LXXV ~La battaglia si avvicina~

«Non verrai.»
«Invece verrò.»
«Ti incateno con Efrem.»
«Provaci se ne hai il coraggio, ormai sono perfettamente in grado di difendermi.»
«No, non ne sei in grado.»
«Invece sì e dunque verrò.»
«Non verrai!»

«Ragazzi vi prego basta, mi state facendo salire il nervoso!», piagnucolò mia sorella, frapponendosi tra me e Gabriel.

Effettivamente aveva ragione, erano quasi due ore che discutevamo e in casa non si sentivano altro che le nostre voci. Mia madre si era rintanata in camera sua pur di non sentirci, mentre Anisha era rimasta con noi.
«Scusami», sospirai, «ma odio quando qualcuno mi dà ordini.»

«Non voglio darti ordini, Oks, lo faccio per il tuo bene; non voglio che tu scenda in guerra!»

«Potrei esservi di aiuto, potrei-»

«Saresti solo una distrazione!», alzò la voce, battendo un pugno sul tavolo. «Non riuscirei a concentrarmi con te costantemente in pericolo, lo capisci? Inoltre non sappiamo nemmeno-», si bloccò, lanciando una veloce occhiata ad Anisha.

«Cosa?», chiese lei non capendo e facendomi emettere l'ennesimo sospiro.

«Gabriel, sto bene, non è successo nulla», quasi parlavamo a codici.

«Continuo a non capire.»

Mia sorella non sapeva nulla, non sapeva che c'era un'alta probabilità -ma non altissima- che io fossi incinta.
«Ecco...», come potevo spiegarlo? Gabriel era in silenzio, ovvio, era mia sorella, spettava a me dirlo. «Okay, niente giri di parola, non abbiamo tempo nemmeno per quello. C'è una piccola probabilità che io sia incinta.»

«Che cosa? Come? Tu? Quando?», balzò in piedi e mi si avvicinò. «Stai scherzando? Perché non sei stata attenta?»

«È stato un incidente... La colpa  è mia», intervenne Gabriel.

«Ma ancora non ne sei sicura, giusto? Hai fatto il test?», mi chiese lei.

«Non ancora, però... Ho un ritardo», e quello Gabriel lo sapeva.

«Ti fermo subito, non puoi essere così stupida. Gabriel per favore va' a comprare un test.»

«Lei non vuole, ci sto provando da giorni a convincerla», mi indicò.
Era vero, lui più volte aveva provato a convincermi, ma io ero irremovibile. Avevo paura, paura di scoprire il risultato.
«Oks», mi si avvicinò, «per favore, anche tua sorella è d'accordo, dobbiamo esserne sicuri.»

Li capivo, ma...
«Va bene», sospirai. Lui annuì felice e disse qualcosa ad Anisha, ma ormai la mia testa era volata altrove. Se fossi stata veramente incinta, cosa avrei fatto? La situazione non ci permetteva nemmeno di pensare ad un possibile futuro, figuriamoci ad un bambino.
Eravamo quasi in guerra ed io ero fondamentale per tutti.

Ero talmente immersa nei miei pensieri che non mi resi conto del tempo: Gabriel era appena tornato.
Improvvisamente una potente ansia mi assalì e il cuore iniziò a battere forte.
«Oks», mi poggiò una mano sulla spalla. «Andiamo insieme.»

«Vi aspetto qui, fatemi sapere.»

Annuii ed insieme a Gabriel mi incamminai verso il bagno. Seguii tutte le istruzioni, dopodiché mi sedetti sul water e chiusi gli occhi.
«Oks», mi richiamò lui, «qualsiasi sia l'esito, ricorda che non sei sola.»

«Non sono pronta Gabriel e sono certa che non lei neanche tu.»

«Sì, è vero, chi lo sarebbe. Ma se quel test fosse positivo, troveremo una soluzione.»

Abbozzai un amaro sorriso, «mi stai dicendo che lo accetterai? Non scapperai in Messico.»

«Certo che no, ma per chi mi hai preso?!»

«Scusa scusa», poggiai la fronte sulla sua e ispirai il suo profumo, «attualmente non sono in me.»

Lui non rispose, semplicemente mi abbracciò ed insieme attendemmo cinque minuti. Quando furono passati, con la mano tremante presi il test e lo tenni girato, fin quando lui non poggiò la mano sulla mia ed insieme lo girammo.

Non incinta

Buttai fuori tutta l'aria che avevo trattenuto e il peso allo stomaco scomparve.
Mi voltai verso di lui sorridente e lui ricambiò.
Pericolo scampato.

«Sì ma comunque tu sul campo di battaglia non scendi», precisò.

