Capitolo 5 - Strade separate, un unico destino.

Nella sua stanza, la regina aveva il volto segnato da innumerevoli tracce di lacrime ormai passate, ormai sedeva in silenzio osservando tutto quello sfacelo che si diramava sotto il suo sguardo, l'odore acre del fumo che entrava lieve, quasi timidamente dalla finestra aperta, quasi non osasse contaminare uno spazio che era stato dominato dalla purezza, almeno fino a quel momento.

E ora quale futuro poteva avere lei, suo marito era scomparso e il figlio che portava in grembo aveva bisogno di un posto tranquillo e accogliente in cui nascere e... oh! Un singhiozzo si impadronì di lei e la scosse da capo a piedi.

Proprio mentre era assorta in quelle riflessioni, la porta si spalancò di colpo e una serva entrò gridandole che era meglio uscire prima che fosse arrivato il nuovo re a requisire il palazzo perché se avesse trovato un intruso nella sua nuova dimora, lei non sapeva cosa avrebbe fatto e quindi era meglio fuggire prima che fosse troppo tardi.

Tutti questi discorsi arrivarono ovattati all'orecchio distratto della regina che rispose flebilmente con un:< Ma io non sono un'intrusa, questa è casa mia.> e poi urlando<Questa è casa mia!> terminò voltandosi con aria minacciosa verso la serva.

Poi, accorgendosi dello sguardo spaventato della serva, si scusò subito e la serva le si accostò prendendola sotto braccio e aiutandola ad uscire dalla porta.

Si diceva che i servitori conoscessero a memoria tutti i corridoi del palazzo e che fossero a conoscenza di stanze che nemmeno il sovrano sapeva esistere e che cosa vi fosse custodito non lo rivelassero a nessuno, nemmeno al proprio signore.

Fatto sta che con una rapidità quasi innaturale, essendo partite dal terzo piano del palazzo, le due donne si ritrovarono all'esterno.

Poi, in mezzo al caos della popolazione e dei cavalieri che ancora resistevano alle frotte di orchi che si precipitavano all'interno della città per prenderne possesso in nome del proprio re, l'ancella misteriosa e la regina, entrarono in una capanna costituita da una sola stanza con le pareti di pietre disposte a secco e con il tetto in paglia sostenuto da delle assi che gli davano una forma spiovente.

Al centro della stanza completamente spoglia e priva di finestre, si delineavano i contorni di una botola chiusa da un pannello ligneo e illuminata da un piccolo fascio di luce che penetrava da una feritoia per gli arcieri sul muro di sinistra.

Le due si infilarono svelte per il pertugio non appena la serva l'ebbe aperto.

Delle scale si dirigevano verso il basso e le donne videro una luce fioca vibrare in lontananza.

<Ecco, ci siamo, dovremmo essere giunte in fondo... ormai non manca molto credo> disse la domestica, la voce interrotta dal respiro affannoso<A proposito, io mi chiamo Marion.>.

<Io... invece... mi chiamo... Mirimae.>.

********************

<Ma... dove siamo?> domandò il re con il respiro mozzo per la corsa.

<Presto lo scoprirete maestà> rispose Caliorn che gli faceva da guida per quei tunnel luminosi disposti a labirinto.

<Seguitemi e lo scoprirete...>.

Dopo un po' si trovarono di fronte ad una porta bianca istoriata di rosa e d'azzurro e tempestata di pietre preziose con un contorno dorato, ma il re non ebbe tempo di approfondire meglio i dettagli di quella visione, poiché non appena il mago le si avvicinò, la porta spalancò i suoi battenti permettendo ai fuggiaschi di passare oltre; poi si chiuse con uno schianto alle loro spalle e nel tempo che ci mise il re a voltarsi, era subito sparita.

<Eccoci arrivati Sire!> annunciò il mago con aria trionfante<Eccoci tra le nebbie di Avalon.>.

<Avalon...> disse il re in un sussurro volgendo lo sguardo ai rami fronzuti che costruivano una specie di riparo sopra le loro teste facendo passare la luce del sole in modo da rischiarare i passi dei nostri viandanti, ma non ve ne era mai abbastanza, così che i pellegrini dovettero più volte volgere lo sguardo al suolo.

Man mano si addentravano nella foresta, l'aria in principio così limpida, si piegava al dominio di una sempre più fitta nebbiolina verdastra.

Le fronde cadute scricchiolavano sotto i loro passi e in alcuni punti venivano sommersi fino alla vita dal fogliame autunnale che sembrava non avvertisse peso umano da interminabili generazioni.

Più si facevano largo tra la vegetazione e più il mago si faceva pensieroso e ben presto si stancò di avanzare senza una meta e si fermò ai piedi di una grande quercia, molto più grande della "Grande Quercia" che dominava la radura del bosco silenzioso accanto a Serenia, città di alberi accanto ad una città di uomini.

Il mago si era fermato a fissare il maestoso albero a lungo e non accennava a smettere, così il re, più per rompere il silenzio che per vero interesse, fece per domandare:<<Questa assomiglia...> ma non fece in tempo a finire la frase perché subito venne interrotto da un cenno del mago che rispose prontamente:<Alla grande quercia della foresta di Ormund. Lo so! Infatti il seme da cui ha preso forma/ vita (che l'ha generata) viene da qui.> poi, dopo una breve pausa continuò:<Gliel'ho portato io personalmente.>.

Questo lasciò di stucco il re che non ebbe nemmeno il tempo di dire una parola che subito, il suo saggio consigliere, lo interruppe nuovamente:<Ma non intendo fermarmi qui molto a lungo, infatti la strada da percorrere è tanta e non ci è concesso di fermarci fino a notte inoltrata; un altro luogo è destinato ad accogliere e proteggere il nostro riposo notturno.>, detto ciò si incamminò verso il folto della foresta per riprendere il cammino.

Mentre il giorno declinava, i due procedevano a fatica facendosi largo tra le fronde con le braccia e con le mani. Il mago, che nel frattempo si era fatto più loquace, utilizzava il suo fido bastone.

Era passato molto tempo da quando avevano abbandonato la radura, ma egli sembrava non esaurire mai i propri argomenti e parlava senza mai dare occasione al re di proferire un singolo concetto ben articolato, ma solo suoni come:<Uhm!>,<Ah!>,<Ho capito!>, <Dunque...>, ecc..

Mentre parlavano, o meglio Caliorn parlava, degli argomenti più vari, scomparve tra il fogliame, per poi esclamare ad un tratto:<Ecco fatto maestà! Ci accamperemo qui!>.

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