XIX ~Essere invisibili~

Un potente mal di testa mi diede il buongiorno quella mattina. Le palpebre erano pesanti e faticavano ad alzarsi, gli occhi mi lacrimavano dalla troppa stanchezza, eppure il mio cervello si era attivato già da dieci minuti.

Avrei tanto voluto crollare nuovamente in un sonno profondo, ma sembrava quasi che l'omonimo dei sogni mi avesse abbandonato, costringendomi a svegliarmi.

Lentamente aprii gli occhi e li stropicciai ripetutamente con i polpastrelli, sperando che le lacrime si togliessero e mi permettessero di mettere a fuoco la camera in cui mi trovavo.

In quel momento un enorme masso di oltre tre chili mi premeva sulla testa, mentre sassolini dispettosi mi urtavano le tempie, metaforicamente parlando.
Non mi ero mai sentita così male. Lo stomaco mi brontolava, eppure non avevo fame. La pelle non era per niente liscia e profumata, anzi puzzava da far schifo.

Indossavo ancora il vestito della scorsa sera e, quando poggiai i piedi per terra, un dolore assurdo mi colpì la parte destra della pianta, esattamente accanto al pollice.
Brontolai ed alzai il piede per capire da dove provenisse quel dolore e mi sorpresi nel vedere un'enorme bolla rossa e gonfia causata sicuramente dalle scarpe con il tacco.

In quel momento la porta si aprì e la mia amica entrò con una tuta indosso. Mi fissò senza proferire parola ed io non capii se era arrabbiata con me, o se voleva accertarsi che stessi bene.
«Io... Cos'è successo ieri?», le chiesi con una voce mostruosa, roca e bassa.

«Penso che tu ti sia ubriacata e siamo dovuti tornare a casa. Efrem voleva accompagnarti lui, ma i fratelli non hanno voluto», mi rispose, avviandosi verso l'armadio.

«Io mi sono ubriacata? Impossibile, ho bevuto solo due drink. Sono svenuta? Non ricordo nulla.»

«Sì, più o meno. Durante il tragitto verso casa ti sei ripresa ad intermittenza. Hai iniziato a sparare una marea di cose insensate su un certo coniglio e sulla colpa di Efrem, non volevi scendere dalla macchina perché eri troppo occupata a mandare bestemmie alle tue scarpe», sospirò, «per tua informazione: Gabriel ha litigato pesantemente con Efrem.»

Aggrottai la fronte e rimasi in silenzio. Perché avevano litigato? Ma cosa più importante: perché parlavo di un coniglio e davo la colpa ad Efrem? In quel momento sembrava quasi che il mio inconscio avesse molte più risposte di me.
«Gabriel sostiene che Efrem ti abbia messo qualcosa nel drink, perché eri troppo andata per aver bevuto semplicemente due piccoli shottini. Gli ha urlato contro, ma non ho ben capito cosa gli abbia detto.»

«Non capisco perché lo abbia fatto, a malapena mi rivolge la parola ed osa pure difendermi. Efrem non mi avrebbe mai messo qualcosa nel bicchiere.
Mi dispiace tanto, Melinda, non volevo rovinarti la tua bella serata con Sandel, ti assicuro che una cosa del genere non capiterà più.»
Si, ero sicura che non sarebbe più capitata. Non sarei più uscita con loro. Pensavo che finalmente potevo passare una normale serata come una qualsiasi adolescente, ma mi sbagliavo. Avevo solo rovinato, come sempre, la serata a coloro che mi erano accanto e non volevo commettere due volte lo stesso errore.

Per una volta avevo lasciato da parte la tristezza, il dolore e la timidezza. Volevo semplicemente provare a divertirmi, anche perché era la prima volta che avevo l'occasione di andare in una discoteca. Le mie coetanee erano abituate a divertirsi, ad uscire, a socializzare, ma io non potevo essere come loro.
Era come se il fato fosse costantemente contro di me e contro la mia felicità, mai nella mia vita mi era capitato qualcosa di bello, o di emozionate.

«Non è a me che devi le tue scuso. Ho saputo che quella di ieri, era una serata per festeggiare una promozione di Gabriel. Non ho ben capito in cosa, ma penso nell'ambito lavorativo.»

Mi portai una mano alla fronte, mentre il morale crollava sotto terra insieme al corpo di mio padre. Mi feci veramente schifo, con quale coraggio ero andata lì ieri sera ed avevo addirittura rovinato i festeggiamenti di un povero ragazzo che a malapena mi conosceva? «Non appena lo vedo, gli farò le mie scuse. Adesso devo andare a casa-»

«Aspetta, aspetta, dove pensi di andare così? Puzzi di sudore e alcol, indossi un vestito che -se ti vedessero per strada- ti darebbero della poco di buono e sicuramente hai mal di testa», poggiò sul letto gli indumenti presi poco prima, «fatti una veloce doccia, indossa questi vestiti e scendi si sotto. Mamma ci ha comprato dei cornetti e subito dopo ti dò un'aspirina... A proposito, quando siamo arrivate, i miei stavano già dormendo, quindi non sanno nulla di quello che è successo.»

Annuii e, afferrando le sue cose, mi trascinai verso il bagno. Non era la prima volta che facevo la doccia in casa sua, dunque sapevo benissimo dove trovare gli accappatoi e gli asciugamani.
Mi feci una veloce doccia, strofinando sulla pelle energicamente la spugna e sperando che tutto ciò che era successo la sera prima scivolasse via insieme alla schiuma e alle gocce d'acqua.

Con quale coraggio avrei guardato in faccia i due fratelli non appena li avrei rivisti? 