Rimasi in silenzio ad osservarlo. Ormai ero psicologicamente stremata, tutta quell'ansia provata non aveva giovato al mio povero corpo.
Avevo una terribile sensazione legata alla battaglia, una di quelle che non mi facevano dormire la notte. Ero sicura che qualcuno di loro non se la sarebbe cavata bene e volevo essere lì per aiutarli, ma come potevo farglielo capire? Più volte gli avevo spiegato il motivo, ma continuava a ripetere che sarebbe andato tutto bene solo se io sarei rimasta a casa.

Gli diedi le spalle, sedendomi sul letto. «Va bene.»

«Bene», fu tutto ciò che disse per poi andare via in soggiorno per avvisare Anisha, probabilmente.
Nonostante avessi acconsentito, ero sicura che avrei preso parte alla battaglia. Ero una ragazza estremamente testarda e non mi importava del suo volere; dovevo evitare assolutamente che qualcuno si facesse del male o andasse incontro alla morte.

«Oks», Anisha richiamò la mia attenzione. Da quanto era entrata in camera? «Per favore non fare stronzate, conosco quella espressione, stai architettando qualcosa.»

«Non sto architettando nulla», mi alzai e presi i libri dalla scrivania, almeno era un buon modo per distrarsi.
Passai cosi le successive ore, tra fisica, chimica e filosofia, non che avessi chissà quanta voglia di studiare, ma non volevo rimanere indietro con il programma.

Quella stessa mattina avevamo consegnato il foglio datomi da Efrem alla Regina, la quale aveva subito capito di cosa si trattasse; incredibile come avesse la risposta a tutto, vivere per tre secoli ed accumolare esperienze aveva dato i suoi frutti, a quanto pare.
Per quanto riguardava Efrem, il poverino era costretto a restare in negozio... Incatenato. Per nostra fortuna non aveva obiettato quando gli avevamo riferito il mio piano, aveva compreso le mie ragioni e senza fiatare si era lasciato conduerre al piano inferiore. Non volevo trattarlo in quel modo, ma per il momento era la soluzione migliore.

«Oks! Io e la mamma ordiniamo delle pizze per stasera, tu hai finito?», sbucò mia sorella sull'uscio.

«Sì, prendiamone una anche per Efrem.»

Annuì e se ne andò, digitando il numero sul cellulare. Mi alzai dal letto, poiché ero solita studiare lì, e feci una coda alta per provare a domare i ricci ribelli. Indossai poi una felpa e mi recai in salone, sedendomi sul divano accanto a mia madre.

Il mio sguardo cadde sul pancione sempre più gonfio e finalmente realizzai che a breve avrei avuto un fratello, o una sorella. Di certo non mi sarei mai aspettata una cosa del genere e, soprattutto, di viverla in quel modo. Dov'erano le ecografie? Dov'era la grande emozione il nascituro? Dov'era lo shopping sfrenato per tutine, passeggino, culla e quant'altro?

Quel bambino non avrebbe avuto nulla, probabilmente nemmeno l'amore della mamma.
«Secondo me è maschio», la sua voce interruppe il mio monologo. Come una scema ero rimasta a fissare quel ventre per troppo tempo. «Ovviamente non ne ho la certezza, ma ho questa sensazione», abbozzò un sorriso, poggiando una mano sul pancione.

«Mmm...», mi limitai a mugolare.

«Non hai mai avuto visione sul bambino?»

«No», per mia fortuna. Non osavo immaginare cosa sarebbe uscito da lì dentro, speravo solo che non ereditasse la stupidità del padre.

«Mmm capisco. Sai, manca meno di un mese.»

Così poco? Pensavo fosse al sesto, o al massimo, settimo mese di gravidanza!
Facendo un breve calcolo, era uscita incinta prima di tutto ciò, non durante la sua permanenza al covo!
Chissà quando lo aveva scoperto, possibile che già lo sapesse e non ci avesse detto nulla?
Con lei tutto era probabile. «Vado a prendere un bicchiere di acqua», esclamai, prima di recarmi in cucina, dove trovai Anisha poggiata al lavello con la testa sorretta dalle mani.

«Ehi... Tutto bene?», mi avvicinai preoccupata.

«Sì... Mi sento solo un po' stordita.»

«Perché non vai a riposarti?»

«Non ho molto sonno, andiamo da mamma», seppur non fossi d'accordo, annuii e le afferrai un braccio nel caso in cui avesse un mancamento o sbandamento.

«Tutto bene?», chiese nostra madre non appena ci vide; evidentemente doveva aver ascoltato un po' la nostra conversazione.

