XXV ~Cena a base di carne umana~

Oks

«Momento storia finito, soddisfatto?», chiesi ironicamente.
Lui abbozzò un sorriso e si stiracchiò sulla sedia. Il mio sguardo indagatore non potette non cadere sulle braccia che, a seguito dell'azione, fuggirono dalla coprenza della felpa e rivelarono delle vene ben visibili; evidentemente il ragazzo si allenava molto. «Adesso tocca a te.»

Si sistemò meglio ed incrociò le braccia al petto, «cosa vorresti sapere?»

«Qualcosa riferente alle località in cui siete stati, penso che ogni una di esse ti abbia lasciato qualcosa, no?»

Lo vidi leggermente confuso dalla mia domanda, eppure non mi sembrava essere tanto complicata o estremamente personale, anzi. «Siamo stati in diverse città e paesi, ma mai nessun posto mi è rimasto nel cuore. Noi non amiamo molto interagire con i cittadini, anche perché ci accusavano continuamente di essere zingari e ladri, quindi in poche occasioni abbiamo visitato i posti.»

Deglutii rumorosamente: dunque non ero la prima ad aver avuto dubbi sul loro conto. Eppure, apparentemente, mi sembrava che interagissero fin troppo bene con la gente del paese, tutti li adoravano. «Peccato», borbottai, «non sei mai andato a scuola?»

Si passò una mano tra i capelli e cambiò nuovamente posizione, ero abbastanza sicura che le mie domande lo mettessero in imbarazzo, o -azzardai- lo facessero innervosire, ma infondo non gli stavo chiedendo nulla di estremamente personale. Non volevo sembrare invadente, quelle erano le classiche domande che si ponevano ad una persona per conoscerla meglio. Personalmente parlando non era mia intenzione fare amicizia con lui, volevo solo capire il motivo per il quale viaggiassero sempre, era sola pura curiosità.
«Certo che ho frequentato la scuola, mi prendi per un allocco?»

«Non ho mai detto questo.»

«Hai finito con l'interrogatorio, o dobbiamo restare qui fino all'orario di chiusura?», esclamò acidamente.

Strinsi forte la mano attorno al bordo della lunga maglia e mi morsi il labbro inferiore. Era veramente odioso, o forse ero io ad aver sbagliato qualcosa; fatto sta che non avevo mai fatto amicizia con un ragazzo e mai l'avrei fatta.
Mi limitai a lanciargli uno sguardo torvo e mi alzai dalla sedia. «Ho finito», lo lasciai seduto al tavolo e mi avviai verso la sezione in cui ero pochi minuti prima ed afferrai il libro di creature mitologiche; per puro caso mi ero ritrovata a leggerlo, alla ricerca di un buon libro, e mi ero imbattuta in qualcosa di molto curioso e al di fuori della semplicità dell'essere umano.

Mi avvicinai alla segretaria di turno e le porsi il libro, aspettando che inserisse i dati nel computer e che mi informasse entro quanto avrei dovuto riconsegnare. il libro. Così l'occasione per indossare il giubbotto e il cappello.
«Grazie mille, arrivederci.»

Non appena uscii dalla biblioteca, il gelido freddo autunnale mi colpì in pieno viso e mi fa battere i denti. Feci per incamminarmi verso la fermata del autobus, ma venni fermata da una voce.

«Oks, aspetta!», urlò Gabriel, uscendo e raggiungendomi a passo veloce. «Mi dispiace per prima, sono un po' nervoso ultimamente e-»

«Ah, allora conosci il mio nome, pensavo che mi chiamassi solo Rossa. Comunque non preoccuparti, posso capire», gli voltai ancora una volta le spalle, ma la sua mano bloccò il mio braccio, costringendomi a restare ferma.

«Certo che conosco il tuo nome, Rossa è solo un nomignolo, non pensavo ti desse fastidio.»

