Empire State of Mind - JAY Z ft. Alicia Keys
Luglio
Salgo l'ultima rampa di scale del palazzo abbandonato che Peter mi aveva chiesto di raggiungere prima di uscire. Ieri sera mi sono addormentata quasi subito, distrutta, mentre questa mattina mi sono svegliata super riposata. Peter era già sveglio e mi stava guardando da qualche minuto, rimunginando sul fatto che anche con i capelli spettinati e il rivolo di saliva che aveva inumidito il cuscino ero bella comunque. Sei bella comunque: una delle frasi più belle che mi avessero mai detto.
Mio padre era uscito di casa attorno le nove per delle commissioni, di Shane neppure l'ombra, così avevamo la via libera. Siamo rimasti fino a mezzogiorno sul divano a guardare Netflix e a farci le coccole. Mentre stavamo parlando sul perché Regina George amasse tanto quelle barrette iperproteiche, lui è scattato un piedi, dicendo che doveva fare la sua "ronda giornaliera". Inutile dire che subito dopo il rumore sordo della porta che si chiudeva mi sono messa a pregare tutti gli dei esistenti che non si facesse male.
Lo so bene che a un supereroe un cazzotto glielo rifilano in ogni caso, ma la mia testa non voleva sentir ragioni. Mi ha scritto solo una mezz'oretta fa, dicendomi che non aveva trovato "niente" e che quindi non mi dovevo preoccupare. Semplicemente mi disse di raggiungerlo sul tetto del palazzo abbandonato fra la trentottesima e trentaduesima.
Il mio zainetto rimbalza ritmicamente sulla mia schiena ad ogni scalino che faccio, saltellando. Vedere New York dall'alto, ormai, era diventata una cosa nostra. Tre, due, uno scalino e sono arrivata alla porta che - penso - dia sullo spazio aperto di questo vecchio ufficio. Percorrendo quella che una volta doveva essere l'entrata ho notato dei vecchi divanetti e tappeti rovinati un po' ovunque. Vicino alle pareti dei materassi logorati dal tempo appartenuti probabilmente a dei senzatetto; sulle pareti graffiti di writers anonimi. L'atmosfera era cupa nonostante il sole splenda alto nel cielo. La poeticità di certi luoghi è in ogni caso senza eguali.
Sospiro quando mi affaccio cautamente ad osservare la vista di New York dall'altro, facendo sgusciate un braccio tra le sbarre di ferro che tagliano il panorama. Il leggero venticello che tira risulta qualcosa di meraviglioso al contatto con le mie dita. Osservo la città che risplende sotto i raggi prepotenti del sole. Dovrei trovarmi al quinto piano... niente di particolare, dato che ci vivo, in un "quinto piano".
I miei occhi notano qualcosa: quel qualcosa è niente di meno che Spider-Man. Peter dondola tra i palazzi spruzzando ragnatele ovunque. Lo vedo e poi non lo vedo più, torna indietro e poi svolta; si ferma in una stradina vicina a fare una foto con una ragazzina che lo bacia sulla guancia. Mano a mano si avvicina alla meta, facendo ancora a zig-zag tra i palazzi, evidentemente per far "perdere le sue tracce".
Sbuca dal basso, mentre si arrampica tra le sbarre e io lo guardo a bocca aperta. È di un'agilità sbalorditiva, quasi inquietante. Con un balzo supera le sbarre e atterra in punta di piedi, senza il minimo sforzo.
«Ciao.» faccio io, osservandolo sedersi a terra e togliersi la maschera, prendendo grandi boccate d'aria. Un po' titubante per colpa della gonna che non sono abituata a mettere, mi accomodo di fianco a lui.
«Ehy...» mi sorride, massaggiandosi un polpaccio, dolorante. Mi preoccupo senza pensarci.
«Che cosa è successo?» chiedo impaziante.
«Oh, niente. Ho sparato male una ragnatela e ho sbattuto contro un cornicione...» rivela, un po' in imbarazzo. La sua timidezza mi fa troppa tenerezza, e decido di risparmiargli la predica - che in ogni caso non sarei autorizzata a fare.
