IV ~Maschere di ferro~

Sandel

La nostra vita era caratterizzata da continui spostamenti, non avevamo una casa io e mio fratello Gabriel, ma in compenso avevamo una grande famiglia che amava viaggiare e scoprire nuove posti.

Tutti noi vivevamo nella natura e pregavamo la Dea Luna, colei che ci aveva generati. Ormai erano anni che, con la scusa di voler conoscere terre nuove, scappavamo dai nostri reali problemi. Nonostante molti ci definissero codardi a noi stava bene e non volevamo cambiare nulla. Prima di stabilirci in un nuovo posto, io e mio fratello, essendo quelli con maggior autocontrollo ed esperienza, avevamo il compito di setacciare la zona ed eliminare i possibili Rosius presenti in essa.

Sapevamo per certo che, nonostante il mondo fosse enorme, quelle creature si nascondevano in ogni angolo del pianeta e la sicurezza non era mai troppa; inoltre ci era arrivata la notizia che nel posto in cui avremmo stabilito per un paio di mesi, erano stati trovati morti dei cacciatori, uccisi da una presunta bestia.

Il gran giorno arrivò velocemente, il giorno in cui io e Gabriel dovevamo setacciare le zona ed eliminare possibili Rosius... Sperando di uscirne illesi, ovviamente. Quel mio piccolo monologo interiore lo ripetevo ogni qualvolta avevamo tale compito, poiché dovevo ricordare a me stesso il motivo per il quale la mia vita era continuamente appesa ad un filo: lo facevo per la mia famiglia.

«Gabriel sei sveglio?», urlai dalla mia tenda.

«Non urlare a prima mattina, ci sono bambini che dormono», borbottò, comparendo a pochi metri da me.

«Scusa. Hai preso tutto l'occorrente?»

Lui si tolse lo zaino dalle spalle e da esso estrasse due fucili, i monitor che ci aiutavano a rilevare il veleno dei Rosius e le maschere senza le quali la morte era assicurata.
Esse ci erano state fornite dal nostro Re, il quale aveva chiesto alle streghe di Northside di crearle mediante una particolare magia di cui non conoscevo l'esistenza. Erano state realizzate con del materiale in ferro e ci proteggevano dalle particelle di veleno -fatale per noi- emanate dai Rosius; essendo invisibili non potevamo vederle, ma poteva più o meno risalire alla posizione del padrone che le aveva generate. Ero abbastanza sicuro che il nostro Re avesse fornito una spiegazione alternativa e falsa per la creazione di tali maschere, poiché oltre noi nessuno sapeva dell'esistenza dei Rosius. Esse erano creature spietate e senza un briciolo di umanità o lucidità.

Capivamo subito quando ci trovavamo in prossimità del nemico, i nostri sensi si attivavano e l'aria diventava più pesante. Le nostre ipotesi venivano confermate dai monitor; anch'essi realizzati dalla medesima strega.

Afferrai ciò che mi apparteneva e lanciai uno sguardo ai lupi di guardia, i quali ci salutarono con un sollevamento del mento.
Indossammo le maschere e ci avviammo nel bosco.

«Quanto tempo ci vorrà più o meno secondo te?», chiesi, non staccando gli occhi dal monitor

«Non ne ho la più pallida idea, l'importante è che li scoviamo tutti. Iniziamo dal lato nord?»

Annuii e ci inoltrammo proprio nel cuore del bosco, dove -passate più di due ore- non trovammo altro che animali selvatici e alberi.
Entrambi continuammo l'ispezione senza mai abbassare la guardia, ogni tanto ci lanciammo occhiate interrogative e confuse; solitamente dopo nemmeno dieci minuti di caccia, venivamo attaccati dai Rosius: così come noi possiamo captare loro, loro possono captare noi.

Impossibile che lì non c'è ne fosse nemmeno uno, dalle nostri fonti risultava il contrario.

«È da questa mattina che cacciamo, possibile che si siano nascosti per paura?», chiese esasperato Gabriel, mentre ci riposavamo nelle prossimità di un ruscello. L'ora di pranzo era passata da un pezzo, ma -nonostante entrambi avessimo paura di abbassare la guardia e di farci trovare impreparati- non potemmo non mangiare qualcosa.

