentii il vecchio dispositivo di cursore scricchiolare rumorosamente mentre Marvin disperdeva le pagine del documento con la rotella, mi chiesi quanto avessi scritto per dover muovere così dannatamente tanto quella rotellina. 


"Sei troppo sincera" poi disse fermandosi dal leggere, gli occhi si prodigarono nei miei, e ci condividemmo le emozioni in uno sguardo per qualche secondo, "non so come si fa a non esserlo, quando scrivo intendo" risposi il più sinceramente possibile.

"E' normale ehy, non hai mai scritto un libro, nè tanto meno uno commerciale" le parole di Marvin volevano suonare gentili, ma quanto mi feriva nell'orgoglio dover accettare che stavo per pubblicare qualcosa di puramente mediocre e dozzinale. "Tu si?" chiesi curiosa, il tono forse un po' provocatorio.

"No, ovvio che no, ma ne ho letti tanti" rispose sogghignando Marvin, forse volendomi restituire l'immagine di lui molto umile e giovane, tra i due la scrittrice infondo ero io. E il solo pensiero mi faceva sciogliere le sinapsi.


 "Quindi, che devo fa, assitente?" gli chiesi sorridendo a metà bocca, forse fin troppo ovvio che nulla in me fosse felice, ma la persona lì al mio fianco, stava leggendo ciò che m'aveva fatto soffrire fin e oltre oggi per sempre, dov'era oramai il bisogno di mentire?

"E' molto bello, mi dispiace un po'" disse mentre non affrontava il mio sguardo rigato dalla notte in bianco, le iridi color mare riempite di tutte quelle parole dolce amare, sembrava stesse immagazzinando il più grande numero di righi prima di dover cestinare tutto. Io non dissi nulla, rimasi ad osservarlo in silenzio, non sapendo veramente cosa provare.

"Inventa una specie di finale dove vi rincontrare e fate pace," rispose poi mentre girava il computer verso di me, con le dita indicava i paragrafi che forse s'erano resi troppo paturni e disperati, "inoltre le vicende vere forse levale tutte, tieni solo emozioni e sentimenti e vaghe vicende", finì infine Marvin. 

Rimasi in silenzio, e lui quindi mi guardò con aria rassicurante. Io ricambiai lo sgaurdo, ma non espressi nulla che fosse lontanamente vicino al confortevole. 

"Che succede?" chiese in tono più gentile, e meno professionale, la voce ridotta a un soffio, "lo odio, dover fare sta roba, lo odio" dissi mentre con gli occhi leggevo le parole che così s'incatevano nella solitudine eterna di una vita.

"Non intendo modificarlo" dissi prima che potesse rispondermi o rassicurarmi, "preferisco riscriverlo, non sporcherò le mie sincere emozioni di falsità", la voce suonava dura e non piacevole, non che fossi arrabbiata con lui, ma non avevo il tempo e la forza disica di poterglielo veramente spoegare. Ma lui sembrò comprendere magicamente.

"Riscriviamolo insieme, infondo io non so più di tanto di voi, quindi non potrei scrivere tante verità" sussurrò trascinando la sedia accanto a me, spostando le estensioni delle sue mani minute accanto alle mie, le nostre venti dita spalmate su una tastiera nera.

Nonostante fossi sorpresa, sorrisi. 

Apprezzai la manovra risolutiva da parte sua, mi chiedevo dove un ragazzo così giovane e con poca esperienza avesse manovrato questa maneggevolezza. Una parte di me fu anche incastrata in quelle parole un po' criptiche, del ragazzo biondo che in teoria non sapesse nulla di noi, ma ritrasse di saperne in parte. Non mi accigliai deducendo che si riferisse a ciò che aveva potuto osservare dallo scritto originale.

Così l'opera che sanguinava l'odio e il pentimento di un amore che sarebbe dovuto essere eterno, scomparve completamente. Al suo posto per tutto un pomeriggio prese forma quello che era la manovra pubblicitaria più grandiosa che venne in mente alla nostra casa editrice.

Quel pomeriggio fu lungo ed estenuante, ogni secondo si riempiva di bugie e falsi sentimenti, ma almeno erano miscaiti alle risate ed il calore di Marvin. Non essere sola, abbandonata a me stessa, mi fece sentire più a mio agio.