Ha ancora il fiatone e il sudore gli appiccica i capelli alla fronte, ma vedo che comunque sta bene. Giusto per interrompere il silenzio, mi tolgo lo zainetto dalle spalle ed estraggo una bottiglia d'acqua che mi ero portata per emergenza, porgendogliela. «Come faresti senza di me, eh?»
Spalanca gli occhi quando vede il liquido tra le mie mani, si attacca alla bottiglietta come se ne andasse della sua vita. Anche in questo sembra un'opera d'arte. A seguito di questo pensiero riaffiora un ricordo che non pensavo di avere.
«Sai,» faccio io, per aprire la conversazione, «Attorno ai miei... Dodici anni, credo?, Sono andata ad Amsterdam, e ovviamente ho visitato il museo di Van Gogh.» Peter poggia a terra la bottiglia d'acqua e mi presta attenzione.
«Ora, immaginati una piccola me, magrolina e fragile, che guarda a bocca aperta La notte stellata...» sorrido all'immagine e cerco di evocare più dettagli possibili. «Stavo osservando ogni singolo dettaglio, sentendomi risucchiata dai colori, dalle pennellate. Poi, tutto ad un tratto, un ragazzino poco più grande mi si avvicina e inizia a parlarmi... Ehy, mi stai ascoltando?»
Peter si riscuote, sbattendo le palpebre un paio di volte. Mi acciglio più che posso, mentre una flebile rabbia si fa sentire.
«Perdonami... stavo pensando.» Silenzio. «Stavo pensando ad una vita diversa, una vita senza Spider-Man. Forse sarebbe più facile...»
Silenzio, ancora. Non ho le facoltà per parlare, non posso dire che lo capisco. So che deve arrivare al punto, ma ha paura.
«Forse è mantenere il segreto che ti preoccupa...?» ipotizzo, dato che non si sa mai. «Io personalmente mi sentirei parecchio stressata. Dover star sempre in guardia verso tutto e tutti non è il massimo.»
«Pensi che per me sia facile?» mi chiede, un po' inacidito.
«Certo che no! Dico solo che dovresti valutare l'idea di smettere di nascondere ciò che fai.» Lui apre la bocca per parlare, ma io lo interrompo. «So cosa stai per dire: mettere in pericolo di qui, rischiar la vita di là... ma a cosa rinunci? Scommetto che anche per il signor Stark è stato difficile, ma guarda ora. La sua vita pare andare abbastanza bene, immagino.»
So che Peter vorrebbe controbattere, lo vedo dal modo in cui serra la mandibola e si morde le labbra. Decido quindi di archiviare l'argomento, ma solo per il momento.
«Scusami. Non ne parliamo più.» Sospiro e mi appoggio alla sua spalla. Ho così tanta paura di perderlo che neppure me ne capacito. Ogni giorno potrebbe essere l'ultimo, e non lo dico perché sono reduce da una seduta intensiva su Tumblr, semplicemente perché è così.
«Ho paura di perderti.» mormoro. Voglio solo che lui lo sappia.
«Non mi perderai.»
«E invece sì, che ne sai tu? Succederà, ed io non potrò farci niente. Tu dici che essere supereroi non è cosa semplice. Beh, prova a metterti nei miei panni: tu puoi fare qualcosa per salvarti la pelle, io invece no.»
Lui trattiene il fiato, poi mi dice di andargli più vicina. Gli salgo a cavalcioni sulle gambe e rimango lì, ignorando la preoccupazione e l'odore acre del suo sudore. Rimaniamo così, stretti l'uno all'altra, senza dire una parola. Ci permettiamo di piangere, non sapendo neppure perché. Siamo legati a doppio filo: se uno si spezza, l'altro lo segue.
Nel frattempo New York City, sotto di noi, continua con la sua interminabile attività. Si muove, muta, migliora. E' come un corpo in crescita, respira e vive. New York è la città del nuovo, del moderno, eppure racchiude così tanto dolore, così tante ingiustizie. E una di queste mi sta stringendo fra le sue braccia.
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