«Preferisco Oks, ma puoi chiamarmi come ti pare, non mi fa né caldo né freddo. Adesso mi lasci andare per favore, rischio di perdere l'autobus.»

Si mordicchiò il labbro inferiore ed alzò il viso, guardandosi attorno. La mia più totale attenzione ricadde proprio su quelle carnose e rosee labbra; lo invidio tantissimo, le mie sembrano essere di marmo. «È quasi ora di cena, ti andrebbe di mangiare qualcosa insieme? Così avresti la possibilità di conoscermi meglio, come vuoi.»

«Conoscerti meglio? Non voglio affatto conoscerti, quelle domande erano per pura curiosità. La tua vita è molto dinamica, a differenza della nostra che è un continuo circolo di torture. Ecco perché ti ho fatto qualche domanda, per conoscere luoghi lontani ed opposti da questo inferno! Ma non fare mai più l'assurdo pensiero che ti voglia come amico.»

Abbozzò un sorriso divertito e mi lasciò il braccio, «va bene, allora potremmo mangiare insieme e -se proprio desideri- potrei farti vedere qualche foto dei luoghi in cui sono stato.»

Perché quel improvviso cambiamento di umore? A malapena ci parlavamo e in quel momento mi aveva addirittura chiesto di cenare insieme.
«Va bene, ma solo perché sto morendo di fame.»

«Potremmo andare al Dobbis' lì fanno ottimi panini, ci sono stato due o tre volte.»

Aggrottai la fronte confusa, «Dobbis'? Non si trova in paese, non ne ho mai sentito parlare.»

«No, ci vogliono venti minuti di autobus per arrivarci, è poco lontano dal paese.»

Allungai il viso oltre le sue spalle, vedendo arrivare l'autobus, «bene, ma se non ci sbrighiamo perdiamo l'autobus e addio alla bella cena.»

Correndo riuscimmo ad arrivare in tempo alla stazione di fermata, dopodiché attendemmo solo di giungere a destinazione.
Il mio cuore batteva forte, ma non ne capii il motivo. Dentro di me sapevo che la sua presenza mi rendeva nervosa, eppure tante palpitazioni non erano dovute al nervosismo.
Deglutii e mi voltai verso destra, dove vidi la sua figura seduta. Aveva una cuffia all'orecchio e stava ascoltando una registrazione su WhatsApp.

Come se solo in quel momento fossi atterrata con i piedi per terra, il mio cervello aveva riacquistato lucidità e si stava chiedendo cosa diavolo ci facessi insieme a lui, ma il mio cuore proprio non la smetteva fare le capriole.

Quando scendemmo dall'autobus, intraprendemmo un percorso a piedi di circa dieci minuti. Nonostante lui fosse accanto a me -forse un po' troppo vicino- non mi parlava né mi guardava. La consapevolezza di aver sbagliato ad accettare era sempre più vivida.

«Siamo arrivati», sentenziò dopo interminabili silenzi.

Annuii e mi lasciai condurre dentro al pub. Ero emozionata nel scoprire un nuovo posto. Esso si presentava in stile rustico, con tavoli e sedie di legno. Un delizioso odore ci raggiunse sin dall'uscio, insieme ad un caldo quasi soffocante.

Ci accomodammo al tavolo indicatoci dalla cameriera e subito dopo afferrammo i menù. «Per me un panino con hamburger di pollo, insalata, pomodoro e salsa, per favore niente sottiletta», le dissi.

«Invece per me un panino con doppio hamburger, insalata, sottiletta affumicata e una porzione grande di patatine», sgranai gli occhi sorpresa. Quanto mangiava? Ma soprattutto, dove li depositava tutti quei carboidrati? «Perché mi guardi in quel modo? Ho fame», si giustificò, ridacchiando.

«Mi chiedo solo come tu faccia ad avere un fisico da atleta se ingurgiti tutta quella schifezza.»

«Mi alleno molto e ogni giorno, come mai non hai voluto la sottiletta?»

«Sono allergica ai latticini.»