«Loro non hanno paura di nulla, non ragionano», alzai lo sguardo dal mio panino e lo puntai verso un paesino poco lontano, «più tardi potremmo andare lì per fare rifornimento, ci restano pochi colpi.»

«A mio parere possiamo andare anche ora, qui non c'è nulla.»

«Per avere la coscienza pulita ed essere sicuro al centouno percento che non ci sia nessuno, propongo di perlustrare anche il lato ovest.»

«Va bene, ma muoviamoci, fiuto una tempesta in arrivo.»

Alzai il viso verso il cielo limpido e soleggiato e lo riabbassai confuso. Non capivo come facesse a fiutare le futuri pioggie. Anche l'ultima volta si era avverata ed io avevo fatto la figura del meritato coglione, dunque preferivo credergli e restare in silenzio.

Calpestammo i rami degli alberi caduti e di tanto in tanto incontrammo conigli che saltellavano allegramente da un cespuglio all'altro.

Poco prima di giungere in paese, il sole calò e il cielo lasciò spazio a nuvoloni neri e pieni di pioggia. Decidemmo dunque di tornare all'accampamento, ma durante il tragitto venimmo colpiti da un forte vento e da tanta pioggia.

«Fratello, non pensi sia meglio andare in paese? È più vicino e ci arriveremo in dieci minuti», urlò Gabriel, per sovrastare il fischio del vento.

Mi portai una mano sul viso, «penso sia un'ottima idea, sbrighiamoci!»

Iniziammo a correre veloci verso il paese vicino, riuscendo ad arrivarci anche prima di dieci minuti.
Ci rifugiammo sotto un tendone e ci guardammo attorno: con nostra grande sorpresa notammo che tutte le case avevano le luci spente e non vi era nemmeno un negozio aperto. Era un paese abbandonato? No di certo. Vidi l'ora che segnava il mio orologio e mi voltai verso Gabriel, «sono quasi le undici, dobbiamo solo sperare di trovare un Motel o un bar aperto», mi tolsi la maschera di ferro e scossi il viso per staccare le ciocche di capelli bagnati dalla fronte. «Da qualche parte ci deve pur essere una mappa che ci mostra le vie del paese.»

«Non penso che ci sia, questo paese è talmente piccolo che non ne ha bisogno», borbottò lui, sbuffando.

Poco distante da noi vidi un'abitazione a tre piani, l'unica ad avere poche luci accese, focalizzai la vista sull'insegna di essa e mi illuminai nel leggere: La pensione di Bobby.

Afferrai il braccio di mio fratello e lo trascinai sulle scalinate in legno che ci condussero davanti alla porta di ingresso. Bussai ripetutamente alla porta, ma nessuno venne ad aprirci. Gabriel iniziò dunque a suonare il campanello. «C'è qualcuno!», urlai, «andiamo, sappiamo che c'è qualcuno, la prego ci apri.»

La porta miracolosamente venne aperta di poco e dietro di essa sbucò un occhio verde contornato da rughe. «Chi siete? Cosa volete?»

«Siamo forestieri, abbiamo bisogno di riparo dalla tempesta», rispose mio fratello.

«Non posso farvi entrare, ordini superiore, non sapete del coprifuoco?»

Aggrottai la fronte, «quale coprifuoco? La prego stiamo congelando qui fuori, non siamo di queste parti e la sua è una pensione per ospitare gente che lo richiede!»

Tentennò leggermente, per poi aprirci la porta e -con un'alzata di mento- ci invitò ad entrare. Felicissimi entrammo prima che il vecchio cambiasse idea e ci togliemmo di dosso gli zaini zuppi.
«Se qualcuno ve lo chiede, siete arrivati nel pomeriggio», andò dietro ad un bancone di legno e afferrò una delle chiavi penzolanti dai chiudi affissi al muro. «Non abbiamo né numeri né lettere, questa è una piccola pensione, la vostra stanza è al primo piano, seconda porta a destra.»