"Fatto!" sgarnocchiò Marin quando digitai l'ultimo punto, alzò la mano vincente e ci scambiammo un sonoroso batti mano. Sorrisi somemssamente e mi prodigai ad inviarlo immediatamente alla nostra manager, la testa mi faceva male dallo sforzo immane e mi abbandonai sulla sedia.

Marvin rise leggermente alle mie azioni, poi lo vidi raggiungere il suo telefono cellulare. Eravamo rimasti così incatenati nella scrittura che avevamo completamente abbandonato i medesimi, il mio però troppo lontano per la mia svogliatezza da raggiungere.

"Il gruppo è già verso il ristorante dove ceneremo, Fortuna e Bottone ci stanno aspettando a qualche isolato da qui," disse Marvin alzandosi e cercando nel porta cappotti la sua enorme giacca americana, io rimasi con gli occhi chiusi con la testa che penzolava dallo schienale sulla sedia. "Portami gli avanzi, sono troppo stanca per aprire gli occhi" gli risposi ironicamente, le labbra che mi si intrecciavano in un piccolo sorriso mentre osservavo il buio degli occhi spenti.

Lui mi salutò ed uscì dalla porta, sospirai quando mi accorsi d'esser sola. Poi risi sommessamente, gliel'alvevo chiesto io d'andare via, cosa esattamente stavo chiedendo? Eppure non potevo fingere che mi si era incrinato il cuore quando Marvin non aveva fatto resistenza alcuna prima di scappare.

M'alzai così pesantemente che pareva fossi stata ibernata e non ricordassi più come si usassero le gambe, mi diressi in bagno e chiusi la porta. La luce chiara accesa del bagno, sottolineò la mia immagine riflessa nello specchio, osservai con disdegno quanto lo stato del mio volto peggiorasse ogni giorno di più.

Senza rumore, iniziai a spogliarmi lentamente e dire addio a quegli stupidi panni che coprivano le mie poche vergogne, abbassai lo sguardo dallo specchio e smisi di guardarmi. L'acqua della doccia era bollente, bruciava sulla pelle come adoravo che facesse. Mi sentivo più viva provando quel calore.

Speravo che potesse portare via con il sapone tutto ciò che m'era rimasto spalmato addosso, ma la solitudine ed il peso nel mio cuore sembravano una macchia ostinata. 

Mi chiedevo come potessi sentirmi sola circondata da persone che mi amassero, ma forse tutte quelle persone sono inefficienti se vuoi l'affetto di una sola in particolare.

Mi avvolsi in un asciugamano rosa, uno dei tanti di Bottone, i miei scomparsi chissà dove dopo aver dimenticato di lavarli. I capelli bicolore si stagliavano sulle mie spalle, il riflesso nel mio specchio continuavo ad evitarlo come se fosse il peggiore dei miei mostri.

Come se l'unico mio vero nemico fosse qualcuno che non potessi mai abbandonare, me stessa.

M'infilai una maglia nera sopra il petto senza il reggiseno che avevo dimenticato nei meandri della mia sbadataggine, le mutande nere infine si stagliavano senza nessun pantalone che potesse aiutarle.

Afferrai la maniglia del bagno e spostai i piedi nudi verso la cucina, quando il cuore che batteva lentamente freddo e scuro, si colorò in un istante del più rosso sangue e iniziò a martellarmi in petto così veloce che ebbi paura potesse rompermi la cassa toracia.

"C'ho portato gli ordini qua, magna su" la sua voce era rauca e cattiva mentre mordeva la pelle della coscia di pollo, le dita avvolte intorno all'osso come se la sua vita dipendesse su ciò. La tavola imbandita di due cartoni pieni di carne e leccornie varie, Rie in tuta era seduta sulla sedia di fronte a me con le gambe incrociate, i capelli raccolti disordinatamente e la bocca sporca di salse.

Uno spettacolo che avrebbe fatto ribrividdire qualunque essere umano. Ed io dal profomdo della mia selva oscura, sorrisi mordendomi il labbro inferiore.

Ero così arrabbiata, così arrabbiata che mi avesse reso così felcie vederla.