«Povera, non sai quel che ti perdi», borbottò, bevendo un sorso della birra che la ragazza gli aveva portato. Accortosi del mio sguardo insistente proprio su di essa, se la rigirò tra le mani e chiese: «ne vuoi un sorso?»

«Non saprei, non ho mai bevuto la birra, che sapore ha?»

«Non hai mai bevuto una birra?», esclamò incredulo, «devi assolutamente provarla, il sapore è indescrivibile e ogni uno ha i propri gusti.»

Titubante afferrai la bottiglia che mi porse, per poi bere un bel sorso senza fermarmi. Il sapore che avvertirono le mie papille gustative era forte ed aspro. Aveva ragione, non era possibile descriverlo, ma solo una cosa potevo dichiarare: non l'avrei mai più riprovata.
«Ah non capisci nulla», borbottò, dopo aver visto la mia faccia disgustata.

«Indossi sempre felpe nere», gli feci notare, «è il tuo colore preferito?»

«Assolutamente no», ne bevve un altro, «ma mi piacciono i colori spenti, tristi.»

«Adesso che ci penso, io non ho un colore preferito... È forse strano?», mi grattai la nuca.

«Non penso, non esiste una legge che ti impone di avere un colore preferito.»

Quando arrivarono i nostri piatti, iniziammo a mangiare con gusto i panini che avevamo ordinato. Gabriel aveva ancora una volta ragione, i panini di quel pub ti portavano in Paradiso con un morso.
A differenza del viaggio di andata, durante tutta la cena non rimanemmo in silenzio, nemmeno per un secondo.

Parlammo un po' di tutto, senza entrare in faccende troppo personali. Restammo per quasi due ore nel pub, ma non ci rendemmo conto dell'ora fin quando Anisha non mi inviò un messaggio preoccupata dal mio ritardo.

Purtroppo, l'ultima fermata dell'autobus era alle nove di sera, quindi eravamo rimasti a piedi.
«Sto provando a chiamare Sandel per farci venire a prendere, ma non risponde», sbuffò lui, «propongo di iniziare ad avvisarci verso casa, altrimenti non arriveremo mai a destinazione. Spero solo che quel babbeo veda le chiamate perse e mi richiami», sussurrò infine, alzando il viso verso il cielo, dove una maestosa e luminosa luna piena ci accompagnava in quella tragica avventura.

«Ci metteremo quasi un'ora per arrivare», piagnucolo, io odio camminare!

«Potremmo accorciare dal bosco, anziché fare il giro lungo.»

«Sei pazzo? È ormai calato il sole il bosco è pericoloso, ci sono i lupi!»

Alzò gli occhi al cielo, «ancora con questa fissazione. Il sindaco ci ha rassicurati che non ci sono lupi, hanno mandato truppe si cacciatori e mai lo hanno avvistati, forse quello che hai visto era di passaggio.»

«Chi ti dà la sicurezza che non c'è ne sia un altro di passaggio proprio questa sera?»

«Oks», mi poggiò le mani sulle spalle, «sono cresciuto a contatto con la natura e con gli animali che la abitano, in caso dovesse comparire un lupo so come comportarmi. Ragiona, possiamo arrivare prima a casa e non far preoccupare troppo la tua famiglia.»

Osservai attentamente il suo viso, per poi puntare lo sguardo nell'oscurità che si celava oltre i rami dei primi alberi. Inizialmente mi ero pentita di aver accettato il suo invito per la cena, ma poi -a seguito della piacevole serata- mi ero ricreduta, forse avrei potuto accettare e ricredermi nuovamente. «Va bene, ma non correre, non riesco a starti dietro», ricordai "l'escursione" che facemmo per trovare i fiori per la ricerca in biologia.

Lui annuì, dopodiché entrò nel bosco, seguito da me. «Guarda il lato positivo della serata, almeno ho azzerato le tue curiosità sul mio conto ed io ti ho conosciuta per quello che sei e non per quello che la gente dice.»