«Sì tutto bene», Anisha si sedette accanto a lei e tutte tre, in trepida attesa delle pizze, guardiamo un film comico alla tv. Era da tanto tempo che non passavamo una serata tanto rilassante. Prima di tutto ciò, i nostri rapporti non erano chissà quanto forti, ma a causa degli ultimi avvenimenti eravamo state in grado di saldare notevolmente quel briciolo di familiarità che era rimasta.

Di certo non eravamo la classica famiglia di città, ma almeno ci rivolgevamo la parola senza urlarci contro.
Passammo cosi le ore successive e senza nemmeno rendercene conto ci addormentammo sul divano.
Il mattino seguente venni svegliata dalla vibrazione del mio cellulare e per recuperarlo ci impiegai circa due minuti.

«P-Pronto», risponsi con la voce impastata dal sonno. Provai a raddrizzare la schiena, ma un dolore lancinante mi colpì lungo la colonna vertebrale; ecco la conseguenza di addormentarsi sul divano.

«Oks! Finalmente, questa è la undicesima volta che ti chiamo, stavo iniziando a preoccuparmi.»

Chiusi gli occhi, poggiando la testa sul bracciolo del divano. «Mmmm.... Ma chi sei?»

«In che senso chi sono? Sono Melinda! Oks... Ma sei ubriaca?», abbassò il tono di voce all'ultima domanda, quasi come se non volesse farsi sentire.

«No, sono solo una povera ragazza che si è appena svegliata.»

«Sono passate le dieci! Ti dò venti minuti per farti una doccia gelida, vestirti e correre al campo sportivo. Ci sono quasi tutti, sbrigati, abbiamo molto di cui parlare.»

«Va bene...», borbottai a malapena.

«Oks?»

«Si?»

«Svegliati!!»

Scostai il cellulare dall'orecchio prima che il suo urlo potesse rompermi un timpano e staccai la chiamata. Perché? Perché dovevo ricevere un risveglio tanto traumatico?
Sbuffando mi incamminai verso il bagno per fare una veloce doccia fredda ed indossare un paio di shorts con una camicetta azzurra.

Mi feci una coda alta e lasciai un messaggio a mia madre e mia sorella per non farle preoccupare di una mia possibile scomparsa.
Scesi velocemente le scale di casa e superai il negozio, non prima di aver lanciato un'occhiata ad Efrem, il quale dormiva come un ghiro sul letto che avevamo improvvisato sul momento.
Avevamo deciso di comune accordo di inserire dei sonniferi nel cibo, sempre con dosi costanti e piccole, preferivamo tenerlo quanto più possibile privo di sensi.

Appena uscii di casa venni avvolta da una nebbiolina quasi inesistente. Riuscii a scorgerla solo per brevi tratti e sembrava non essere molto fitta. Mi guardai attorno mentre camminavo verso il centro sportivo, notando che non si trattava della classica nebbia che si creava in alta montagna, bensì di una nebbia verdastra che conoscevo particolarmente bene.
Ancora incredula per ciò che stavo vedendo, continuai ad ispezionare l'intero territorio, rendendomi conto di essere circondata da essa.

Perché il paese era parzialmente avvolto dalla nebbia velenosa dei Rosius? Essa non doveva fermarsi ai margini del bosco?
Il panico subito si impossessò di me non appena ricordai che Gabriel e il suo branco non devono assolutamente respirarla!
Iniziai a correre per arrivare quanto più velocemente al campo sportivo e quando ci arrivai, rimasi spiazzata nel vedere tutti parlare tranquillamente tra loro senza ombra di panico.

«Oks! Siamo qui!», la mia amica sventolò una mano per farsi vedere.

«Melinda... Come mai tutti allegri questa mattina?», chiesi mentre sentii qualcuno afferrarmi per un braccio e trascinarmi verso dietro, ben presto mi ritrovai seduta sulle gambe di Gabriel. Senza imbarazzo mi stampò un bacio sullo guancia, lasciandomi confusa e spiazzata; mai aveva dato dimostrazioni di affetto in pubblico.

«Sono felici perché stamani sono arrivate le armi da Northside», spiegò Sandel. «A tutti sono stati dati degli accessori in oro che gli permetteranno di uscire illesi dalla nube velenosa. Poco più in là ci sono i vampiri che stanno saltellando di gioia.»

«In cosa consisterebbero questi accessori?», chiesi, guardandomi attorno e vedendo la nube avvolgere tutti.

Sandel esitò dal darmi un risposta, per poi emettere un colpetto di tosse e borbottare: «collari.»

«Cosa?», chiesi, riportando la mia attenzione su di lui.