Mi asciugai e tolsi i cartellini dagli indumenti intimi datomi, indossando il leggings nero e il maglione lungo e largo.
Sciolsi i capelli e li lasciai ricadere sulla schiena mentre osservavo con disappunto il mio viso pallido e gli occhi con due enormi borse scure.

Quando giunsi in cucina forzai un sorriso verso la madre di Melina e mangiai affamata il mio cornetto al cioccolato. Accettai l'aspirina e, senza sprecare altro tempo, lasciai la sua casa per andare nella mia.

Inviai un messaggio a mia madre, dandole il buongiorno come se nulla fosse successo e dicendole che a breve sarei tornata.
Per fortuna, come mi aveva promesso, mi informò che mi sarebbe venuta a prendere con l'auto.

L'aria autunnale iniziava a sentirsi sempre di più. Il freddo mi pizzicava il viso come schegge di vetro e il vento non era altro che suo complice. Ringraziai Melinda per avermi dato un maglione, anziché di una maglia leggera; sapeva benissimo quanto fossi freddolosa.

«Ehi, com'è andata con Melinda?», mi chiese mia madre una volta raggiuntami.

Già, la bugia che ero stata costretta a dire. «Abbastanza bene, sta meglio questa mattina.» 
Magari fosse andato tutto per il meglio.

«Per fortuna. Domani sera ceneremo con Bilel.»

Rimasi in silenzio, anche se avrei voluto sbuffare sonoramente per dimostrarle il mio disappunto. Mia madre passava sempre più tempo con lui, dunque deducevo che la relazione sarebbe andata avanti fino ad arrivare al matrimonio e mi chiesi con quale coraggio io sarei stata presente alla cerimonia e avrei finto di essere felice per lei.

Fare finta... Era tutta la vita che inventavo bugie e facevo finta di essere felice in occasioni in cui avrei voluto solo piangere o urlare.
Me la sarei cavata, come sempre, ma nel mio cuore si formavano sempre più cicatrici che prima o poi si sarebbero crepate e spaccate in mille pezzi.

Nella mia vita non esistevano avventure o esperienze, esistevano solo disavventure.

Quando giungemmo in negozio, il mio cuore iniziò a pompare velocemente e ad un ritmo irregolare. I miei occhi si sgranarono alla vista dei fratelli Lupei e subito il mio sguardo ricadde su Gabriel.
Egli era appoggiato comodamente al bancone, mentre mia sorella gli mostrava dei nuovi fucili.

«Buongiorno», sorrise mia madre, «è da un bel po' che non ci vediamo.»

«Sì, quasi un mese. A me e a mio fratello servono dei nuovi fucili.»

Loro parlavano ed io rimanevo in disparte, come un essere invisibile che lo era da bene diciassette anni, con le mani avvolte attorno alla tracolla, nella quale si celava la mia bugia: il vestito della scorsa sera.
Gabriel non sapeva nulla della mia messa in scena per convincere mia madre a farmi andare. Se avesse fatto una battuta di poco gusto, o semplicemente mi avrebbe chiesto come stessi, sarei finita nei guai.

No, non dovevo pensare cose surreali; era ovvio che lui non avesse chiesto nulla, né avrebbe fatto battute perché a malapena ci parlavamo e non avevamo un rapporto confidenziale.
«Ciao Oks, possiamo parlare un secondo?», chiese a pochi passi da me, con in mano una busta di plastica con all'interno i nuovi acquisti.

Rimasi sorpresa nel sentirlo rivolgersi proprio a me, chiamandomi addirittura con il mio nome. Mia sorella mi guardò incuriosita, mentre io annuii e lo condussi fuori; meglio non parlare davanti a mia madre e a mia sorella.

Mi sedetti sulla panchina in legno proprio fuori al negozio e lo stesso fece lui.
«Mi dispiace», fui la prima a parlare, «Melinda mi ha detto che ieri sera eravamo usciti per festeggiare una tua promozione ed io ho rovinato i festeggiamenti; dunque ti chiedo infinitamente scusa per ciò che è accaduto.»

La sua espressione rimase impassibile, non capii cosa stesse pensando in quel momento e ciò mi provocò un'inaspettata ansia e paura.

«Non devi scusarti se il tuo amico è un'idiota patentato.»

«Come?»

«Efrem non avrebbe dovuto farti bere, volevo solo consigliarti di scegliere accuratamente le tue amicizie. Ci sono passato anch'io e so quanto esse possano essere pericolose.»

Scossi la testa, «conosco Efrem da anni e sono sicura che non puntava a farmi del male ieri sera, voleva solo che mi divertissi», era giusto ciò che avevo detto, vero?

«Oks», sospirò, «Efrem ti ha messo qualcosa nel bicchiere e ti stava trascinando fuori contro la tua volontà, ti sembra un comportamento normale da parte di un amico?»

«Io...», io davvero non ricordavo nulla. Perché Gabriel mi metteva in guardia? Poteva benissimo fregarsene. «Non lo so, non ricordo nulla.»

«Appunto. So che non ti sono simpatico, ma fidati di ciò che ti ho detto: sta lontana da lui. Non avrei alcun motivo per mentirti.»

«Ma Efrem...», era il mio unico amico oltre Melinda. Deglutii mentre gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Forse devo parlare con lui e chiedergli una spiegazione.»

«Va bene, fallo, ma non incontrarlo da sola.»

Annuii mentre lui si alzava. «Gabriel!», lo chiamai, facendolo voltare. «Grazie mille per ieri sera, davvero. Ti auguro il meglio per la tua promozione.»

«Non mi devo ringraziare», detto questo, andò via per raggiungere suo fratello.

Se lui si era preoccupato un po' per bene, significava che non ero tanto invisibile quanto lo pensassi.

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