Sulla sua ultima frase rimasi di sasso. Allora era vero: anche lui credeva alle voci del paese. Eppure mi aveva chiesto di cenare insieme e si era accertato se fossero vere. Ciò significava che non si era fermato ai pregiudizi. Mi chiesi dunque se sapesse la vera storia su cui tutto aveva avuto inizio.

«Sì ed io ho capito che tu non sei uno zingaro e che hai molte qualità», sussurrai, ricordando la sua espressione quando gli avevo confessato cosa pensassi sul suo conto.

Camminammo per circa quindici minuti e, mentre Gabriel inveiva contro il fratello, io mi concentravo su ciò che ci circondava. Sin dal primo istante in cui avevamo messo piede nel bosco, non avevo fatto altro che guardarmi attorno, per accertarmi di chissà cosa. Avevo una brutta sensazione, una di quelle opprimenti che ti pressava sul petto, la medesima della scorsa mattina; la quale si era dimostrata veritiera.

Strinsi le braccia al petto e mi sistemai la tracolla che improvvisamente sembrava pesare il doppio. Tutto attorno a noi era scuro, dunque non riuscii a vedere molto, ma c'era qualcosa che non sfuggì ai miei occhi indagatori.

Afferrai il braccio di Gabriel, bloccandolo. «Aspetta», gli sussurrai, puntando lo sguardo davanti a noi, dove vidi avanzare lentamente qualcosa di impossibile. «Non vedi nulla?», gli chiesi titubante e con la consapevolezza che potesse prendermi per pazza.

«No, cosa vedi?»

«Quella nube», iniziai ad indietreggiare lentamente, «sta avanzando verso di noi... Non mi prendi per pazza, vero?»

Lui mi fissò, per poi alzare lo sguardo e aggrottare la fronte. Quella volta fui lui ad afferrarmi il braccio, «non penso che tu sia pazza, dobbiamo andare, dimmi dove la vedi e cerchiamo di evitarla.»

Annuii ed iniziammo a correre nella parte opposta. Dopo nemmeno dieci secondi fummo obbligati a cambiare direzione, svoltando a destra e poi di nuovo a sinistra. Quella nube era ovunque, ci stava accerchiando e non sapevo più dove andare.  Il cuore ricominciò a palpitare forte e la paura ad aumentare sempre di più.

«Non rallentare», urlò lui, ma nemmeno il tempo di ribattere che -a causa della scarsa luminazione- inciampai in una radice e finii a terra.

Gemetti dal dolore, mentre Gabriel tornò indietro e si accovacciò per aiutarmi. Feci per alzarmi ma, siccome avevo la gamba dolorante, poggiai la mano sinistra su quella di Gabriel e quella di destra per terra. «Che...», esclamai a bassa voce quando la mia mano tastò qualcosa di liquido.

«C'è puzza di morto», storse il naso lui, sollevandomi. Effettivamente c'era una nauseante puzza che in quel momento non riuscivo ad identificare. Afferrai il cellulare dalla tasca posteriore della tracolla ed impostai la torcia.

«Oddio!», urlai quando davanti a noi comparse una vasta chiazza rossa e poco lontano da lei dei grandi pezzi di carne sparpagliati confusionariamente. Lentamente abbassai lo sguardo sulla mano che avevo poggiato sul terreno e con orrore la vidi ricoperta di liquido rosso. Lanciai un urlo assordante che avrebbe potuto spaventare chiunque fosse nelle vicinanze. Subito davanti ai miei occhi comparve la notte in cui mio padre aveva perso la vita; anche allora avevo le mani sporche di sangue, con la differenza che avvolte in esse vi era anche una pistola.

Nonostante il dolore alla gamba, iniziai a correre via, ignorando i richiami di Gabriel. A quanto pare qualcuno aveva mangiato carne umana per cena e ciò che più mi spaventava era che sarebbe potuto essere ancora nelle vicinanze.

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