«Sono dei collari», indicò l'oggetto che portava al collo e che gli andava leggermente grande, tanto da oscillare. Sembrava realmente un collare per cani. Per poco non scoppiai in una sonora risata, ma potevo benissimo capire il loro disagio.

«Li hanno progettati così grandi per evitare che si spezzino durante la trasformazione», mi riferì Melinda.

Feci per darle una risposta, ma venni fermata da una visione, che si presantò come la prima dopo tanto tempo. Quella volta, a differenza delle precedenti, non mi focalizzai su una determinata scena né sentii un dialogo, bensì intravidi diverse immagini: la foresta, io di fronte a Bilel, una lotta, una squarcio profondo sul suolo, vittime... Tante vittime, un calendario che segnava il ventisette marzo.

«Oks... Oks!», sentii scuotermi la spalla. «Va tutto bene? Ti sei improvvisamente incantata», chiese Gabriel preoccupato. «Hai avuto una visione?»

Mi limitai ad annuire, grattandomi la nuca. «Sandel devi ordinare al tuo branco di non togliersi mai il collare, nemmeno la notte, devono tenerlo ventiquattro ore su ventiquattro.»

«Questo riguarda la visione che hai avuto? Prima della battaglia potrebbero anche toglierli.»

«No, non è per la visione. Se togliete adesso i collari, morirete tutti», sventolai una mano per aria, «siamo circondati da nebbia velenosa, ma è talmente inesistente che a malapena riesco a vederla o a percepirla.»

I due ragazzi subito si raddrizzarono in allerta. «S-Siamo circondati?»

«Sì, non appena sono uscita l'ho vista, ma non è fitta né tantomeno potente da devastare l'intero villaggio. È come se si stesse irradiando pian piano dal bosco.»

«È impossibile, così facendo Bilel mette in pericolo la gente del paese.»

«Lo so», annuii, «ma probabilmente a lui poco importa. Ha un obbiettivo e per raggiungerlo farebbe di tutto.»

«In tal caso andrebbero avvisati, no?», chiese Melinda titubante. «La gente deve sapere che è in pericolo.»

«È cosa gli diciamo? Che il macellaio pazzo ha lanciato una nube velenosa dal bosco al paese? Non ci crederebbero mai», contraddisse Gabriel.

Ripensai subito alla visione appena avuta, allontanandomi dal loro discorso. Il ventisette marzo... Era tra due giorni. Possibile che Bilel avesse intenzione di attaccarci proprio in quel giorno?
«Ho un'idea» li interruppi, «esiste solo una soluzione a questo problema: dobbiamo corrompere in qualche modo il sindaco e obbligarlo ad evacuare il paese.»

«Evacuare? Oks, hai idea di cosa significa? Dovremmo mandare via l'intero paese, dove li manderemo?», Melinda e la sua saggezza colpirono ancora.

«Al paese vicino, non dista molto.»

«È troppo azzardato», scosse la testa Sandel, «per effettuare un evacuazione bisognerebbe atture un piano ben preciso e ci vorrebbero mesi prima di portarlo al termine.»

«Siamo in stato di allarme, Sandel, le procedure si velocizzeranno. Preferisci che tutti i cittadini muoiano?», sospirai e ripresi fiato, «prima ho avuto una visione e ciò che ho visto non mi è piaciuto per niente: ho visto la guerra, ho visto la data in cui probabilmente Bilel attaccherà e ho visto delle vittime... Tante vittime che non sono riuscita a distinguere tra umani, lupi o vampiri.»

Sentii la mia amica deglutire e spostare lo sguardo su Sandel. Nei suoi occhi potei benissimo leggere la paura, cosi come il panico che si stava impossessando di me; sembrava quasi che l'intera situazione ci stesse per sfuggire di mano e ciò non andava assolutamente bene.

«Ne parlerò al consiglio di oggi», esordisce Sandel, lasciandomi confusa. Consiglio?

«Oggi abbiamo un incontro con il nostro Re, ovviamente vuole fornirci tutto il supporto possibile e se siamo fortunati entro stasera avremo nuovi alleati», spiegò Gabriel, vedendo la mia faccia confusa.

«Siamo diventati quasi una leggenda», si avvicinò Stella, sedendosi sul muretto a gambe incorciate. «Alcuni ci chiamano "i pazzi di Northside" poiché sostengono che solo dei pazzi andrebbero contro i Rosius. Altri invece ci definiscono futuri eroi, coloro che finalmente metteranno fine a questo incubo.»

«Siamo entrambe le cose, effettivamente. Siamo giovani, inesperti, pazzi, ma voglio vivere in santa pace.»
Non ne saremmo usciti illesi, quello era sicuro, ma speravo di uscirne vincitori.

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