Mi sedetti senza dire nulla, iniziai a mangaire mentre lei aveva quasi oramai già finito e si prestava a sciacquarsi le mani nel lavandino. Non dicemmo nulla per un po', tra di noi una sorta di tensione che però da un po' respirava troppo di confortevole.

Notai con tanto sospetto però che sembrava tenere un respiro affannoso di quelli usuali per le corse campestre, "Come può stancarti la corsetta dalla sedia al lavandino?" risi mentre mi asciugavo le labbra sporche. 

"L'eroina mi ha fatto ammalare per settimane" mi rispose Rie ammettendolo a voce bassa, "E l'erba è ottima per farmi dormire, ma ho bisogno di qualcosa che mi tenga sveglio", non incontrò mai il mio sguardo mentre parlava. Non sembrava vergognarsene, più odiare d'ammettere di non aver retto una certa quantità di droga.

Finsi di non rimanerci male nel sentirla parlare così espertamente d'eroina.

"Sono sorpresa che tu non l'abbia ancora provata" incontrò poi il mio sgaurdo mentre tornava a sedersi sulla sedia di legno,"voglio dire,sono felice che tu non l'abbia fatto, ma sorpresa diciamo".

Compresi quelle parole, il mondo dell'arte si costellava di artisti e poeti morti d'overdose o presi dalle droghe. Così allettanti e facili per distrarsi, così distruttivi e difficili da eliminare. Un brivido mi sali su per la schiena. 

 Mi strinsi nelle spalle, "mi fa un po' paura quella roba, non mi fido abbastanza di me stessa forse" ammisi mentre facevo muovere dolcemente il vino che mi era rimasto nel bicchiere prima di ingerirlo.

"Neanche io, ma sempre meglio di rimanere da sola con me stessa" disse senza smettere di guardarmi, sorrisi alle parole che fin troppo mi suonavano comprensibili, e mi chiesi se lei nel profondo riconoscesse qualche tipo di pentimento rispetto alle sue deicisoni, o se stesse parlando di completamente altro.

Egoisticamente, lo speravo, realmente ero sicura che Rie fosse semplicemente contro se stessa da tutta la vita.

"Ma come fai a procurarti l'eroina?" Chiesi sorridendo, "ora sei curiosa?" mi rispose sghignazzando, io le feci la linguaccia mentre cinguettavo un no categorico.

Poi la corvina così eterea di fronte a me indossò un espressione strana all'improvviso, tra il serio e il beffardo, "Marvin, me la vende Marvin".

Rimasi completamente in silenzio scioccato alla notizia, per un secondo convinta fosse una sorta di scherzo dei suoi, poi compresi dalle iridi che parevano un po' più fioche e perse quella sera, che non stesse mentendo. Mi chiesi se però estorcere informazioni da una ragazza fatta fosse illegale, feci finta di non accorgermi che probabilmente avesse fumato.

"E' come l'ho consociuto, infondo," continuò poi mentre scioglieva il codino disordinato, i capelli neri pieni di nodi e aggrovigli che scendavano lentamente a corniciarle il volto "e perchè siamo rimasti in contatto anche dopo quella sera in disocteca".

"Oh" risposi senza tono, come se le informazioni fossero qualcosa di così assurdo che quasi pareva ovvio "wow". Lei rise, la risata era rauca e piena di tosse, in un'altro mondo e giorno forse mi sarei preoccupata della sua salute. 

Ma in quel momento stavo solo ragionando sul fatto che avevo assunto uno spacciatore. 

Non potevo crederci, che quell'anima così posata e tranquilla vendesse l'eroina. Ancora non processavo, e mi sentivo in colpa infondo di saperlo. 

Rie non sembrava completamente incapace di intendere e volere, ma sicuramente non era sobria. Che quella cosa fosse qualcosa che io non dovessi venire a sapere? 

Poi però, quando iniziai ad aver paura di quel qualcosa che fu rivelato, lei virò da sola la sua conversazione "comunque oramai sono arrivata a più di una canna al giorno, e me la so dimenticata cazzo" disse mentre si patteggiava continuamente le tasche. La osservai buffamente mentre ricontrollava le stesse medesime toppe come se potessero come per magia comparire. 