«La ringraziamo infinitamente e ci scusi se l'abbiamo spaventata», dissi educatamente, mentre mio fratello aveva già afferrato le chiavi ed era salito di sopra. Forzai un sorriso e, riprendendo le nostre cose, salii anch'io.

La camera era molto piccola, ma almeno aveva tutto ciò che ci sarebbe servito per una notte. Una volta tolti gli abiti, li depositammo accanto al camino acceso poco prima da Gabriel con la poca legna che vi era lì vicino.

«Bella la scusa del raffreddarsi», ridacchiò lui, buttandosi sul letto a peso morto.

«Non avevo altre scuse, hai tutti i capelli bagnati! Abbi almeno la decenza di andarli ad asciugare con il phon!»

«Che c'è cucciolotto, non vuoi che ti bagni le lenzuola su cui dormirai? Quella vecchia bisbetica ci ha dato una camera con un letto matrimoniale, manco fossimo amanti!»

«Hai paura di non resistermi?», lo stuzzicai.

«Taci, uomo, mi farebbe schifo anche se non fossi mio fratello. Adesso lasciami dormire perché ho sonno.»

Per una volta gli diedi retta e mi sdraiai anch'io, cadendo subito in un sonno profondo. Il mattino seguente ci svegliammo tardi -più o meno verso l'una- il che era abbastanza comprensibile, dato che il giorno seguente avevamo effettuato un lungo cammino.

Una volta preparati, ringraziammo -anzi, io ringraziai- il vecchietto della pensione, dandogli qualcosa di soldi per il disturbo. Dopodiché mangiammo al volo un panino e ci dirigemmo al negozio di articoli da caccia del paese.

Come supposto da mio fratello, il paese non aveva a disposizione una mappa per orientarci. Ben presto però capimmo che quel paese era talmente piccolo che non necessitava di una mappa, dunque trovammo facilmente il negozio in questione.

Non appena entrammo, vennimmo accolti da una donna con un sorriso inquietante e successivamente dall'arrivo della figlia.
Non potetti far a meno di contemplarla. Era graziosa, minuta e con poche lentiggini sul viso.

Rimase in silenzio mentre attendeva il ritorno della madre. «Ciao», provai a parlarle, ma non mi rispose. «Io sono Sandel e lui è mio fratello Gabriel, siamo conosciuti come i fratelli Lupei, sicuramente avrai sentito parlare di noi.»

Scosse il viso e continuò a restare in silenzio. Era molto timida a quanto pare, infondo le rosse lo erano sempre.  Solitamente venivamo subito riconosciuti nel nostro mondo e da qualche essere umano per la nostra innata passione per i viaggi; addirittura una volta venimmo intervistati per un documentario all'estero.
«Ah no? Mi sembra strano...»

«Ecco qui, mi scuso per l'attesa», la madre sbucò fuori dal nulla, facendomi passare lo sguardo dalla figlia a lei. Mio fratello, d'altro canto, non le staccò gli occhi da dosso e non ne capii il motivo.

«Nessun problema, ci siamo intrattenuti con vostra figlia; ragazza alquanto silenziosa», scherzai. La ragazza, però, non si scompose e rimase seria a fissarci. Mi fece quasi paura, possibile che sulle quelle rosse labbra non le sfuggiva nemmeno un sorriso?

«Chi? Oks? Bella questa. No, Oks è una gran chiacchierona.»

«Dunque ti chiami Oks», le rivolsi ancora una volta la parola, «bene, Oks, penso ci rivedremo presto.»
Affermai sicuro, dato che saremmo rimasti lì per i prossimi mesi.

Pagammo tutto ciò che avevamo acquistato ed usciammo dal negozio.
«Quella ragazza non mi piace.»
«Quella ragazza mi intriga», commentammo io e mio fratello all'unisono, «cosa? Perché non ti piace?»

«Non hai percepito l'aura che emana? Non mi fido di lei.»

«Non iniziare con le solite paranoie, è una normale ragazza di montagna!», o almeno era quello che speravo

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