XX ~Visioni~
Oks
Il giorno seguente chiesi a Melinda di accompagnarmi all'incontro stabilito con Efrem per risolvere il malinteso della sera precedente.
Restammo circa un'ora a parlare al parchetto di Woodsville. Efrem si era scusato minimo venti volte e continuava a ripetere che non era sua intenzione farmi del male. Io gli avevo creduto seduta stante, Melinda invece no.
Prima che andasse via mi diede un ultimo abbraccio, un ultimo saluto e un'ultima occhiata. Lo vidi allontanarsi sempre di più nella sua macchina lucente e sportiva.
Lui si allontanava dal nostro piccolo paese verso un futuro prospero, io rimanevo bloccata in gabbia lì e stavo seriamente iniziando a pensare che ci sarei rimasta per sempre.
Dirgli arrivederci non era stato facile, infondo lo consideravo ancora un caro amico. Ero felice per lui, sapevo per certo che a breve si sarebbe laureato con il massimo dei voti e sarebbe diventato un ottimo avvocato.
Sospirai sconsolata e mi avviai con Melinda verso il bar dei suoi genitori.
L'indomani sarebbe stato un giorno speciale per lei, dato che finalmente era giunto il fatidico giorno del festival annuale dei campionati studenteschi sportivi. Mi aveva già fatto una lunga lista di cose da portare, sperando che ci fosse una bella giornata soleggiata.
Ultimamente il cielo era sempre coperto da nuvoloni oscuri che non solo trasmettevano tristezza, ma nascondevano il nostro paese in una bolla invisibile.
Essendo situati alla base di una montagna, il sole era l'unica fonte che ci permetteva di guardare oltre ed essere visibili ai passanti; con il mal tempo eravamo totalmente estraniati dal mondo.
Mi strinsi nel mio giubbotto e camminai, avanzando il passo quando fredde e piccole gocce mi bagnarono il cuoio capelluto.
Quando giungemmo al bar, andai alla cassa per salutare la madre, dopodiché mi sedetti su uno dei sgabelli liberi e poggiai sul tavolo la mia tracolla, estraendo il libro di fisica; molto spesso facevo lì i compiti, era un posto tranquillo e non mi distraevo facilmente. Fin dalla prima liceo avevo sempre preferito studiare fuori casa, ma purtroppo non lo facevo spesso, dato che la mia pigrizia me lo impediva.
«Ecco una buona cioccolata calda per due bellissime studentesse, offerta dalla casa», ridacchiò la madre della mia amica, poggiando due tazze fumanti sul bancone. «Tutto pronto per domani?»
Sia io che Melinda annuimmo, poi aggiunsi: «sì, per il pranzo porterò dei panini e ne farò alcuni anche per Sandel; sono sicura che starà in prima fila per fare il tifo per Melinda.»
«Devo ancora inquadrare per bene quel ragazzo», annuì lei chissà in quali assurdi pensieri. «Efrem è partito?»
«Già, non tornerà nemmeno per Natale, quindi chissà quando lo rivedremo.»
«Per fortuna», borbottò la bionda al mio fianco.
Feci per dire qualcosa, ma la porta del bar venne ancora una volta aperta e il suo magico cavaliere entrò, puntando subito lo sguardo sulla sua amata. Si avvicinò a noi e, dopo avermi salutato, cinse la vita di Melinda con un braccio. Lei era fortuna ad avere genitori non tradizionalisti. Se un ragazzo fosse entrato nel mio negozio e mi avrebbe abbracciata o anche solo sfiorata, mia madre mi avrebbe fatto la classica ramanzina per tenere lontani gli sguardi curiosi della gente.
Davanti a tanta tenerezza non potetti non sentirmi maledettamente esclusa. Consapevole che non avrei mai avuto un ragazzo che si prendesse cura di me e che mi amasse, sorseggiai la mia cioccolata calda.
«Quindi inizia alle nove?», chiese Sandel, sistemandosi lo zaino in spalla.
«Sì, ma se preferisci, puoi venire anche più tardi; le gare si svolgeranno fino alle cinque del pomeriggio.»
«Assolutamente no, non voglio perdermi nemmeno una gara.»
Distolsi nuovamente lo sguardo da loro, per concentrarmi sul nuovo massaggio inviatomi da mia sorella. I miei sensi si attivarono subito quando lessi:
Torna a casa. Ora.
Mia sorella mai, ed evidenziavo il mai, mi aveva inviato un messaggio tanto sospettoso. Solitamente era la mamma ad impormi di tornare a casa per chissà quali assurdi motivi, quindi non potevo non preoccuparmi.
Afferrai il libro di fisica e il quaderno, mettendoli frettolosamente nella borsa e poggiando la cioccolata sul bancone. «Adesso devo andare, ci vediamo domani.»
«Aspetta, non hai nemmeno iniziato a studiare e mi avevi promesso che mi aiutavi con il calcolo dei limiti!»
«Sì lo so, scusami, ma penso sia successo qualcosa a casa; devo andare.»
«Si sta facendo buio, chiedo a mamma di accompagnarti.»
«Tranquilla. Se vuoi, posso darle io un passaggio», intervenne Sandel, «tra poco devo comunque tornare a casa.»
L'idea di farmi accompagnare a casa da lui non mi entusiasmava, ma ero tremendamente preoccupata per Anisha e la curiosità mi stava divorando lo stomaco, dunque risposi: «sì, grazie.»