Risi, "aspetta, Marvin le dovrebbe avere, sperando che io mo non trovi na bella busta bianca" mi prodigai ad alzarmi nello scopo di forzare aperta la sua stanza. 

Rie borbottò qualcosa dietro di me ma non riuscii a sentire bene cos'aveva da dire. La stanza del biondo era di per sé molto anonima, infondo la occupava da non molto. 

I suoi vestiti erano rimasti per terra, il pigiama era ancora sparso sul cuscino. Il letto non era rifatto, le coperte blu a scacchi parzialmente strisciavano per terra. 

Allungai una mano sotto al letto, giurai di aver sentito Marvin parlare di tenere una canna d'emergenza qui sotto, la chiamava la sicurezza in caso avesse un attacco di panico. Ma ora questa scusa suonava molto diversa. 

"Eccola" sussurra tra me e me, quando le dita mi si avvolsero intorno al piccolo spinello, m'alzai dal pavimento e chiusi dietro di me la porta. Dentro di me volevo parzialmente scusarmi dell'aver rubato un effetto privato, ma ancora in qualche modo l'idea che sul mio camper ci fosse della neve bianca da sniffare mi faceva storcere il naso. 

Lasciai che la cicca scivolasse dalle mie dita a quelle forzute di Rie, la prese così dolcemente che quando mi sfiorò mi sentii a disagio. Regale e posata. 

Rie trattava l'erba meglio delle persone. 

Prese il suo accendino e lo avvicinò alle labbra, la carta che bruciava velocemente come avevo imparato ad apprezzare. L'odore acre dell'erba che riempiva la stanza. 

"Se devi fumare erba e sniffare ogni giorno per sopravvivere, allora sei una tossicodipendente." commentai mentre le mie iridi castagne si perdevano nei suoi movimenti che sempre mi avevano ammaliato. 

Rie assunse un espressione sconvolta dal sopracciglio alzato," Non sono un tossicodipendente!"  sbatté il pugno sul tavolo. "Vaffanculo, non capisci" la corvina mi fece il broncio mentre usciva fumo bianco dalle sue carnose labbra, quell'aria distrutta che pareva una messa in scena era qui davanti a me che era solo realtà tangibile. 

"Come ti pare" alzai gli occhi al cielo mentre con le dita tumberellavo un motivetto conosciuto, "Fatti di LSD per quanto m'interessa" Sospirai, quella era una così ovvia bugia, infondo alla gola mi si uccise una farfalla. 

Cadde un silenzio che non mi aspettai, Rie rimase in silenzio senza distogliere lo sguardo da me, unico suono che ci divideva era quello della siga che lentamente veniva dispersa tra le sue labbra. 

"Voglio solo sopravvivere a questo contest" dissi con un filo di voce, mi tremo la voce e rimasi a bocca schiusa, ingoiai quel gulpo che mi si era formato alle parole di poche prima, rispedendo la farfalla nello stomaco. 

Rie mi sorrise mentre gettava la sigaretta fuori dalla finestra, cadette sulla strada spegnendosi soavemente sul cemento freddo. 

Mentre quella si raffreddava, la corvina mise la sua mano sul tavolo e si arrampico su di esso in un momento che parve infinito e a rallentatore, poi mi strattono dalla maglia e premette le sue labbra sulle mie. 

Quel bacio irruento e focoso, dove c'erano più denti che labbra, più saliva che lingua, più masochismo che amore. 


Quando mi svegliai, nel letto ero rimasta nuda e da sola. Due aggettivi che non si sposavano benissimo insieme. Ma con i quali avevo imparato a convivere. 

Non era ancora mattina, anzi un vociare mi aveva destato il sonno. 

"Credo tu sia bandita dai letti" sibilò la voce che sicuramente apparteneva a  Marvin con una nota divertita. La sua voce era un po' ovattata, ma la sentivo abbastanza bene da distrarmi dall'essere tranquilla visto la sua probabile interlocutrice. 

 "A meno che non sia invitata" rispose Rie. 

Sentii il calore risalirmi fin sopra le punte delle orecchie. 

Fanculo, cazzo. 


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