«Mandami un messaggio quando sei arrivata», mi abbracciò Melinda, «e fammi sapere cos'è successo.»
Annuii e, insieme a Sandel, mi incamminai verso l'uscita del bar. Salimmo entrambi sul suo pick-up e per l'intero tragitto rimanemmo in silenzio. Mi sentivo tremendamente a disagio con lui accanto e speravo di arrivare velocemente a destinazione. Le mie speranze, però, vennero frantumate quando davanti a noi si presentarono cinque auto della polizia e due ambulanze.
Sandel frenò ed aggrottò la fronte, «cos'è successo?», chiese poi, togliendo la cintura e scendendo. Decisi di seguirlo e di capire cosa fosse successo.
Avanzammo entrambi verso l'ammasso di gente che, ovviamente, si era avvicinata incuriosita. Provammo a farci spazio e, quando giungemmo abbastanza vicini da poter vedere cosa fosse successo, i miei occhi si sbarrarono e il sangue nelle vene si congelò all'istante.
Il respiro si bloccò in gola e i miei polmoni iniziano a bruciare per chiedere pietà: quattro corpi, tre avvolti da delle buste nere e il quarto in questo preciso momento stava per essere sollevato per essere nascosto dai nostri occhi.
Lo osservai a lungo, non sbattendo le palpebre nemmeno per un secondo. Osservai come la sua espressione fosse stata immortalata nella paura e i suoi occhi fossero ancora spalancati e ormai privi ormai di vita. Le sue pupille non avevano colore, erano bianche, così come il resto del suo corpo, che sembra non riportare alcun tipo di ferita. I vestiti erano intatti e non vi era alcuna traccia di sangue che faceva intuire un'aggressione.
Quell'uomo mi riportava a quella notte. La notte che aveva segnato per sempre la mia vita. Immagini di me accanto al corpo inerme di mio padre riaffiorarono nella mia mente, il mio sguardo privo di emozioni mentre osservavo il cadavere dell'uomo che mi aveva messa al mondo era agghiacciante e provai solo disgusto nel vedere me stessa.
Tutto attorno sembrava tacere, le persone scomparirono e davanti al mio sguardo comparve solo una cosa: l'uomo.
Lo vidi alzarsi da terra e voltarsi di scatto verso destra. In pochi secondi qualcosa sbucò dal bosco e lo afferrò per il colletto della camicia, sollevandolo in alto. Non era un essere umano, non era un animale, non capii cosa fosse: era alto, possente, aveva gambe, braccia, mani, ma non era un essere umano, era un qualcosa di spaventoso con occhi privi di pupille; non vidi perfettamente il suo viso, ma potetti vedere -nonostante l'oscurità che lo avvolgeva- la sua superficie corporea priva di pelle e composta da un bianco innaturale e apparentemente viscido.
Cosa diavolo stavo vedendo? Erano allucinazioni?
La strana creatura si avvicinò all'uomo che in quel momento era vivo e, nel momento in cui la sua forza vitale sembrava venir meno, udii: «È meglio andare via», la voce di Sandel mi fece sobbalzare dalla paura. Il mio cuore si riattivò energicamente e le mani iniziarono a tremare.
Deglutii, mentre un potente mal di testa mi fece offuscare la vista per qualche secondo.
«Stai sanguinando dal naso!», esclamò poi preoccupanto. «Vieni, in auto ho dei fazzoletti», mi sostenne mentre anche lo orecchie ormai fischiavano e fui scortata in auto. Nonostante i malesseri nati improvvisamente e dovuti a chissà cosa, continuai a tener puntato il mio sguardo sul cadavere che ormai non era più esposto, ma era stato trasportato su di una barella e coperto.
Arrivati nel pick-up mi diede un fazzoletto con il quale tolsi il sangue fuoriuscito e lo tenni fermo alla base della narice per evitare che continuasse a scendere. Ero ancora scombussolata, mai nella vita mi era capitata una cosa del genere. Non era un sogno, io non stavo dormendo, non era nemmeno un'allucinazione. Mi sembrava quasi di aver visto gli ultimi attimi di vita di quel poverino, ma era impossibile!
Ero dotata di ottima fantasia, ma quella andava decisamente oltre.
«Stai bene? Ti vedo spaventata.»
«Sto bene», risposi subito, abbassando lo sguardo sulle gambe. Volevo chiedergli se anche lui avesse visto qualcosa, ma la risposta arrivo immediata: no, era palese. Nessuno aveva visto niente, altrimenti i presenti sarebbero scappati non appena la creatura avesse fatto la sua apparizione.
Stavo impazzendo, era l'unica risposta logica. Era successo tutto a frazione di secondi, non avevo avuto nemmeno il tempo di capire cosa fosse quella cosa.
«Grazie per il passaggio», esclamai, quando giungemmo a casa mia.
«Di nulla, ci vediamo domani.»
«Sì», scesi dal pick-up e mi incamminai verso la mia abitazione.
Con il cuore che batteva forte contro la gabbia toracica e un lacerante peso allo stomaco, salii le scale.
Ero ancora sconvolta per l'improvvisa visione avuta e non ero affatto pronta nel ritrovarmi ad accogliere tra le mie braccia Anisha in lacrime e con le mani sporche di liquido rosso.
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